
Ci conquistiamo a fatica il monastero di Vattelapesca, oltre il fiume proibito. Il chiostro pseudo-messicano ocra e mattone - con le finestre e le porte circondate di blu e illuminate da cubi bianchi, intervallate da sprazzi turchesi, rossi e verdi - ne valeva la pena, mentre l’interno del monastero è pressoché uguale a tutti quelli, e sono ormai decine, che abbiamo visitato finora. Però qui c’è un unico monaco, orbo da un occhio, che non ha neppure i biglietti d’ingresso ma esige comunque il pagamento di una tariffa di 100 rupie per lasciarci entrare. Seconda variante: per conquistarci il diritto di raggiungere il monastero oltreconfine il nostro “professore” (l’ufficiale di controllo che per legge deve accompagnarci durante tutto il viaggio e che nel nostro caso si rivela essere, invece che una spia al servizio del governo, un povero diavolo davvero di buon cuore) ha lasciato mezza coscia nelle fauci di un mastino tibetano di proprietà del locale commissariato. Terza variante: per varcare la frontiera proibita dobbiamo essere scortati, a pagamento si intende, da un poliziotto scemo che neppure conosce la strada e ci fa semiscalare un dirupo. Quasi a rischio penne. Con il mio solito tempismo e buon carattere, lo insulto in inglese e in italiano ma Nima e “herr professor”, per quanto infortunato, intervengono a calmare le acque.
(nella foto: mulini di preghiera, www.gcbs-japan.com)
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