31 ottobre 2007

Ultimo giorno a Katmandu (12 gennaio 2006)

Mi cola il naso perché mi sono buscata il raffreddore o perché sono sull’orlo delle lacrime? Mi strappa il cuore andarmene. E non è perché lascio mia sorella o mia nipote. Piuttosto perché, probabilmente, non vedrò mai più Katmandu. Ho appena fatto colazione, come quasi ogni giorno in questa breve vacanza di gennaio e pure la scorsa estate, al New Orleans Café. Casa mia, praticamente: un posto che non c’è bisogno di fissare nella memoria perché ha lasciato da tempo una traccia indelebile dietro i miei occhi, mi basta chiuderli per vedere ogni tavolo, ogni mattone, ogni finestra e, soprattutto, ogni volto. Qui tutti mi conoscono, dal padrone ai gestori ai camerieri (pure qualche altro avventore abituale, ma quello non conta), tutti ricambiano i miei sorrisi, persino il cameriere triste, quello che una volta ci ha mostrato le foto dei suoi figli, e ho la presunzione che quando dopo il namaste lanciano il consueto “how are you” non sia solo buona educazione. Mi sono mancati in questi mesi, da agosto a ora e, ormai, è probabile, continueranno a mancarmi per sempre.
Io sono pazza di Katmandu, mi è piaciuta la prima volta che l’ho vista cinque anni fa, quando non avrei mai potuto immaginare che venisse a viverci, seppure solo per un anno, la sorellina. E mi piace ancora più ora, che ho imparato a lasciarmi andare al suo ritmo lento che forse è proprio degli indù e forse è solo relax personale. Mi piace tutto, Thamel, che ormai conosco bene, ma anche Maharajgunj e la via delle ambasciate che non ricordo come si chiama. Per non parlare della valle, che è una collana di perle patrimonio dell'umanità. O di Bouddanath, l’enclave tibetana con il più noto stupa del Nepal. Ormai, dopo aver amato Bouddanath, mi commuovo alla vista di uno stupa qualsiasi. Questa è la vecchiaia, però, non la nostalgia.
Non sono ancora partita e già la rimpiango. Forse perché ho paura che questo sia davvero un addio.
Namaste e donnebat, Katmandu.


(nella foto: l'immagine del grande stupa di Bouddanath che, da allora, vive nel mio cellulare)

30 ottobre 2007

Di nuovo a Katmandu (9 gennaio 2006)

Da qui tutto sembra così diverso e le mie piccole preoccupa- zioni quotidiane così meschine che mi domando che ci faccio lì (quando ci sono), ma questa è una storia troppo lunga. Nella mia assoluta incongruenza sto ascoltando Dave Brubeck e Keith Jarrett a ripetizione, che c’entrano come i cavoli a merenda, grazie al mio nuovissimo e fantasmagorico iPod nano nero (piccolo stacco pubblicitario?).
Per essere seri, qui si è quasi in guerra. I guerriglieri maoisti all’inizio di gennaio hanno interrotto la tregua da loro proclamata e mai troppo rispettata dal governo, proprio perché unilaterale: l’esercito ha compiuto una strage sparando sulla folla riunita per una manifestazione religiosa a Nagarkot circa un mese fa. Risultato: gli attentati sono ricominciati. A Katmandu non si nota tanto, a essere molto attenti si rileva un briciolo di fibrillazione in più tra i poliziotti ai posti di blocco, ma, forse, dopotutto, non è altro che autosuggestione. Mi dicono tuttavia fonti superattendibili, attualmente in una delle zone controllate dai guerriglieri, quella di Rukum, a ovest di Katmandu, che l’esercito maoista si sta preparando per spostarsi verso est. Nei prossimi giorni i black out, di per sé non rari, potrebbero farsi più frequenti, visto che le centrali elettriche sono spesso nel mirino dei guerriglieri e, chissà, si potrebbe persino arrivare alla chiusura degli aeroporti internazionali. Insomma, la situazione è critica. Sul serio.


(nella foto: Durbar Square, Patan, nella valle di Katmandu)

28 ottobre 2007

Eh, sì, sempre da Katmandu (29 luglio 2005)

