31 marzo 2009

Metropoltrip - Toujours a Shanghai, toujours nell'ottobre 2004

Sguish, sguish, sguish. L’ho perso, è chiaro che l’ho perso. E poi chissene- frega: sono all’incirca in vacanza dopotutto. Posso permettermi di aspettare. “Nainain nannananannanainain”: mi giro mio malgrado e bestemmio dentro. Potrei anche bestemmiare ad alta voce, magari, tanto nessuno mi capirebbe comunque. La ragazza estrae un Motorola (ma non deve, non può essere un Motorola, siamo in Asia, perdiana) dalla sua sacca Louis Vuitton e risponde. Mi ripeto che sono qui circa in vacanza: lavoro ridotto al minimo insomma, giusto per pagarmi il viaggio. Perciò devo essere zen. Però, accidenti, siamo agli antipodi e sono perseguitata dalle stesse maledette, terrificanti suonerie dei cellulari.
Sguish. Sembra che scivoli. Non è un treno, è una nuvola express. Tutto è lucido, cromato, alieno. Come in uno spot. “Piccolo spazio pubblicità”, mi torna sempre in mente Vasco Rossi. Chissà che effetto farebbe diffuso dagli altoparlanti. Nessun effetto, presumo. Tranne che su di me.
Ora che ci penso: se fossimo agli antipodi potrei trovare normale che quaggiù tutto risulti capovolto. Ma non siamo agli antipodi. Non in senso stretto, almeno. Sto immersa in una sorta di ipnosi. In piedi, appesa a una maniglia come se ne dipendesse la mia sopravvivenza, ammaliata dallo schermo accanto alla porta. A Shanghai gli schermi sono ovunque: nel métro come all’aeroporto. E i cinesi guardano qualsiasi cosa venga loro mostrata. Quello che vedo fa schifo. Ma schifo vero: continuano a ritrasmettere l’immagine di un bambino che vomita. Forse è una candid camera. Di certo l’unica cosa che capisco sono le risate.
Sono in quasi vacanza. Sono le dieci della mattina e il vagone è quasi vuoto, c’è persino posto a sedere. Allora perché questo stronzo mi sta addosso? Ok, lo so, è la vecchia storia: per i cinesi quello che conta è lo spazio mentale, di quello fisico se ne fottono. Ma io sono europea, cazzo. E ai miei 30 centimetri di vuoto attorno ci tengo: per me è spazio vitale. Altrimenti soffoco.
Sguish. Le porte mi liberano. E riguadagno la superficie. Intanto penso alla prossima generazione di cinesi, destinati a crescere a furia di hamburger e patatine fritte. E a ingrassare. Fino a diventare obesi.
Sai che sballo, allora, incontrarli in metropolitana.


(foto: Shanghai, Xujiahui Underground Station - Chinese Tourist Office)

