Gli africani camminano. Sempre. Vanno a piedi. Ovunque. Attraversano persino il mare, a volte. Ed è quello che ci apprestiamo a fare anche noi oggi.
Le premesse non sono delle migliori. Veniamo svegliati dalla pioggia, una vera pioggia tropicale, intensa e persistente. A colazione piovicchia appena e noi siamo disposti a rinunciare alla gita a Quirimba.
La nostra giovane guida, tuttavia, insiste sul fatto che si possa andare e anche Elder, il francese socio di Jörg ovvero l’altro volto del Miti Miwiri, ci rassicura. A quanto pare tutti pensano che si tratti di un temporale passeggero, anche se il cielo continua ad avere un’aria alquanto minacciosa.
Comunque sia, Alex, Carlito e io finiamo per salire a bordo di una barchetta sulla quale già siede una signora locale. Veniamo raggiunti da una spagnola e dalla sua guida. Salpiamo e a breve ricomincia a piovere. Ridiamo, ma, insomma, per tre quarti del viaggio sono raggomitolata addosso alla mia borsa, per fortuna impermeabile, nel tentativo di proteggere tutto quello che contiene.
Quando sollevo lo sguardo non vedo quasi nulla: gli occhiali si rigano immediatamente d’acqua. Avrei bisogno di tergicristalli, ma non li ho. Così rido.
Approdiamo a Quirimba completamente fradici. Ci ripariamo sotto la tettoia di una casa - la stessa dove poi pranzeremo: pesce in umido con patate.
Ci accendono un piccolo fuoco mentre io estraggo dalla borsa di Mary Poppins una salvietta, con la quale ci asciughiamo tutti, e un golf, che mi consente di cambiarmi.
Non appena la pioggia dà un po’ di tregua, partiamo per visitare il villaggio, ma siamo costretti a fare un paio di lunghe soste sotto altrettante tettoie perché, a quanto pare, oggi il tempo ha deciso di essere inclemente.
Cosa che, assicurano tutti, prima, durante e dopo la gita, è assolutamente inusuale per la stagione.
Il villaggio non ha nulla di interessante.
Nel XVI secolo Quirimba era una città importante e Rainer, il signore dell’isola, con cui tra breve faremo conoscenza, mi assicura che fino a pochi anni fa era un centro vivace, con qualche negozio e, persino, un ristorante.
Ora ci sono solo case (la struttura è bellissima: sono rette da tronchi di mangrovia, attraversati orizzontalmente da canne di bambù - o qualcosa del genere - e il reticolo formato dai due legni è riempito di pietre), una moschea, priva di qualsiasi allure, 11 pozzi (di cui ne vediamo due), un vecchio cimitero abbandonato e un altro, microscopico, più recente, un vecchio rudere coloniale (1600 e qualche, forse 32), una reliquia della casa del “tedesco” (misterioso personaggio di cui la nostra guida continua a parlare con un misto di reverenza e? timore? e di cui tra breve sapremo qualcosa di più) e un'enorme piantagione di cocco, anche questa del “tedesco”.
La cosa più fantastica del villaggio sono i ragazzini che giocano con camioncini e auto modellati con il fango. E pressoché perfetti. Ma anche qui, come altrove in Mozambico, se dobbiamo giudicare da quel che si vede per le strade, per adulti e bambini, il gioco nazionale sembra essere il “Non t’arrabbiare”.
Cammina cammina la pioggia finisce e ci ritroviamo in Europa: imbocchiamo un viale circondato da casuarinas, alberi che sembrano parenti dei pini ma non lo sono, mentre una mandria di vacche, pasciute ed evidentemente in buona salute, attraversa la strada poco più avanti.
Sul lato destro un primo edificio bianco, curatissimo, e poi un secondo, più grande e più bello.
Sul fondale bouganvillee, piante verdissime, fiori colorati e palme da cocco a perdifiato: siamo a casa del tedesco.
Non ho il tempo di terminare il pensiero quando un gigante biondo e abbronzato si precipita fuori dalla grande casa e apostrofa la nostra guida: “Che ci fai qui? Quante volte ti ho detto che non devi venire qui? Questa è casa mia”. Anche se non so il portoghese sono in grado di capire frasi semplici come queste e intervengo subito a proteggere la guida e a rassicurare il gigante: “Ci scusi, ce ne andiamo. Tanto piacere”. Il mio intervento sembra placarlo, dice cose tipo non ce l’ho con voi, ma lui deve capire che non può portare qui la gente in questo modo, dovrebbero almeno avvertirci eccetera. Poi ringhia ancora un po’ all’attenzione della guida, infine sorride, si presenta e ci invita a bere qualcosa a casa sua.
È così che facciamo conoscenza con il padrone dell’isola, ugualmente noto come “il tedesco”, alias Rainer, nonché di sua sorella, Coralia, se capisco bene, e del meccanico venuto dal Sudafrica a riparare la loro barca e altri motori, di cui ricordo solo il cognome, Veroni (la famiglia viene, appunto, da Verona: gli italiani hanno davvero popolato il mondo. Almeno fino a 50/60 anni fa).
Il nonno di Rainer arrivò a Quirimba nel 1926, vi si installò e diede il via alla piantagione. “Il tedesco”, quello vero, in un certo senso era lui; lui il capostipite, lui quello della casa in paese. Oggi però, senza dubbio, “il tedesco” è Rainer. Lo rivendica del resto (“I’m German, yes”, ci dice, mentre non posso fare a meno di notare che su una mensola dietro di lui, poco lontano da quella che immagino essere una foto delle nipoti, c’è una piccola asta che inalbera un’altrettanto piccola bandiera tedesca).