Giornata strike, oggi. Stamane a Pashupati, posto denso di magia, dove gli indù cremano i loro morti lungo le rive del fiume Bagmati, affluente del Gange. Carlito e io abbiamo assistito a una cremazione: la preparazione del cadavere, l’incenso bruciato a mazzetti, le corone di fiori gialli e arancioni, soprattutto arancioni, posate sul corpo. Poi l’uomo che fu (sono certa che si tratti di un uomo, non so perché) viene trasportato su una pira già pronta (nella foto). I fiori vengono gettati nel fiume, così come parte dei teli, ancora una volta arancioni, che lo ricoprono. Fasci di paglia vengono bagnati nel Bagmati e poi collocati sopra il cadavere. Il fuoco viene appiccato sotto la pira e, in parte, anche alla paglia che copre il corpo.
Un denso fumo scuro si alza dalla pira e si dirige verso destra, cioè verso il ponte. Venendo dal tempio d’oro riservato agli indù, a sinistra del ponte, ci sono le cremazioni dei ricchi e delle celebrità, a destra quelle della gente comune. Quella cui abbiamo appena assistito era senza dubbio una cremazione ricca.
Scendiamo verso il tempio di Batchhla Dev, con le sue sculture erotiche intagliate, ma fuggo presto e riattraverso il fiume: sono sottovento e mi arrivano addosso i fumi della pira. Sul lato opposto del Bagmati decine, o forse centinaia, di tempietti. Ciascuno di essi contiene un lingam in pietra, ovvero un pene, di Shiva (Pashupati è uno dei tanti nomi di questa divinità). Davanti a ciascuno di essi giace una statuetta del toro Nandi, cavalcatura del dio in questione, accovacciato; e pazienza se tutti questi animaletti più che tori sembrano tapiri. Davanti o di fianco a ciascuno di essi, o quasi, è seduto o sdraiato un saddhu, un santone rosso-arancio vestito che in genere passa il tempo a tirare sui chilum e a farsi fotografare dai turisti, scarsi, in cambio di qualche rupia. Per una volta i saddhu non sono particolarmente insistenti, forse sono stremati dal caldo.
Più tardi approdiamo a Bouddhanath, sorta di enclave tibetana nella valle di Katmandu. Il sito è dominato da un grandioso stupa, il più grande del Nepal (V sec. a. C., almeno secondo la leggenda), con gli occhi di Buddha che ti osservano da ogni lato. Attorno belle case e palazzi a volte bellissimi accolgono ogni sorta di commercio. L’artigianato in vendita è tipicamente tibetano, dunque non mi lascio incantare più di tanto: tra poco passeremo in Tibet un’intera settimana. Comunque Bouddanath ha una sua curiosa magia e, malgrado i commerci imperanti, anche un suo fascino mistico. Ed è uno dei luoghi che preferisco al mondo, sa dio perché.

27 ottobre 2007

Sempre Katmandu (27 luglio 2005)

Siamo riusciti finalmente a prenotare il nostro Tibet Tour. Preciso identico a ogni altro Tibet Tour, solo un po’ più economico grazie all’assistente di mio cognato che ha lavorato a lungo nel turismo. Ho un po’ fifa, manco a dirlo abbiamo lasciato i sacchi a pelo a Parigi e ieri ne abbiamo comprati di nuovi. Indispensabili, dicono tutti, visto dove dormiremo. Si ricomincia con la ricerca della doccia perduta, vedi “Mustang lento”, insomma.
Intanto stamane ulteriore déjà vu, reale, non sognato. Passeggiata allo stupa di Swoyambhu, pare il più antico stupa al mondo (ha più o meno 2500 anni). Festa di preghiere sventolanti e ministupa attorno al monumento maggiore e incongruenze asiatiche: gruppi di sedie di plastica tipo metropolitana di Parigi (ma rigorosamente color buddico arancione) in un praticello a fianco di una sorta di monastero. Che sia l’area di meditazione? Mah, ci si arriva attraversando un bel boschetto tranquillo sotto lo stupa principale.
Ce soir arriva la sorellina (almeno si spera). Non vedo l’ora.


(nella foto: ministupa e bandiere nel vento a Swoyambhu)

25 ottobre 2007

Cuore di Nepal

Cuore di Nepal è nato stamattina. Non è nuovo, però, ho solo deciso di continuare a scrivere di Nepal, perciò di trasferire qui vecchi post che ho scritto da laggiù su un blog ormai morto. E, magari, di continuare con nuovi post scritti da quaggiù. Chissà. Intanto comincio.

In diretta da Katmandu (25 luglio 2005)

Piove. Caldo umido da tropici. Katmandu è com’era e al tempo stesso completa- mente diversa. Come sempre e come tutti i turisti, passiamo la maggior parte del nostro tempo nel quartiere di Thamel. Assomiglia al Thamel di cinque anni fa: ci sono nuovi locali, nuovi alberghi, nuove guest house, ma molti molti meno turisti e molti molti più poliziotti. Fa effetto. Per non dire che, in fondo, fa paura. In compenso rimane intatto l’indiscutibile fascino di Katmandu, un fascino di cui mi è impossibile, anche ora, cinque anni dopo la mia prima volta, spiegare l’origine. Un misto di Oriente, rassegnazione induista, filosofia buddista, voglia di essere, dolcezza, impotenza, mattoni rossi, finestre in legno magnificamente intarsiate, preghiere nel vento (ma non tante), sciarpe di seta, pashmine, strade putride, oasi di paradiso, paradisi da turista, puzze e profumi. Ho certamente dimenticato molto, magari pure l’essenziale, ma sto bene. E poi so che ho davanti un’intera settimana per impregnarmi di questa città che già amo tanto.

