"Ci metti un po'. Poi ti ricordi che a Ponta do Sol ti lasciavi cullare dalle onde dell'Oceano. E che a Mindelo il non far niente era dolcissimo. E funziona: d'un tratto, senza che tu sappia perché, Capo Verde ti ha catturato”. Così pensavo sul taxi che mi portava all'aeroporto Cesaria Evora di Mindelo, ma mi stavo autoingannando: l'ho scoperto a Fogo perché Capo Verde.
Sarà l'energia tellurica, chi lo sa. Le dieci isole che formano l'arcipelago sono tutte di origine vulcanica, certo, ma solo Fogo è un vulcano. Attivo, per giunta: l'ultima volta che si è espresso con colata disastrosa è stato nel 1995 e la volta precedente fu nel 1951. Non tanto tempo fa. In termini umani, intendo, ma ancor più in termini planetari.
Sta di fatto che a Fogo tutto è più: più forte, soprattutto. Lo si capisce subito, dall'arrivo nel capoluogo, São Filipe. Qui persino le donne sono più belle. E São Filipe è proprio carina, molto più gradevole delle città e dei villaggi che abbiamo visto finora, con il suo saliscendi di strade di pietra (nota 1, vedi sotto) e con questa pousada d'altri tempi, il Bela Vista, con le più belle e candide lenzuola che abbia mai trovato in una stanza d'albergo. Una casa della nonna con centrini, ricami, etc., il pavimento lustro da sembrar bagnato. E senza odore di chiuso.
La certezza, però, arriva quando si sale nel cratere (a Chã das Caldeiras, nella foto in veduta aerea), all'interno del quale sorgono alcuni piccoli villaggi: la magia è ovunque. Quasi troppa. Alloggiamo al Pedra Brabo, “pietra selvaggia” in creolo, a detta del patron francese. E già durante la passeggiata lungo la colata del '95 siamo stregati dall'estraneità lunare del paesaggio, dalle coltivazioni, dalle creste delle cime attorno. Ecco, cime: il pico de Fogo, cioè la cresta del cratere, sarà lì che andremo l'indomani.
Alle sei del mattino si parte, dunque sveglia alle 5.30. Ops, la luce non c'è. Già, che fessi: il generatore del Pedra Brabo è in funzione dalle 7 alle 11 di sera circa. Ergo adesso no. E noi, ormai completamente stralunati, ti pare che abbiamo una pila? 18, comprese quelle da testa, ma tutte rigorosamente a casa. Ci resta l'iPhone, anzi l'iTorche (giuro, si chiama proprio così), che, a dispetto del nome orrendo, supplisce egregiamente.
Le signore del Pedra Brabo ci hanno preparato tutto: le bottiglie d'acqua e i panini per la salita, nonché la colazione, succo, caffè, banane, pane, burro, marmellata e formaggio. Peccato Carlito inghiotta a malapena il caffè e io poco più.
Alcindo, la nostra guida, è puntualissimo e noi pure. Attraversiamo il villaggio e ci mostra tutto, dalla scuola alla cooperativa vinicola (nata grazie alla Cooperazione italiana. Qui nasce il miracolo dello Chã de Fogo: il rosso è discreto, ottimo se si considera che è fatto ai tropici, ma il bianco è una favola. Uve turriga il primo, moscato il secondo). Poi passa a raccontarci le piante, la lava, il vulcano etc. etc. Infine si comincia a salire.
Per fortuna ho avuto il buon gusto di evitare orecchini, anelli e braccialetti. Sono certa di essere abbastanza ridicola così, con i miei occhiali da sole a farfalla e le Converse. E arranco. Quasi subito. Cammino piano che più piano non si può e mi fermo ogni 10/15 passi. Continuo a ripetermi: “un passo dopo l'altro, un passo dopo l'altro”. Dopo un paio d'ore siamo appena a metà salita. Ci fermiamo a riposare e il paesaggio è allucinante di bellezza.