30 marzo 2009

13 ottobre 2004 - Shanghai forever

Oggi programma ambizioso: Exposition Center, Shanghai Museum e biennale al Shanghai Art Museum. In più mi tocca la ricerca di almeno una guest house carina nonché di un ristorante che possa segnalare nel mio pezzo.
Se avanza tempo, poi, mi piacerebbe tornare da Shanghai Tang. Peccato che usciamo tardissimo. Il ritmo zen ci è ormai entrato nella pelle.
Così, una volta terminato il giro all’Exhibition Center con la maquette della Shanghai del futuro, piuttosto deludente, è l’una passata. Consultati appunti e guida, decidiamo di vedere se il ristorante di cui ci ha parlato un’amica che è stata qui non tanto tempo fa, Alessandra, è a portata di piedi. Impieghiamo una mezz'oretta per orientarci attorno a People’s Square e alle due vie Nanjing, Nanjing Dong Lu e Nanjing Xi Lu (dove dong sta per est e xi per ovest), visto che Ale non ha segnalato di quale delle due si tratti. Una volta ritrovata la bussola, ci incamminiamo per Nanjing Xilu, una delle vie del commercio di lusso a Shanghai e veniamo attratti da due viette dall'aspetto singolare (la Wujiang Lu e la QingHai Road Beer Street, come scopriremo più tardi), ma, fedeli alla linea e, soprattutto, allo stomaco vuoto, proseguiamo verso la nostra meta. Il ristorante di Ale, in una corte interna, promette meraviglie. Ha un solo difetto: apre alle cinque del pomeriggio. E chiude, come la stragrande maggioranza dei ristoranti di Shanghai, alle 10 di sera. Quindi siamo costretti ad arrangiarci altrove.
On the way back un orologio da strada mi folgora: sono le 4 e 20 e qui tutti i musei chiudono attorno alle 5. Tanto vale che visitiamo le due viuzze e cerchiamo, alla svelta, un albergo da segnalare. Con la solita fortuna, laturistasmarrita scopre che uno degli indirizzi in programma è assolutamente a portata di piedi. La Villa, tra l’altro, pur non essendo particolarmente economica, valeva l’aller-retour al quale ci siamo sottoposti.
Comincio a essere stanca, ma mancano ancora le due viuzze e mi dico che, forse, il metro possiamo riuscire a prenderlo una fermata prima di People’s Square. Ma non prima di aver dato un'occhiata ai promettenti vicoli individuati qualche ora fa. Wujiang Lu, la via gastronomica, è una scoperta che merita. Qui si vende e si prepara cibo senza soluzione di continuità: un locale via l’altro; raramente ci si può sedere ma lo spettacolo è quello di una vera festa culinaria. C’è chi fa ravioli in serie, chi cuoce spiedini di calamari e chi ci propone la versione shanghaiese del pizzaiolo napoletano. Il tizio in questione rotea la palla di pasta fino a quando diventa un enorme disco sottilissimo, poi lo posa e rompe un uovo al centro. I suoi movimenti sembrano parte di un rituale: spennella l’uovo per spargerlo uniformemente sulla superficie, dissemina una manciata di erbe e ripiega i lembi verso il centro per chiudere il tutto. Poi passa il preparato a un altro uomo, che si occupa della cottura su piastra. Questa specie di focaccia cinese ha l’aria squisita ma sono troppo piena per tentare di assaggiarla. L’altra via è di gran lunga meno interessante, una brutta copia, fasulla e più lussuosa, della Wujiang Lu.
Nel frattempo il mio amore e io ci vediamo costretti a constatare che il tempo a Shanghai sembra andare più rapidamente che altrove. Il mio programma prevederebbe rientro in albergo, aperitivo al M’ on the Bund e cena con Angel, Véro, Arnaud e la fidanzata tedesca, Inès. Ottimismo ridondante: quando raggiungiamo l’hotel sono già le 7 e 20. L’aperitivo salta in automatico anche perché l’appuntamento al ristorante con il gruppo è per le 8.30. Amen, tanto il momento clou è previsto per il dopo cena: sosta al bar più alto del mondo, il Cloud 9, all’87° piano della Jin Mao Tower. Per raggiungere il locale tra le nuvole ci vogliono due ascensori, il primo porta fino al 54° piano, il secondo alla meta. Scovo un cocktail azzurro cielo (scelta niente affatto casuale) pas mal: il Cerulean (vodka, Martini dry, blue curaçao; ovviamente anche il nome non è affatto casuale). La vista sulla città scintillante toglie il respiro e dà persino un po’ alla testa. O che sia l’altitudine?



(dida: A Shanghai ravioli in serie)