18 ottobre 2007

Pokhara, 19 agosto 2000

Aeroporti. Prima tappa, all’aero- porto di Jomsom, ore 7.55. Siamo qui dalle sei. Dunque sveglia alle cinque. Da appena un paio di minuti è suonata una sirena, salutata con entusiasmo da tutti i presenti. I magnifici otto sperano voglia dire che l’aereo (ma quale? sarà il nostro? ci sono almeno 40/50 persone che attendono e il nostro bimotore Cosmic Air carica al massimo 16 passeggeri) è in arrivo. Trasporti a parte, ora è evidente: l’avventura è finita. Già da ieri, forse: al nostro arrivo a Jomsom il Tilicho Hotel ci è sembrato una specie di 5 stelle. Un po’ perché abbiamo avuto vere camere a disposizione, un po’ perché siamo finalmente riusciti a lavarci i capelli e a fare una doccia calda. Molto perché il Royal Mustang di Muktinath, nel cui cortile avevamo piantato le tende la notte precedente, era tutto fuorché Royal. E ieri sera festa, ma già intrisa di malinconia: le canzoni, i tamburi, gli strumenti improvvisati e le danze.
Sono come in trance fino alla seconda tappa: aeroporto di Pokhara. Incredibile déjà-vu. Eppure, la prima volta che siamo passati di qui risale almeno a un secolo fa.
Da qualche istante appena abbiamo salutato i portatori: capocuoco e aiutocuoco; Kalu il bello; Passan il tenerissimo; Kumar, la sua ombra, e Santa, futuro aiuto-guida del grande fratello che in questo viaggio ci ha fatto da papà, mamma e capo, Nima-Dawa (un nome un programma. Nima-Dawa, infatti, in nepalese significa sole-luna o, anche, domenica-lunedì). È il primo addio e già mi si stringe il cuore.
Roberta, la pubblicitaria bergamasca, mi ha confessato che stanotte non riusciva a dormire dalla pena: già le manca il Mustang. Ma credo che nessuno di noi, malgrado le dichiarazioni dei grandissimi lavoratori, alias Emanuele e Carlito, abbia veramente voglia di partire. Per giunta, e per fortuna, Pokhara questa mattina ci ha portato con l’alba uno splendido dono: la collezione completa dei 7-8000 del complesso dell'Annapurna. Ultima immagine che toglie a tutti noi, almeno momentaneamente, la facoltà di parola. E tutto si mescola in un unico, confuso sentimento: silenzio e rispetto, lacrime e nostalgia. Credimi: meglio, molto meglio, calare il sipario.
Ehi, puoi riaprire gli occhi.


(nella foto: l'Annapurna, sontuoso sfondo al lago di Pokhara; www.pokharalodge.com)

17 ottobre 2007

Jomsom, 17 agosto 2000

Jomsom, lontana e sola. La discesa da Muktinath è cominciata tardi. Anzi, tardissimo, visti i ritmi che sono ormai un’abitudine per noi: alle 10 passate. Dopo, cioè, che abbiamo visitato quella specie di santuario, sacro agli induisti come ai buddisti, che sovrasta il villaggio e che fa di questo borgo semisperduto un’importantissima meta di pellegrinaggi. Ci sono persone che partono dall’India profonda, a piedi, naturalmente, per salire lassù a pregare. Terminato il doveroso giro dei gompa (i templi) si inizia a scendere dolcemente. Dopo una mezz’oretta di cammino ci imbattiamo, nell’ordine: 1. in una troupe cinematografica (o televisiva) di tedeschi, 2. in una comitiva di bergamaschi tra cui si cela il libraio di Roberta. I segni del nostro ritorno alla civiltà sono ormai tanto preoccupanti quanto evidenti. Ma proseguiamo, il cuore leggero.
A un certo punto del percorso, tra la via Emilia e il bar grossomodo, Francesca, Carlito e io siamo adottati da tre bambine. Impossibile per noi memorizzare i loro nomi. Quanto alle età che hanno dichiarato, in un inglese scheletrico, ci sembrano improbabili: 10, 12 e 13 anni. Sembrano molto, molto più giovani. Comunque è stato uno dei momenti più belli del viaggio. Quella che ha scelto di prendere per mano me è la piccola, una teppa superintelligente e simpaticissima. Ha cominciato a intendersi con Francesca a fonemi e dai “mamama”, “papapa” e “tatata” è nata una prima musica a sei, destinata a trasformarsi poi in vera e propria corale. Oltre al solito similinno nazionale nepalese, “Resham Phiriri”, siamo riusciti a esibirci in un “Fra’ martino” bilingue: “Cin cion bell, cin cion bell”.
Arrivati alla tappa intermedia, le bimbe si fermano a pranzare con la mamma e noi tre proseguiamo. Arranchiamo per arrivare a Kagbeni, ma il premio è dietro l’angolo: Jomsom è là, a portata di vista. Malediciamo il Khali Gandhaki, inguadabile perché ha troppa acqua e riaffrontiamo i saliscendi tra le rocce. A ogni altura, controlliamo. E Jomsom è sempre là, sempre alla stessa distanza, sempre lontana e sola.