Un'ora dopo ancor di più. Qui comincia il difficile, però. Più che salire, mi arrampico: l'ultima parte è una pietraia. Diventa più complicato dire a me stessa “un passo dopo l'altro”. Ma come, se il ritmo è rotto da sassi, pietroni, similgradini e nessun passo è uguale al precedente? Comincio a maledirmi, ma chi me le fa fare 'ste cose? Io sono una fighetta milanese cinquantenne (oddio, forse una carampana milanese cinquantenne), che diavolo ci faccio abbarbicata a una roccia a 2500 metri d'altezza sul Monte Fogo a Capo Verde? Mi do dell'idiota. Mi fermo ogni 3 o 4 passi. Comincio a dire persino a Carlito e alla guida che non ce la farò mai.
C'è una cosa che mi stona, però: ho fatto un patto con me stessa. Una, due o tre ore fa, non so più. Se ho anche solo il sospetto di essere sul bordo delle lacrime, torno indietro. Ma ho il ciglio asciuttissimo.
Però arranco. Bestia, se arranco. Ci hanno già superato tutti i turisti, in questa salita. Di tutte le nazionalità. Forse per questo Alcindo ha un guizzo d'orgoglio e, vedendo arrivare a passo di stambecco due giovani francesi con la loro guida, dice: “dai, dai, dai, loro non ci devono superare”. L'ultimo sforzo non mi sembra neanche tanto “sforzo”. Siamo in cima. 2700 metri. Peccato che io faccia fatica a guardare dentro il cratere e pure a guardare la strada percorsa: dalla cresta del Pico de Fogo ho le vertigini. E sono furibonda.
Con me stessa perché che ci fa una che soffre di vertigini sulla punta di un vulcano? E perché mi ostino a fare cose che non sono capace di fare. E perché ogni volta dico che è l'ultima e ogni anno ricomincio. Con il Carlito, che è tutto allegro, ha fame – così mangiamo i panini – e continua a dire “visto che ce l'hai fatta?” “brava”, etc.
Digrigno i denti e mugugno “non è mica finita: bisogna ancora scendere”. Però, poi, per fortuna, scendere, una volta superata la scarpata, è una festa: si cammina sulla pozzolana vulcanica (una cosa che sta tra cenere, sabbia e ciotoli, nera) sempre più da paesaggio lunare, un po' come astronauti, a grandi balzi di tallone, scivolando scomposti come burattini senza fili.
Alla fine, lo so, tra due-tre giorni o magari tra una settimana, mi sarà rimasto negli occhi lo straordinario paesaggio che ho visto da 2000-2100-2200-2300-2400 metri e nient'altro. E già potrò cominciare a pensare che, beh, forse, magari, se ricapitasse. Forse, però, si chiama masochismo.
In ogni caso, mentre salivo, d'un tratto mi sono risposta: perché lo faccio? Per avere qualcosa da raccontare.
Nota 1: A Capo Verde la stragrande maggioranza delle strade sono una meraviglia lastricata. Ovunque. Pure a Santiago, l'isola più grande, dove c'è la capitale.
Le più belle strade dell'arcipelago, tuttavia, sono senza dubbio quelle dell'isola di Santo Antão. Cioè la Corda, un'incredibile strada-canyon, con ribeiras verdi e strapiombi sull'Atlantico – onde onde, niente da dire – tra l'orribile Porto Novo e la finis terrae di Ponta do Sol; la strada-sentiero che scende dal cratere del monte Cova e la strada di pietra a picco sul mare intagliata nel crinale della montagna tra Ponta do Sol e Cruzinha.
P. S. Un grazie tardivo ai due angeli che mi hanno sopportato e supportato: Alcindo e – soprattutto – il mitico Carlito.
Secondo P. S. Mosche. Quando facciamo il giro della colata del '95, mentre saliamo sul Pico de Fogo – noiose, invadenti, ronzanti e, soprattutto, tantissime. Si posano a decine sugli zaini e si fanno trasportare da noi, le pigrone. E naturalmente ci circondano mentre beviamo una birra o un copo de vinho. Per fortuna con il calare della sera, come è d'uso, scompaiono.
