27 settembre 2011

Ancora 19 agosto 2011 - Ancora Vilankulos. Africa. E il senso del tempo (Ricordo di viaggio numero 3)

Perché mi piace tanto l’Africa? Che sia perché gli africani ridono un sacco? In ogni caso l’Africa è magistra vitae.

E dà il senso del tempo. “Pole pole”, per esempio, l’equivalente swahili del malgascio “mura mura”, piano. Come dire che c’è tempo per tutto, tranquilli.

Ed è vero, almeno in Africa. Il tempo scorre diversamente. Forse perché nessuno se ne occupa e, tanto meno, se ne preoccupa. Il tempo è una delle poche cose di cui in Africa tutti sono ricchi, del resto.

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Sui nostri biglietti Tco c’è scritto 20.50. Strano, appena due giorni fa l’autobus Beira-Maputo ci ha lasciato sulla strada, a 20 km da Vilankulos, alle 22.20 (con soli venti minuti di ritardo sull’orario previsto, dunque pressoché perfetto).
Ma sul biglietto Vilankulos-Beira sta scritto 20.50.
C’è scritto anche altro: presentarsi al check-in un’ora prima, alle 19.50. Ma quale check-in? Non c’è nessuna stazione a Vilankulos, l’autobus accosta appena dopo l’incrocio tra la nazionale 1 e la strada che porta al villaggio, davanti a una breve linea di capanne.

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La mano pietosa della signora che ci ha venduto i biglietti ha segnato a penna “ore 20”, forse per risparmiarci dieci minuti d’attesa.
Qualcun altro, però, pensa magari che meritiamo una lezione sul tempo e, quando la proprietaria del nostro albergo chiama per informarsi dell’orario, sostiene che il bus Tco passerà alle otto e che noi dovremo essere alla fermata già alle sette e mezza.
È a quell’ora, infatti, che il taxi ci deposita davanti a una capanna. Il taxista spiega per noi alla signora che si scalda a un piccolo fuoco che siamo lì per l’autobus.
La signora non sembra sorpresa, pare al contrario fidare nel fatto che il venerdì - oggi - e il sabato l’autobus passi prima.

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Mentre culla un bambino piccolissimo ci invita a sedere su una panca davanti al fuoco. La mamma del bambino, intanto, prepara la cena all’interno della capanna. Nient’altro.

Il piccolo viene messo a letto. Le due signore cenano sedute sulle sedie di fronte a noi, una ragazza viene a sua volta a prendere un piatto di riso e pollo. Nient’altro.

Il bimbo piange. La mamma rientra ad allattarlo e finisce per addormentarsi accanto a lui. La signora più anziana sposta qualche legnetto per dare vigore al fuoco. Poi si assopisce. Nient’altro.

Cinquanta metri più in là, intanto, si ferma qualche camion. La ragazza del pollo viene a comprare dalla nostra ospite un paio di confezioni in polistirolo che serviranno da gamelle ai camionisti. I ragazzi della baracca accanto ridono nel buio. Nient’altro.

Un signore si ferma a chiacchierare. Si siede davanti al fuoco che rintuzza a sua volta. Lo incuriosiamo: vuole sapere dove andiamo, da dove veniamo, etc. E riprende il cammino. Nient’altro.

A parte i fuochi (e qualche lampada a petrolio nelle capanne), è buio pesto. Infatti non ho mai visto un cielo così pieno di stelle in vita mia: il più africano tra tutti i cieli d’Africa. Eppure, anche in questo nero, c’è gente che cammina. Ci sono pure ragazzini che giocano. E la ragazza del pollo che torna ancora e ancora a svegliare la nostra ospite e a comprarle due birre per i suoi clienti. Al terzo viaggio anche lei prende coraggio e si informa sul conto nostro. Ride. Ridiamo. Di niente proprio, ma ridiamo. Nient’altro.

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Ma il tempo passa. Tra braci che si spostano da una capanna all’altra per accendere un nuovo fuoco, camion che si arrestano e poi ripartono, stelle e nero, risa e un paio di ubriachi che tutti prendono bonariamente in giro e nel contempo tengono alla larga. Grande lezione di vita: oggi ho imparato il tempo dell’attesa.

E alle 22.15, per premiarmi, il Tco arriva.


(nella foto: resti di barca a Bengueira)

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