07 settembre 2009

7 agosto 2009 - Ganvié - Ma quale Venezia?

Ieri sera Thérèse (adorabile. E non per quanto sto per raccontare. Proprio general- mente adorabile. Attenta, discreta, dolce: una perla) ha offerto a Francesco, Carlito e me la “famigerata” grappa locale, distillato ricavato dal vino di palma, il sodabi, “una sensazione simile a uno choc”, effettivamente fortina, ma non priva di gusto.
Oggi a pranzo, invece, nel ristorantino gestito dalle signore della Maison de la Joie, abbiamo assaggiato un’altra specialità locale: l’igname pilée, una specie di grosso gnocco (l’igname è una sorta di patata dolce), che abbiamo mangiato con una squisita salsa di arachidi nella quale galleggiavano pezzetti di carne e fettine di un curioso formaggio rosso scuro dall’interno bianco, il formaggio peul, davvero niente male. E brave le nostre signore cuoche.
Finita la parentesi alcolo-gastronomica, confesserò che la gita a Ganvié, viceversa, non mi ha precisamente entusiasmato. Intanto, per arrivare all’imbarcadero a Cotonou ci vuole circa un’ora e un quarto, da passare lungo la solita strada fetente di benzina. Si giunge così al lago Nokoué: decine di piroghe si avvicendano all’attracco per andare a vendere il pesce. A bordo sono quasi tutte donne: sono loro le pescivendole, acquistano la merce dai pescatori e la portano poi al mercato. La pesca avviene in modo abbastanza curioso: gli uomini vanno in cerca di ramoscelli e rami e li piantano poi nell’acqua. Il legno che si decompone attira i pesci nella rete e ai pescatori basta raccoglierla.
Ganvié, detta ultra-pomposamente la Venezia d’Africa, è un villaggio di 45 mila abitanti costruito su palafitte, nel lago Nokoué. Fu fondato nella prima metà del XVIII sec. da una comunità che fuggiva alle razzie degli schiavisti. Ganvié significa infatti “collettività di popolazioni che vivono in pace”. La popolazione vive di pesca, ufficialmente, ma, ufficiosamente, meglio non dimenticare che il lago Nokoué è una delle vie d'acqua su cui circola il contrabbando di benzina.
La prima tappa è, ça va sans dire, in un negozio di souvenir. La nostra guida ci dice che è un albergo che ora ospita alcuni artisti desiderosi di vendere le loro opere. Sia come sia, noi facciamo razzia di T-shirt. Chi resta scornato è il secondo artista, un pittore, che quasi ci scongiura, invano, di comprargli un quadro, anche piccolino. Poi, come da copione, ossia da guide varie, percorriamo con la medesima barca a motore la “Via degli innamorati”, ma confesso che trovo lo charme di questa Venezia d’Africa davvero molto relativo. La costruzione più bella è decisamente quella che abbiamo appena lasciato (l’ostello artistico, per così dire). Il mercato semi-galleggiante (chissà perché poi semi: i “negozi” sono tutti piroghe) è microscopico e noi lo attraversiamo piuttosto velocemente. Nessuno, o quasi, vuole essere fotografato o, nel migliore dei casi, chiede di essere pagato per essere ripreso. Non che la pratica non mi trovi d’accordo, e ci mancherebbe: ciascuno ha diritto di non essere fotografato e, tutto sommato, collettivamente, noi bianchi dietro il nostro terzo occhio mi facciamo un po’ pena e un po’ schifo (aggiungo? aggiungo. Questa sfrontatezza del fotografo è una delle ragioni per cui ho smesso di fare foto un milione di anni fa e, anzi, si potrebbe dire, una delle ragioni per cui non ho mai cominciato). Infine, sulla via degli innamorati altra sosta in altro negozio di souvenir e il tour è finito.



(nelle foto: l'igname pilée con la sua salsa di arachidi in cui galleggia il formaggio peul; piroga al mercato "semi"-galleggiante di Ganvié)

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