27 marzo 2009

12 ottobre 2004 - Sempre Shanghai

Nebbia. Quando mi sveglio, alle 8 e 30, pratica- mente non si vede il parco di fronte all’albergo. Sarà per questo che la giornata procede con un ritmo zen. Per cominciare esco dall’hotel attorno alle 10 e mezza. Poi il taxista ha qualche problema a riconoscere quale sia esattamente la via dove abita Arnaud, tanto che, a un certo punto, spegne il tassametro. Così, quando, dopo qualche ingorgo e innumerevoli deviazioni, arriviamo a destinazione, mi chiede il biglietto su cui all’albergo mi hanno scritto l’indirizzo di Arnaud in cinese e lo corregge. Una perla.
Alle 11 e 35 sbarco dalle ragazze. Il tizio dei massaggi apre bottega a mezzogiorno, nel frattempo si potrebbe fare un salto al mercato dove potrei sempre cercare una borsa come quella di Véro, che, in fondo, non è niente male, e gli orologi con Mao, ma alla fine sembra che non sia il caso e anche il massaggio passa oltre. Perciò ci dirigiamo all’Antique Market.
A destinazione ci sono una serie di negozi-pagoda governativi e un incrocio di viuzze infestate da piccole botteghe. Ma l’avvenimento della mattinata è la visita alla più grande farmacia tradizionale di Shanghai. Angél ha diritto alla prima dimostrazione con una sorta di placche massaggiatrici elettriche. Ma non è convinta. Quasi tutte le commesse sono donne, forse tutte, vedo solo un uomo dietro un bancone. Ma, a quanto ci spiegherà poi la ragazza delle erbe, quello è il bancone dei medici. In ogni caso ciascuna cerca di attirarci verso il suo microreparto. Una rossa, che propone creme antirughe miracolose, conquista la nostra Angél e ci richiama verso il suo stand. Che, tra l’altro, è il più bello: un angolino proprio dietro una specie di altare eretto a un grande della medicina tradizionale cinese. Angelina compra di tutto: gelsomino, boccioli di rosa, ginseng e non so più cos’altro. Le scatoline in cui mettono i prodotti sono bellissime e le ragazze delle erbe molto, molto gentili. Ci invitano a sedere e ci offrono un tè. È davvero un’esperienza: in sostanza assistiamo a una vera e propria cerimonia. La ragazza con i capelli neri, che non parla inglese, dispone davanti a sé in fila cinque tazzine, tipo quelle che noi, in Occidente, usiamo per bere il saké, e, allineata immediatamente dietro, una fila di cinque bicchierini di volume equivalente. Poi versa l’acqua calda nella tazza cinese dimensione tazza da tè occidentale, che già contiene il tè e il gelsomino. Preme tutta l’infusione con un piattino e, tenendo quest’ultimo ben fermo perché le foglie non escano, versa un poco di tè in una microtazzina e un altro poco nel primo dei microbicchieri.Subito dopo comincia a travasare il tè dalla prima alla seconda tazzina, dalla seconda alla terza e così via fino all’ultima. Ripete la stessa operazione con i bicchierini. Riprende in mano l’ultima tazzina e ne versa nuovamente il contenuto nella prima. Vi immerge i bordi della seconda e compie l’operazione tutte le volte che è necessario per sciacquare al meglio le ciotoline. Butta il poco tè rimasto e replica il tutto con i bicchierini. Poi butta anche l’infusione della tazza grande. A questo punto versa nuovamente l’acqua bollente nella tazza con il tè e, dopo aver manovrato un po’ il piattino che la copre premendo gelsomino e tè, versa l’infuso nelle cinque tazzine e poi da ogni tazzina nel corrispondente bicchierino. Infine mette il bicchierino capovolto nella tazzina e distribuisce le tazzine con quel curioso cappellino, che ognuna di noi provvede a sfilare.
Così, dopo la farmacia, il mercato degli antiquari pare sciapo. Comunque riesco a comprarmi i tre orologi di Mao che volevo. Poi ci dirigiamo verso la bellissima casa da tè Huxinting, la più vecchia di Shanghai, e lo Yu Garden. La visita del giardino a prima vista sembra quasi altrettanto insulsa di quella del tempio dove siamo state questa mattina, ma in effetti è solo colpa dei troppi turisti. Quando riusciamo a scovare un angolo tranquillo finiamo per trovare il giardino bellissimo.
Per rientrare, stupidamente, decido di prendere un taxi, scordandomi del traffico. Morale: per coprire il tragitto dalla città vecchia all’albergo, che sarà questione di pochi chilometri, ci vuole parecchio più di un’ora. Quando arrivo in hotel trovo Carlito che non sta più nella pelle: oggi ha conosciuto il brivido della Formula Uno e pazienza se invece che una Ferrari ha guidato una Peugeot equipaggiata con motore a gas. Il circuito, lo stesso della F1, è straordinario, il pilota che li ha portati in giro si è divertito a fare lo spericolato e, dulcis in fundo, Carlito in persona ha potuto guidare la macchina.
A sera, dopo cena, una nuova Shanghai Surprise ci attende: all’angolo tra Henan Lu e Renmin Lu ogni sera si balla. Così mi trovo a pensare che è sempre quando mi distraggo che scopro le cose più belle: dall’aquilone alla cerimonia del tè a questo straordinario cha-cha-cha su Henan Road.



(nella foto: la nebbia avvolge Pudong e la torre della televisione)

