Ieri sera abbiamo avuto un’occa- sione formi- dabile che abbiamo sfruttato solo a metà: assistere a una festa dei seguaci del dio del vaiolo, con tanto di sacrificio di agnello. Non che ci fossero un milione di bianchi, probabilmente una ventina in tutto e almeno 200 locali, dunque non era una farsa per turisti, però non è stato neppure un candomblé (il termine è brasiliano, ma non so come lo chiamino in Benin) così emozionante. Carlito, poi, lo trovava di una noia mortale. Perciò, dopo un paio d’ore, abbiamo deciso di mollare il colpo e di andarcene. Per poi vagare un bel 45 minuti alla ricerca dell’auto con Roland, Ibe e la torcia del cellulare di Roland (il telefonino con torcia è un modello diffusissimo in Benin. Personalmente non ne avevo mai visti prima, anche se mi assicurano che anche in Thailandia sono piuttosto in voga). Seppure a fatica abbiamo comunque riguadagnato Chez Monique e i nostri letti. E la partenza verso il nord ce la siamo assicurata.
A 85 km da Abomey ecco Dassa, annunciata da una natura lussureggiante, un mucchio di baobab e un esercito di colline (41, si dice, ma è solo per il valore simbolico di questo numero sacro. Quarantuno sono anche le mogli che accompagnano il re - per definizione in Benin un re non muore, va in viaggio - nella sua escursione definitiva) dai rilievi accidentati. Un tempo questo era il regno di Ifita.
La giornata è ritmata dall’imprevisto: tra Savalou e Bassila, l’albero di trasmissione si scollega dalla ruota anteriore destra. Per fortuna Ibe se ne accorge immediatamente (ma, forse, chiunque, chissà, è in grado di sentire subito che una ruota non risponde) e accosta. Bisogna allora fermare qualcuno e in un istante Ibe blocca un’auto strapiena, mentre un similjeeppone ci sfreccia di lato. Due o tre uomini escono dal veicolo, si inchinano, si sdraiano, studiano il da farsi, poi estraggono dal bagagliaio della loro auto una corda e ce la portano. In quel mentre il jeeppone di cui sopra torna indietro e uno degli uomini a bordo chiede se abbiamo bisogno d’aiuto. A questo punto attorno alla nostra ruota ci sono sei o sette beninois che discutono (Roland, un po’ perché ha la febbre, un po’ perché è fatto così, se ne sta in disparte). Uno di loro è sdraiato a terra e sta già legando la ruota all’albero con la corda che ha portato; un secondo prende in giro il nostro autista perché la ruota in questione è avvitata con tre bulloni anziché con quattro; un terzo si lamenta perché gli stiamo facendo perdere tempo. Il primo ha comunque la meglio: la riparazione provvisoria numero uno è fatta, il jeeppone riparte in tromba e le altre due auto si rimettono in cammino. Veniamo infatti scortati al più vicino villaggio dove Ibe cambia la corda con un pezzo di caucciù. Ringraziamo e ripartiamo come se la riparazione fosse definitiva.
A Djougou pranziamo chez la maman de Justine (nonna di Roland, dunque), tranquilli. Il pomeriggio, infatti, non prevede granché: bisogna riparare l’auto. Andiamo comunque a visitare una cooperativa di donne che filano e producono tessuti: l’energica signora che ci accoglie spiega bene e mostra altrettanto bene come si lavora al telaio, in verticale, orizzontale e al “gran lavoro” verticale, ma nel complesso le signore sono un po’ esose, almeno rispetto ai prezzi dei tessuti più svariati che abbiamo visto nel mondo. Compriamo comunque una sciarpa tinta con lo zenzero: è il nostro modo di contribuire a finanziare la cooperativa, che, tra l’altro, ha anche una scuola per apprendiste, dove insegnano svariate materie, tra cui, per esempio, francese e matematica.
(nella foto: quando si dice carico. Sulla strada per Djougou)
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