12 maggio 2009

15 ottobre 2004 - Pechino e la Grande Muraglia

Si parte tardi, alle 11 passate, destina- zione Mutian Yu. Sul pullmino che ci passa a prendere al Jianguo ci sono già tre australiani che hanno appena fatto amicizia. Due di loro, Simon e la fidanzata, sono di origine cantonese. Simon, poi, ha studiato anche il mandarino a Singapore ed è una vera miniera di informazioni.
Per raggiungere Mutian Yu impieghiamo circa un’ora e mezza. Il calcolo del tempo è molto approssimativo perché ci fermiamo a mangiare lungo la strada. Kevin, la nostra guida, che in effetti non sa granché, è un soggetto da urlo. Prima volta che saliva a piedi sulla Grande Muraglia (di solito prende il cable car, ovvero la funivia). Ci tiene molto al fatto che andiamo a pranzare prima di andare alla Muraglia. Per essere in forze, dice lui, per attirarci nella solita farm, pensiamo noi. In questo caso si tratta di cloison, tecnica antica di pittura sul rame.
Raggiungere la muraglia anche a piedi è abbastanza agevole: in sostanza si tratta di salire una serie di scale. Una volta in cima lo spettacolo è mozzafiato: il deserto dei Tartari non ha mai raggiunto significato più pieno. Guardo tra un merlo e un altro della Grande Muraglia (nella foto) e vedo montagne, alberi, ancora muraglia e torri di guardia. In effetti mai panorama violato dall’uomo mi è sembrato così grandioso. E così armonioso insieme. La Muraglia è sì un’immensa ferita nella terra - originariamente circa 10 mila chilometri, oggi più o meno 6 mila - ma, al tempo stesso, sembra conferire nobiltà al paesaggio. Kevin ci dice che un milione di uomini hanno lavorato alla costruzione di questa meraviglia (che per la verità è stata costruita e ricostruita più volte nel corso del tempo) e che uno dei nomi con i quali è conosciuta è “il più lungo cimitero vivente”. In ogni caso è facile passare ore a camminare su e giù lungo questo immenso, favoloso muro.
Al ritorno il percorso è più lungo (non per scendere, ché, anzi, si va davvero rapidi, quanto per il rientro in città): ci mettiamo un po’ più di due ore. È vero anche che ci perdiamo, causa lavori in corso e deviazione imprevista. Ma il vero handicap è il traffico che, a Pechino come a Shanghai, è pazzesco. Anche Pechino, tra l’altro, puzza ed è mostruosamente inquinata.
A cena abbiamo prenotato (bè, ovviamente abbiamo fatto prenotare) al CourtYard per le 20.30. Usciamo un po’ in ritardo, alle 20.05, ma abbiamo solo quattro fermate di metro: da Yong An Li a Tienanmen Dong. Poi si dovrebbe poter raggiungere il ristorante a piedi. La prima stoccata è che il metro di Pechino non ha niente a che vedere con quello di Shanghai: sembra quello di Milano in versione più sgarrupata. Comunque deve avere una quarantina d’anni. I biglietti si comprano solo allo sportello e poi c’è una signora in un gabbiotto che li controlla prima dell’accesso alle banchine. La seconda stoccata è che, come al solito, sono una frana a leggere le cartine. Dunque camminiamo, camminiamo, camminiamo (in pratica costeggiamo piazza Tiananmen) e ci ritroviamo lontanissimi dal ristorante. Così, siamo costretti, visto che all’orizzonte non ci sono taxi, a prendere un risciò. Il ciclista conducente in questione è una specie di pazzo scatenato che si butta addosso a bici, macchine e auto sfidando la sorte ma facendola sempre franca. Bene o male arriviamo alla meta, sia pure con mezz’ora di ritardo. Il ristorante mi consola di tutto. Vista su Città proibita e pescatori. Dieci e lode.

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