(nella foto: l'immenso rullo di preghiera all'entrata del tempio di Muktinath. Contiene 100 milioni di mantra; www.muktinath.org)

16 ottobre 2007

Muktinath, 16 agosto 2000

Ahi ahi ahi. Nima ha confessato: da Chhucksang a Muktinath ci attende un percorso “un po’ duro”. E se Nima dice “un po’ duro” per me significa ai limiti dell’impossibile. Sono preoccupata, inutile nasconderlo, vorrei che Carlito restasse con me, mi accompagnasse durante la salita. Non che mi attenda aiuto, è solo che vorrei che fosse accanto a me. Un supporto psicologico e, al tempo stesso, l’occasione di vivere un momento insieme.
Fisime. Il Carlito ingrana la quarta e diventa un puntino dallo zaino rosso due o tre creste avanti a me. Sono furibonda, gliene voglio da morire ma, intanto, non ho il tempo di occuparmene. Posso solo digrignare i denti e guardare bene dove metto i piedi. Se non fossi così nera potrei anche accorgermi del fatto che intorno a me si dispiega, lì, proprio sotto e sopra la costa che sto percorrendo, un paesaggio fortissimo. Rocce e torrenti come al solito, ma di una tale prepotenza che ne hai quasi paura. Cammino, attenta a dove poso le zampe e penso che un mulo avrebbe parecchia difficoltà a percorrere questo sentiero. In molti punti c’è appena lo spazio per un piede; sotto: lo strapiombo. Continuo, un respiro dopo l’altro.
Scelgo di restare dietro Ambrogio. Mi dà la carica. E poi non sono sola. Perché questa gola, questa strada, queste pietre, questi monti e questo fiumiciattolo potrebbero cominciare a odiarmi. Come io, da qualche parte, li odio; anche se sono bellissimi. Vado e mi mordo dentro. Non è stanchezza, è rabbia. E il contorno è troppo crudo per lenirla. Ambrogio tace. Poi incontriamo Roberta, ferma ad assaporare il vuoto e il pieno che la circondano. Decide di proseguire con noi. A volte ci attende, a volte ci segue. Comunque è lì. E insieme, in tre, arriviamo all’alpeggio. Dove ci aspetta uno degli ultimi pranzi.
Doccia fredda. Carlito mi viene incontro con la macchina da presa; sarà che sono incazzata, sarà che ha un tono sarcastico-superiore, fatto sta che alla videodomanda: “ci dica, ci dica, come si sente?” rispondo con un bel dito medio teso. Creo tensione, ma non me ne importa.
Mangio un po’ in disparte, vicino a Roberta, e osservo il gran casino attorno a me: a qualche centinaio di metri dal passo si è concentrata una varietà faunistica straordinaria. Ci sono uomini e donne che vengono dalla festa di Muktinath, con muli, cavalli, bambini, capre e, udite udite, due yak. Uno schianto: pelosi pelosi, con quel muso lungo, le cornone. Il sorriso si spegne: qualcuno ci spiega che vanno al macello.
Finisco di mangiare. Ambrogio è già pronto a ripartire. Così il gruppo degli atleti si mette in movimento. Carlito neppure mi saluta. Roberta mi chiede di aspettarla: vuole riposare ancora un attimo; che donna: mi fa regali su regali, oggi.
Quando decidiamo di riprendere il cammino abbiamo una piacevole sorpresa: il passo è vicinissimo. Ancora pochi metri di fatica e poi sarà tutta una scivolata a valle. L’ottimismo ritorna sulle nostre facce e ci sembra di raggiungere Muktinath in un attimo.
All’arrivo ci sono birra, tavoli sporchi e una specie di catapecchia in costruzione che pretenderà di qui a qualche mese di chiamarsi albergo. Siamo usciti dall’alto Mustang e si vede: una miriade di lodge, di ristorantini, campi da pallavolo, turisti. È il primo distacco anche se, forse, ancora non lo abbiamo realizzato. Del resto, la civiltà ha i suoi vantaggi: almeno venti pannelli annunciano doccia calda in venti posti diversi, compresa la nostra baracca appoggio.
Da noi, però, neanche a parlarne. La padrona trattiene a stento una risata all’ingenua domanda delle quattro coglione occidentali. Comunque non c’è modo, neppure facendo bollire l’acqua. Così, spinte dal desiderio di toglierci di dosso almeno un poco di polvere, Francesca, le due Roberte e io, ci armiamo di saponi e asciugamani e uno dopo l’altro, li facciamo tutti. Non c’è pannello che ci sfugga, anfratto, per quanto buio, che si sottragga alla nostra inchiesta. L’acqua calda è un acchiappacoglioni, non ce n’è l'ombra; e, nel frattempo, sono calati la sera e il freddo e lavarsi alla fontana gelata ci sembra un’ingiusta punizione.


(nella foto: Chumig Gyatsa a Muktinath, foto di David L. Snellgrove presa nel 1956 e pubblicata nel libro "Himalayan Pilgrimage", Shambhala Publishers, Boston, 1989 (ormai esaurito; www.muktinath.org/album/muktinath_site).

15 ottobre 2007

Ibidem, idem, più tardi

Doccia a secchiate. Una fetta di paradiso. A Ghemi abbiamo vere stanze, affacciate sul grande terrazzo di una casa-albergo con monaco incluso. Peccato non avere bagagli. Almeno per ora. I cuochi preparano comunque il tè delle cinque e mentre ci scottiamo la lingua, annunciati da un campanellino che sembra musica d’Eden, arrivano i muli. Così parte la corsa al lavaggio: i nostri eroi, nessuno escluso, si danno al bucato e ottengono un paio di secchi d’acqua calda a testa per la più bella doccia della vacanza. Poi mutande e capelli restano ad asciugarsi al sole calante. Fino a quando non partono i cimbali del monastero accanto e non scende la sera.