Il titolo l'ho rubato a David Grossman. Più precisamente a "Follia". Avrei potuto dire che era un omaggio o una citazione, ma cosa diavolo può fregargliene a David Grossman di essere citato da me? Così gliel'ho rubato ma lo ringrazio comunque: è perfetto per i miei deliri da viaggio (ma è meglio se li leggete dal basso in alto)
19 settembre 2012
06 aprile 2012
Mmmh: del Brillat-Savarin a Cremona e d'altre meraviglie
La turista s'è così smarrita che ha voglia di un viaggio nel tempo. Così torna indietro di qualche settimana e trasborda a Cremona, dove, grazie a Slow Food, ha di recente scoperto l'Hosteria 700. Il locale è un po' nascosto, ma in pieno centro, il palazzo è bellissimo, i quadri alle pareti meno. Ma la cuccagna sta nel piatto: scelgo gli gnocchetti di castagne al Brillat Savarin su crosta di grana e vado in sollucchero (tanto che prima o poi provo a farli a casa). Pinocchietto va più sul classico, tortelli di zucca, assolutamente impeccabili, poi proseguiamo con tagliata di manzo (buona, ma ineguale) e cotechino artigianale squisito, per concludere con un semifreddo al torrone notevole. Il tutto annaffiato da una bottiglia di Gutturnio, 1 litro e 1/2 di acqua e una grappa. Totale: meno di 40 euro a testa, cifra che a Parigi avremmo speso anche in un bistrot di lega semibassa.
E tornando a Parigi, rispolvero un'altra critica d'epoca (il blog su cui era scritta non c'è più).
Risale al 21 maggio del 2007 ed era intitolata: Lasciatelo divertire
Non lo state a insolentire,
lasciatelo divertire
poveretto,
queste piccole corbellerie
sono il suo diletto*
La bella faccetta che vedete là sopra è quella di Inaki Aizpitarte. Il basco, oltre ad avere un nome impronunciabile per tutti i comuni mortali, ha un'altra caratteristica: è uno chef di quelli che piacciono. Il suo Chateaubriand, dove virginie e pinocchietto sono andati a cena giovedì scorso, è un bistrot di quelli sempre pieni. Da quando ha aperto, cioè un annetto fa più o meno. Belle facce al bancone, splendide facce tra quei cristoni dei camerieri, vino che cola e cose strane nei piatti. Se, come la maggior parte degli italiani, siete assolutamente contrari alle spume e alle bizzarrie dubito che apprezzerete Inaki. Ma, se l'idea di provare qualcosa di insolito e, quasi sempre, bizzarro, non vi spaventa, da Aizpitarte potreste persino ridere. E, naturalmente, godere.
I primi a gioire sono gli occhi. I piatti sono innanzitutto belli. La zuppa di pesce gelata si presenta come un trancio di un volgare pesce bianco con sopra una spuma delicatamente verde. Il cameriere (non il mio preferito, ahimé) arriva con una bottiglia da mezzo litro, visibilmente appena uscita dal frigo, piena di un liquido color ruggine vivace. E, delicatamente, versa un po' di liquido nelle nostre fondine. "Buon appetito" cinguetta. E se ne va. Già mi scappa da ridere. Poi assaggio. Perdiana: è buona. Buona la zuppa, buona la spuma e, apoteosi maxima, il piscis vulgaris si rivela una tasca ripiena di cozze, vongole e altre amenità marine. Wow. Inaki si diverte e noi con lui. Segue un lombo di coniglio presentato come una salsiccia: una carnina tubolare decorata, speziata, spumata, accanto alla quale danzano i carciofi. Mentre pinoc e io ci chiediamo muti se è matto, a tavola cala il silenzio: ri-wow. E chapeau. Forse Inaki è matto, ma le sue pazzie sono una festa per le papille.