26 marzo 2009

11 ottobre 2004 - Shanghai again

Mi sono ricordata di una piccola perla: ieri, in un giardinetto modesto vicino al caffè intorno al quale conti- nuavamo a girare, un tizio faceva volare un aquilone. Era altissimo, proprio come una grossa aquila, lontano lontano, magnifico. Un po’ di questa magia gli è rimasta appiccicata addosso anche quando il signore lo ha richiamato a sé e l’aquilone si è rivelato per quello che era: pezzetti di carta di giornale. E pensare che mio nipote Aurelio non riesce a far decollare il suo ‘cerf volant’ superaerodinamico.
In mattinata si va al Bund, il meglio di quanto rimane della Shanghai Anni 30. Malgrado la perenne foschia, ha un suo fascino. Di fronte si alza il quartiere degli affari, Pudong, che fino a 10 anni fa non c’era (era una zona agricola ci dice Chong, incontrato sul Bund) con la bellissima Oriental Pearl Tv Tower, diventata il simbolo di Shanghai. Sulla passeggiata del Bund, dove ci sono un mucchio di mendicanti, per lo più gravemente storpi, riscuoto molto successo, non so se sia merito, o colpa, del rossetto rosso. Un gruppo di cinesi, probabilmente in vacanza, praticamente costringe me a posare insieme alle mogli e Carlito a scattare la foto con la loro macchina; un altro, con cinepresa, vorrebbe filmarmi e intervistarmi (ma Carlito, per fortuna, è secco e perentorio nel dire di no). Anche ieri, a ripensarci, mi guardavano tutti, uomini e donne. Mi sembra di essere una star (non so perché a Carlito non succede) e ha un che di inquietante. Più tardi scopro che succede più o meno a tutte le donne occidentali e mi ridimensiono.
Pranzo per due per 32 yuan, cioè 3,2 €, birra compresa, ma io praticamente non ho mangiato. Che schifo la cucina cinese. Chi l’avrebbe mai detto? Altra nota curiosa: in questa specie di orrenda tavola calda il cameriere non ha voluto la mancia. Forse, come dice la miniguida, la mancia porta sfortuna o, piuttosto, è insultante. Ma finora, come dice l’altra guida, tutti l’hanno gradita. Qualcuno, come ieri al Kathleen’s 5, l’ha addirittura sollecitata.
Intanto ho mandato un sms ad Angelina, dicendo che nel pomeriggio ci sposteremo al mercato di Xiangyang; “ça tombe bien”: Véronique, l’amica di Angelina, e Angél ci vanno a pranzo. Così, sempre in metropolitana (sistema economico: la tariffa va a tragitto, da Zhong Shan Park, dove siamo in albergo, come da Jing’an Temple fino a People’s Square tariffa 2: 2 y, più o meno 0,20 € cioè, e ‘sto giro 3 y, mi pare), Carlito e io ci dirigiamo verso il mercato della moda, o meglio dei falsi, di Shanghai. Sul cammino ci perdiamo in negozietti vari, per esempio veniamo inghiottiti dalla Sony Gallery, che ha aperto un paio di settimane fa, e crediamo di incrociare la delegazione francese (Chirac compreso?), che è in giro per questi lidi per l’apertura dell’anno della Francia in Cina: Carlito e io vediamo sfilare lungo la Maoming Nan Lu un corteo di auto blu e al mio amore sembra pure di distinguere il viso di Barnier, il ministro degli Esteri, dietro un vetro fumé. Bah.
Il risultato è che, quando finalmente arriviamo alle soglie del mercato, Véro e Angél ne stanno giusto emergendo, perciò facciamo una pausa nel locale lì a fianco dove i sedili ai tavoli sono altalene biposto. Le ragazze ci mostrano gli acquisti: un orologio di Mao (anch’io!), un paio di borse Prada, una di Gucci, un portafoglio Dior collezione rasta e due Montblanc l’anno del dragone. Già che ci sono le due vogliono farci vedere anche un negozietto dove ci sono un sacco di cosucce carine e dove mi lascio sedurre da due o tre capetti. Al mercato, invece, è Carlito che fa incetta: giacca, scarpe e due polo. Le borse non mi piacciono: la griffe è decisamente urlata e la maggior parte è in vera plastica (il peggio è un portafoglio rosso in finto cuir épi). Quasi niente è normale, quasi tutto finto qualcosa. Per esempio, Louis Vuitton, che è sempre accuratamente nascosto (nell’interno della bottega o nei cassetti, mentre Dior, Gucci, Prada e compagnia sono tranquillamente esposti).
A cena incontriamo il bell’Arnaud, il figlio di Véronique, che vive e lavora a Shanghai da un anno, che ci fa un po’ da guida per locali della concessione francese, il quartiere dove abbiamo ciondolato per tutto il pomeriggio. Ci racconta, per esempio, che in una via qui vicino, fino a pochissimo tempo fa, c’erano un sacco di posticini, molto movimento etc. e che “il governo” ha fatto chiudere tutto per via della quantità di puttane. Ma a novembre pare che la serie di locali dovrebbe riaprire altrove.
Programma di domani: giornata “nanas”, con visita a un altro mercato ancora alla ricerca dell’orologio di Mao, massaggio e giro nella città vecchia.


(nella foto: la turista smarrita sul Bund)
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