(nella foto: i buchi-caverne dove vivevano un tempo gli abitanti dell'Alto Mustang. www.historum.com)

12 ottobre 2007

Ghemi, 13 agosto 2000

Ma dove vai se un mulo non ce l’hai? Siamo sempre a Lo Ghekar, posto strano ma denso di emozioni. Così accade che, all’alba, Kumar e Passan (gli omini del tè, te li ricordi?) appaiano pervasi da una strana inquietudine. Portano le tazze, la bevanda calda e, poco dopo, l’acqua per le abluzioni, ma qualcosa non gira. È lampante. In effetti, se non fossimo perdutamente addormentati (e ne abbiamo qualche ragione visto che ancora non sono le sei e mezzo), ci accorgeremmo subito dell’assenza. Invece niente. Manco un plissé. Devono dircelo perché ce ne rendiamo coscienti: i muli sono scomparsi. Non so bene chi racconta la storia a Carlo (l’architetto, non il mio): Ganesh e Kalu, responsabili delle some, la scorsa notte hanno deciso di darsi alla bella vita. Così sono andati, con un paio di ragazze, a Marang (il buco del culo del Nepal, per intenderci). Non so cosa ci abbiano trovato, fatto sta che ci sono restati a lungo. Morale: al loro ritorno dei muli non restava neppure l’ombra (anche perché era notte fonda). E pure perché in Nepal non si usa legare le bestie: restano libere come quest’aria purissima.
Nima l’infallibile, svegliato dai due dongiovanni, non ha dubbi e alle tre del mattino fa ripartire i due lungo sentieri opposti alla ricerca degli animali. Alle sei e trenta nessuna nuova. Né Ganesh, né Kalu (il bellissimo), né, tantomeno, i muli. Partiamo comunque. Senza sapere se tende, sacchi a pelo e zaini ci raggiungeranno mai. Ci avviamo all’ennesimo tempio (uno dei pochi che valgano davvero la visita, è del VII secolo e ha dipinti antichi fatti direttamente sulla roccia) ignari di quanto ci riserverà il futuro. Poi, ripartiamo alla volta di Ghemi, dove dormiremo. Muli permettendo. Attraversiamo Dakmar e i suoi dintorni. Forse il luogo più bello che ci sia dato di vedere durante il trekking. Paesaggi da Gran canyon, coste arancioni e carminio e concrezioni a canne d’organo in tutte le sfumature dell’argilla. E, dentro, sempre, quel flauto che suona melodie d'infinito.


(nella foto: Dakmar. www.earthboundexp.com/media/images/Mustang/Dakcliff.jpg)

11 ottobre 2007

Ibidem, idem

Di nuovo a Lo Ghekar. Fa quasi freddo ed è quasi sera. Sul recinto di pietre che circonda quella specie di stalla più aia nella quale sono montate le tende si è installata una capretta; è così carina, bianca e nera, con un musetto così dolce che nessuno, nemmeno la più cruda Roberta, l’imprenditrice, le resiste. Lentamente ci avviciniamo e, incredibile, quella non scappa. L’arcano si svela subito dopo: è legata. A questo punto avrai capito come finisce la storia. Non sapevo se risparmiartela.
Però all’inizio non ci credo. Penso mi prendano in giro. No, davvero, non può essere la nostra cena. Poi vedo il cuoco che affila il coltello (ma non erano quasi tutti buddisti? mah). Pietismo ipocrita, il mio come quello di qualche altro; sgozzata in diretta (nascosta alla nostra vista, per fortuna, ma pur sempre a pochi passi da noi) o no, la capretta, a sera, ce la siamo mangiata (tranne Francesca, che è vegetariana) e anche con sommo gusto. Poi Mustang café a go-go, con il “professore” ubriaco che si esibisce sulla musica di percussioni e fiati, suonati dai portatori, come una danzatrice del ventre.
Finale in coro: Nepal e Italia uniti in un unico inno, la canzone più popolare del paese, “Resham Phiriri”. E, malgrado il sacrificio dell’innocente, quella notte tutti noi, italiani e nepalesi confusi, abbiamo dormito come bébé. Quasi il nostro fosse il sonno dei giusti.


(nella foto: una capretta tibetana, www.inseparabile.com/capretta_tibetana.htm)