Il menu serale (ogni volta diverso, ça va sans dire) propone tre entrée, tre piatti e tre dessert. Se volete il pasto completo il prezzo è 39 euro. A pranzo, invece, si può mangiare per 14 € (entrée e plat o plat-dessert)
Così, a dire il vero, era nel 2007 ora i prezzi sono aggiornati e le proposte pure, ma Inaki va sempre per la maggiore: ha aperto anche il Dauphin a fianco del Chateaubriand, ha sempre ottima stampa e noi ci siamo tornati ancora con estrema soddisfazione. Allora voilà, lunga vita al basco e al Brillat Savarin ;-)
*(da "Lasciatemi divertire", Aldo Palazzeschi)
nota: alcuni link rimandano a siti in francese, chiedo scusa
E tornando a Parigi, rispolvero un'altra critica d'epoca (il blog su cui era scritta non c'è più).
Risale al 21 maggio del 2007 ed era intitolata: Lasciatelo divertire
Non lo state a insolentire,
lasciatelo divertire
poveretto,
queste piccole corbellerie
sono il suo diletto*
La bella faccetta che vedete là sopra è quella di Inaki Aizpitarte. Il basco, oltre ad avere un nome impronunciabile per tutti i comuni mortali, ha un'altra caratteristica: è uno chef di quelli che piacciono. Il suo Chateaubriand, dove virginie e pinocchietto sono andati a cena giovedì scorso, è un bistrot di quelli sempre pieni. Da quando ha aperto, cioè un annetto fa più o meno. Belle facce al bancone, splendide facce tra quei cristoni dei camerieri, vino che cola e cose strane nei piatti. Se, come la maggior parte degli italiani, siete assolutamente contrari alle spume e alle bizzarrie dubito che apprezzerete Inaki. Ma, se l'idea di provare qualcosa di insolito e, quasi sempre, bizzarro, non vi spaventa, da Aizpitarte potreste persino ridere. E, naturalmente, godere.
I primi a gioire sono gli occhi. I piatti sono innanzitutto belli. La zuppa di pesce gelata si presenta come un trancio di un volgare pesce bianco con sopra una spuma delicatamente verde. Il cameriere (non il mio preferito, ahimé) arriva con una bottiglia da mezzo litro, visibilmente appena uscita dal frigo, piena di un liquido color ruggine vivace. E, delicatamente, versa un po' di liquido nelle nostre fondine. "Buon appetito" cinguetta. E se ne va. Già mi scappa da ridere. Poi assaggio. Perdiana: è buona. Buona la zuppa, buona la spuma e, apoteosi maxima, il piscis vulgaris si rivela una tasca ripiena di cozze, vongole e altre amenità marine. Wow. Inaki si diverte e noi con lui. Segue un lombo di coniglio presentato come una salsiccia: una carnina tubolare decorata, speziata, spumata, accanto alla quale danzano i carciofi. Mentre pinoc e io ci chiediamo muti se è matto, a tavola cala il silenzio: ri-wow. E chapeau. Forse Inaki è matto, ma le sue pazzie sono una festa per le papille.
Il menu serale (ogni volta diverso, ça va sans dire) propone tre entrée, tre piatti e tre dessert. Se volete il pasto completo il prezzo è 39 euro. A pranzo, invece, si può mangiare per 14 € (entrée e plat o plat-dessert)
Così, a dire il vero, era nel 2007 ora i prezzi sono aggiornati e le proposte pure, ma Inaki va sempre per la maggiore: ha aperto anche il Dauphin a fianco del Chateaubriand, ha sempre ottima stampa e noi ci siamo tornati ancora con estrema soddisfazione. Allora voilà, lunga vita al basco e al Brillat Savarin ;-)
*(da "Lasciatemi divertire", Aldo Palazzeschi)
nota: alcuni link rimandano a siti in francese, chiedo scusa
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Poor Mozambique 2
Arriva l'Eni, insieme agli americani di Anadarko, e succhieranno linfa dal Mozambico: «La sensazione che non tutti traggano benefici dallo sviluppo è fortissima oggi nel nostro paese, anche tra le élite», spiega Fernando Lima, patron di Mediacoop, gruppo di stampa indipendente.
Cliccando sul titolo l'articolo completo di Jeune Afrique (la foto è la stessa pubblicata da Jeune Afrique)
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