10 ottobre 2007

Lo-Ghekar, 12 agosto 2000

Sulla via del ritorno. Per una volta abbiamo deciso di prendercela comoda. Non so più di chi sia stata l’idea. Forse della ancora febbricitante Roberta o forse mia. Comunque la giornata prevede il solito trekking ma, stavolta, a dorso di cavallo. Solo per questa tappa.
Anche perché Emanuele già declina l’offerta per problemi di schiena e, quando vede i cavalli, il patriarca Ambrogio (nostra eminente guida italiana, un sessantunenne che ricorda, non molto da lontano, Sean Connery) non è più tanto sicuro di salire a bordo; in effetti vista l’altezza sua (un metro e novanta) e quella dei veicoli (un metro al garrese?) è facile immaginare le lunghe gambe dell’Ambroeus che strisciano sulle pietre. In ogni caso finiamo per partire e attraversare l’unica vera prateria del Mustang. Destinazione: il passo di Marang La a 4300 metri e il villaggio di Lo-Ghekar, dove passeremo la prossima notte.
Nima, a piedi, va più veloce dei cavalli, tanto più che quando davvero la strada si fa brutta, siamo tutti costretti a scendere di groppa e a condurre per fune i nostri Ronzinanti per una stretta sassaia ripida sulla quale tentiamo a turno di franare a valle. In sintesi: raggiungiamo prestissimo la nostra meta; perciò, nel pomeriggio, decidiamo di fare una passeggiata fino a un paese a un’ora/un’ora e mezzo di strada: Marang. Scopriamo così l’immancabile buco del culo del Nepal o, almeno, del Mustang, un concentrato di tutte le sfighe che possono colpire il genere umano. Ovvero tutto quello che finora ci era stato risparmiato; immersione nella vita vera o depressione?
Marang è un paese come un altro, all’apparenza. Zozzo perso come tutti i centri abitati e gli abitanti del Mustang: incrostato, pieno di cacca e, a questo punto ovviamente, puzzolente. Forse in dimensione un pochino ridotta. Perché è percorso da sentieri più che da strade. Così stretti che non solo un obeso rimarrebbe perennemente incastrato fino all’agognato dimagrimento, ma tali da costringere due persone normali, o anche minuscole come sono in genere questi tibeto-nepalesi, a procedere all’egiziana quando si incrociano. Ovvero a superarsi l’un l’altra mettendosi di profilo.
Muri bassi che danno su campi appena coltivati: il cibo della povertà, quindi prevalentemente patate. Finché si arriva alla piazza o, meglio, a uno slargo dove, attorno a questi stupidi sei occidentali in cerca di brividi da finto primitivo, si concentrano una ventina di ragazzini di età variabile dai due ai tredici anni. Per la prima volta scopriamo che anche nell’alto Mustang esistono le tare. Di quelle gravi, come nel caso di quel bambino, tra il down e il chissà chi, la cui testa ciondola dalle spalle, quanto mai curve, di quello che sembra essere lo scemo del villaggio. E di quelle piccine, come i denti storti, ma storti da far paura, deformi. Lo strano è che finora avevamo stupidamente ignorato l’argomento, pensando forse che in Nepal i menomati li facessero fuori, visto che non c’era stato dato di vederli. Invece, a quanto pare, li hanno inviati tutti qui. Tanto ci si arriva solo a piedi. E avevamo pure immaginato che, d’altra parte, in questo paese a ridosso dell’Himalaya, tutti, nessuno escluso, potessero vantare dentature perfette. Ti giuro: i denti più belli che mi sia mai capitato di incontrare.
Invece Marang stona. Come un punteruolo su una lavagna.
Siamo così codardi che nessuno commenta. Ma non possiamo fare a meno di notare che c’è un uomo pulito e grassottello in mezzo a questa miseria: il monaco.


(la foto non c'entra, tanto più che a Lo Manthang, dove apparentemente è stata fatta, non ho visto niente di simile. Però mi piaceva: ringrazio www.tsechhen.org.np)

09 ottobre 2007

Ibidem, idem - Festa di piazza

A furia di inseguire capre per i vicoli di Lo Manthang, Francesca e io abbiamo capito una cosa: qualunque giro tu faccia ti ritrovi sempre nello stesso punto. A meno, naturalmente, che tu non esca dalle mura e riprenda il cammino. Così, continuando a ripercorrere i nostri passi, finiamo per ritrovare la piazza, inizio e fine di tutti i nostri vagabondaggi. È piena zeppa di lomanthanghesi: uomini da una parte, donne dall’altra, della strada. In un angolo è seduta bellaragazza, che saluta, sorride e torna a puntare il viso verso tre musicisti che noi scorgiamo solo in quel preciso istante. Hai presente i dervisci danzanti? bene, prendine tre con cappellino e tutto, sostituisci la gonna svasata con un paio di amplissimi pantaloni un po’ califfi, piazzagli in mano un paio di percussioni e qualche fiato primitivo e immaginali in una strada polverosa circondata da basse case che un tempo sono state bianche. Non proprio al centro, ma un po’ spostati verso il fondale di una bottega e leggermente sulla destra. Voilà lo spettacolo.
I musicisti ballerini si guardano l’un l’altro e girano lentamente a ritmo attorno ai loro strumenti senza mai spezzare il triangolo. L’arrivo di un quarto suonatore, forse in ritardo, produce un leggero trambusto ma non c’è tempo di badargli perché, proprio allora, irrompe sulla scena il bullo del paese a bordo dell’unica, lucidissima moto di tutto l’alto Mustang (è arrivata dalla Cina perché dal sud, da dove proveniamo noi, si arriva solo a piedi, d’uomo, di mulo o di cavallo che siano, mentre si favoleggia che la strada che viene dal Tibet sia, al limite, percorribile anche da qualche mezzo meccanico). Il suono stonato funziona da incantatore di serpenti e tutti i pargoli e le fanciulle (compresa la nostra bellaragazza) si gettano in un gran vociare all’inseguimento dell’imbecille su due ruote.
E la festa è finita.


(la foto: www.dongurewitzphotography.com)

04 ottobre 2007

Ibidem, idem - Burro di nak

Questa giornata di riposo a Lo Manthang è una manna. Non tanto per piedi, caviglie, polpacci, cosce, adduttori e altri muscoli vari che, nel mio caso, sembrano stare inspiegabilmente benissimo, quanto perché ci permette di girare a casaccio in un villaggio (d’accordo è la capitale del Mustang, ma in realtà invece che quattro saranno quindici case e altrettante stalle) come in una vera vacanza. Cioè di avere un sacco di tempo davanti senza l'obbligo di far niente (non è che camminare sia un obbligo, è un piacere, però se non marci non arrivi, quindi non è che tu possa proprio scegliere).
Carlito, Francesca, Roberta la febbricitante e io percorriamo le strade a circuito mettendo il naso ovunque ci sia una porta aperta. Poi seguiamo una bizzarra indicazione verso un negozio di artigianato sperso in un groviglio di vicoli e finiamo per bussare a una casa. Alla finestra la bella ragazza che ci serve a tavola (la figlia del nostro ospite o di un altro notabile del luogo, non ho capito bene alla fine). Ci vede, ci riconosce, ci sorride scoprendo le labbra su denti bianchissimi e perfetti e ci fa entrare. Pare sia la casa di sua cugina, che, come tutti qui, incidentalmente vende collane e statuine, amuleti e coppette. Niente di interessante. Però la bella ragazza ci piace. Parla un inglese piccolo piccolo, ma è intelligente e sa farsi capire. È analfabeta ma (a dispetto di quello che ci ha appena detto il re) spiega che per le ragazze è normale anche oggi: le bimbe non mettono piede nelle aule (anche se il sovrano sostiene che qui tutti vanno a scuola, ma forse parlava solo per i maschietti). Niente di nuovo sotto il sole.
Ancora, racconta che ha 25 anni ma non è sposata perché “i locali non le piacciono”. Come darle torto? le tibetane a volte sono bellissime, ma gli uomini hanno davvero poco dell'Adone. Ride, è contenta della nostra attenzione, e vuole mostrarci il suo piccolo tesoro; così va a prendere un libro fotografico sul Mustang scritto da un tedesco di un’avvenenza rara. E, perché possiamo meglio apprezzare il volume, ci invita nella sala, dove ci sono la cugina, con il figlio poppante in braccio, e la migliore amica di bellaragazza (non mi riesce di ricordarne il nome): hanno in progetto un girls party per la serata e sono già supereccitate.
Le quattro scimmiette occidentali si siedono così a sfogliare il prezioso cimelio e le leggi dell’ospitalità impongono alle tre donne indigene di offrire il temibile tè locale, già zuccherato e, soprattutto, completato con il burro di nak. È una bevanda quasi mitica, di cui parlano tutti quelli che hanno visitato il Tibet e che ha fama di essere simile a una sorta di brodo e, per di più, di avere un sapore terribile.
Carlito affronta la sua tazza con indomito coraggio mentre le due ragazze e io la guardiamo a lungo con diffidenza. Infine intingo appena e mi dico che ce la si può fare. Poi arriva il colpo gobbo: ci propongono un dolcetto (o forse è un salatino, che ne so?, è una specie di nodo di pasta fritto, dall’apparenza innocua). Infrangendo consapevolmente tutte le norme del galateo internazionale tento di rifiutare, forse colpita da una sorta di preveggenza improvvisa. Rischio l’incidente diplomatico, così indietreggio come di fronte al re e finisco col brandire il misterioso stuzzichino.
Sorrido e lo addento; fatico a trattenere un conato, tanto inatteso quanto immediato. Per riprendermi allungo le labbra verso il tè al burro; un nuovo conato mi fa impallidire. Poso tutto sul tavolino e cerco di respirare profondamente. Carlito ha finito di bere ed è pronto per la seconda razione, mentre le ragazze non hanno neppure il coraggio di guardare il liquido beigiolino che sciacquetta davanti a loro né di affrontare il feroce salatino.
Sono affranta: è, ti giuro, la prima volta che mi capita una cosa del genere. Credevo di aver bevuto di tutto, ovunque. Pozioni che non avevo idea da dove venissero e dove andassero, in recipienti risciacquati alla bell’e meglio in fiumi putridi o in acque stagnanti; rischiando forse la salmonella ma mai la maleducazione. Fino a quando ho dovuto lottare con il burro di nak e, come avrai capito, ha vinto lui.


(nella foto: uno yak in Tibet)

03 ottobre 2007

Ibidem, idem

Ancora Lo Manthang. Nima è in fibrillazione da almeno un paio d’ore. Tutto perché alle quattro e mezzo abbiamo appuntamento con il re. Inteso come il re del Mustang, cioè l’unico tra i sette-otto sovrani del Nepal di un tempo, che ha mantenuto il titolo. A parte, naturalmente, quello vero che regna su tutto il paese e se ne sta in quel di Kathmandu. Comunque, questo re qui è una sorta di governatore, ma ciò non toglie che ci sia un preciso protocollo da rispettare in sua presenza. Anche se si paga un biglietto, le solite 100 rupie, per avere udienza. Sia come sia, Nima è irriconoscibile: sarà la millesima volta che ci spiega come presentare al monarca la sciarpa di seta bianca che ciascuno di noi è tenuto a offrirgli e come indietreggiare rinculando davanti a lui.
Alle quattro e venti esplode il panico: Nima non ci trova; o, meglio, non trova me e altre due ragazze, che stiamo bellamente acquistando cartoline e cianfrusaglie proprio nel negozio davanti alla reggia. Ma i nostri uomini ci beccano e, in parte, si scopre la ragione di tanta agitazione da parte della nostra guida: si è sbagliato nello spiegarci il protocollo. Inezie, ma forse non per lui. Tocca perciò al nipote del re, che, tra l’altro, è anche il nostro ospite, farci un rapido riassunto sul comportamento da tenere, mentre già scaliamo i gradini del palazzo reale. Nota bene che tutto questo suona un po’ ridicolo visto che stiamo recandoci all’udienza in calzoncini corti (non io, ma la maggioranza) e sandali da trekking, ma ogni popolo ha le sue usanze.
Superato, bene o male, il dramma della presentazione delle sciarpe, del saluto (bisogna dire “tashi delek”, ovvero l’equivalente tibetano del nepalese “namaste”, qualcosa tipo “saluto il dio che c'è in te”) e del rinculo (anche se quasi tutti finiscono per voltare le spalle al re o, almeno, di sicuro è quanto accade a Carlito ed Emanuele), scopriamo che sua altezza non è altro che un barbogio 75enne poco disponibile al dialogo e annoiatissimo dalla nostra compagnia. Malgrado questo tiriamo un quarto d’ora di conversazione, compreso l’assaggio del tè che ci viene offerto, prima di telare e tornare a una vita priva di protocollo.


(nella foto: il re del Mustang, www.edelweisstreks.com)

02 ottobre 2007

Ibidem, 11 agosto 2000

Lo Manthang. Siamo alloggiati proprio davanti al palazzo reale, anche se continuiamo a dormire in tenda. E abbiamo constatato soltanto ieri sera che basso prezzo possa avere la felicità: quello di una doccia calda, abbondante, vera. Un piacere così intenso che sembra averci lavato e pulito anche l’anima. Così al mattino ripartiamo di buona lena, con camicie e calzoni di bucato (fatto alla bell’e meglio, a una fontana) e capelli che profumano di shampoo e balsamo.
Ci conquistiamo a fatica il monastero di Vattelapesca, oltre il fiume proibito. Il chiostro pseudo-messicano ocra e mattone - con le finestre e le porte circondate di blu e illuminate da cubi bianchi, intervallate da sprazzi turchesi, rossi e verdi - ne valeva la pena, mentre l’interno del monastero è pressoché uguale a tutti quelli, e sono ormai decine, che abbiamo visitato finora. Però qui c’è un unico monaco, orbo da un occhio, che non ha neppure i biglietti d’ingresso ma esige comunque il pagamento di una tariffa di 100 rupie per lasciarci entrare. Seconda variante: per conquistarci il diritto di raggiungere il monastero oltreconfine il nostro “professore” (l’ufficiale di controllo che per legge deve accompagnarci durante tutto il viaggio e che nel nostro caso si rivela essere, invece che una spia al servizio del governo, un povero diavolo davvero di buon cuore) ha lasciato mezza coscia nelle fauci di un mastino tibetano di proprietà del locale commissariato. Terza variante: per varcare la frontiera proibita dobbiamo essere scortati, a pagamento si intende, da un poliziotto scemo che neppure conosce la strada e ci fa semiscalare un dirupo. Quasi a rischio penne. Con il mio solito tempismo e buon carattere, lo insulto in inglese e in italiano ma Nima e “herr professor”, per quanto infortunato, intervengono a calmare le acque.


(nella foto: mulini di preghiera, www.gcbs-japan.com)

01 ottobre 2007

Lo Manthang, 10 agosto 2000

Ultima tappa dell'andata: da Tsarang a Lo Manthang, mitica capitale del Mustang e confine estremo al di là del quale il nostro visto non vale più. Giornata nervosa: ho insultato Carlito davanti a tutti e poi sono stata io a piangere, rimuginare e soffrire. Forse il problema sta altrove: da quanti giorni non facciamo l’amore? da quanto tempo non abbiamo un secondo per noi, a parte le notti in tenda, poco intime e, soprattutto, riempite solo di sonno?
Camminare serve anche a sfoltire i pensieri e poi, da qualche minuto, accanto a me c’è Francesca, solidale e affettuosa, nel suo modo burbero da lombardo-piemontese. E pure il Mustang mi aiuta. Con un nuovo regalo. Francesca e io abbiamo appena superato il passo di Lo e siamo nel canalone che conduce alla capitale. Siamo in silenzio e, d’un tratto, la nostra curiosità viene attirata da un rumore sordo di fonte imprecisa; non so bene perché, puntiamo entrambe gli occhi in alto. Sopra di noi volano due aquile, che sbattono le ali e producono una sorta di sciabordio da vela nel vento. Sembrano lì per noi, tanto che ripetono più volte il loro numero a nostro uso e consumo. Le lacrime bussano alle ciglia, mentre i due rapaci si lasciano planare lontano, dietro una collina. Poi ecco ancora un’aquila-aliante tornare sopra di noi e scomparire di nuovo dal lato opposto. Facciamo fatica ad abbassare il volto; poi ricominciamo piano la discesa, senza fiato e senza parole.


(nella foto: la copertina di una videocassetta dedicata a Lo Manthang, www.himalayafilmfestival.nl)
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