In pochi istanti sono tornata in Africa. Quella modello Karen Blixen, tuttavia. Rainer è un personaggio da film. Tra l’altro dell’attore ha tutto: una bella faccia (a mio avviso. I due uomini che mi accompagnano non sono d’accordo, ma fidatevi di una donna eterosessuale in questi casi, per cortesia), forse anche il fisico. Se non altro è alto più di un metro e 90. E magro. Per giunta ha le più belle mani che abbia visto in vita mia. Un perfetto Afrikaneer, però.
La conferma, che arriva: “sono cresciuto in Sudafrica”, non era neppure necessaria. Tutto in lui trasuda il colono. Il tono con cui ha parlato alla nostra guida e quello con cui parla a noi, il maschilismo che rivela quando racconta la sua storia (“prima ci fu mio nonno, poi ci fu mio padre. Mio padre è morto. Ora ci sono io”. E sua sorella? Sua madre? Sua nonna?), il suo disprezzo per il governo, i funzionari, le Ong (“tutta questa gente. Riceve soldi per aiutare l’Africa e cosa fa? La prima cosa che fa quando arriva è comprare una Land Rover”. Qui persino Coralia sfuma: “beh, ma come altrimenti potrebbero muoversi?” E Rainer cambia direzione: “oh, potrebbero comprare una Ma... Va altrettanto bene. Ma no, loro vogliono la Land Rover”) e, sembra, in generale, i neri. E persino il suo amore per il Mozambico, dove del resto vive e dove è nato, e per l’Africa.
Lo ascolto. E non posso negare di subire il suo, a mio avviso indiscutibile, fascino. Avrei parecchie obiezioni ma sono una sciocca europea in vacanza (quanto sciocca anche agli occhi di Rainer si vedrà tra poco) e sono sua ospite, perciò taccio. Carlito, intanto, incalza con le domande e, alla fine, un tema su cui concordiamo tutti si trova. Rainer ci racconta infatti che gli Americani (ma non solo, dice, pure altri. Per esempio gli svedesi) hanno cominciato a sondare il nord del Mozambico alla ricerca di petrolio. Un po’ ne hanno trovato, ma non tanto. In compenso, nel frattempo, hanno scovato un mucchio di gas. E quello, intanto che continuano a cercare il petrolio, intendono sfruttarlo subito. Così sono pronti a installare i loro impianti e a rovinare ancora un po’ l’Africa. “Poor Africa”.
Tra le vittime degli strali di Rainer ci sono pure i cinesi, che sono ormai intervenuti massicciamente a banchettare con quel che resta dell’Africa. I cinesi hanno costruito l’aeroporto internazionale di Maputo e si stanno ora occupando degli imbarchi nazionali. A quanto pare hanno imposto solo manovali cinesi e Carlito e io ci ricordiamo in effetti di esserci stupiti vedendo solo cinesi sulle impalcature all’aeroporto di Maputo.
In sostanza gli unici due mozambicani con i quali abbiamo parlato finora, le due R, Raul e Rainer, differenti per ceto sociale, cultura, background e un mucchio di altre cose, hanno senz’altro in comune l’odio verso i cinesi e il disprezzo verso la classe politica mozambicana. Argomenti che travagliano entrambi a un punto tale che costituiscono se non i loro unici, senz’altro i loro principali argomenti di conversazione.
Visto che, per quanto “signore dell’isola”, Rainer è educato, si interessa ai nostri progetti per la giornata. Quando gli spieghiamo che rientreremo a piedi a Ibo si mette a ridere.
È chiaro che non capisce cosa ci spinga a fare una simile stronzata. In effetti sostiene che quando un turista fa la traversata a piedi, pure se gli fa schifo, poi non osa dire che non ne valeva la pena. Perciò vende a tutti che è una figata. (Gli chiediamo pure del lago Niassa. Non c’è mai stato. Ma sostiene che nessuno gli ha mai detto che è una favola: “qualcuno dice che è una cagata, qualcun altro che è carino. Ma nessuno ha mai detto che è fantastico”. Difficile darsi del pirla da solo è, insomma, la tesi di Rainer).
Poi prende il libro delle maree e ricomincia a ridere. Pure sua sorella butta un occhio e anche lei sembra, per così dire, imbarazzata. Lei ci dice che, senza ombra di dubbio, l’acqua sarà alta (la marea è 1.40 metri) e ci toccherà camminare con il mare fino al petto. A dire il vero ce l’ha annunciato pure la nostra guida stamane, naturalmente dopo che siamo partiti e altrettanto naturalmente minimizzando (“solo cinque minuti, il resto no”), ma Coralia e Rainer hanno l’aria di dire che non è proprio la migliore idea del mondo.
Rainer soprattutto ci prende un po’ in giro e non capisce probabilmente come si possa pagare per fare una cosa del genere. In ogni caso entrambi ci dicono che non dobbiamo partire prima delle tre meno un quarto.
Arriva il momento di congedarsi e Rainer si offre di accompagnarci con la camionetta al villaggio. Salgo davanti di fianco a lui. Un fucile ci separa. Veroni dice che serve per i babbuini. Chissà. In ogni caso il fucile nell’abitacolo non mi sorprende affatto. Se questo fosse un film, del resto, il fucile ci sarebbe. Quindi c’è.
Al villaggio ribadiamo alle due guide le tesi dei tedeschi. Carlito fa persino un po’ il bullo: no, noi non partiamo prima delle tre meno un quarto. Alex e io ci fidiamo delle guide e quando ci intimano di partire si parte. Sono le due e un quarto più o meno. La nostra guida se l’è anche leggermente presa, mi dice che il tedesco non sa un tubo, che lui conosce benissimo le maree e che partendo più tardi ci saremmo trovati nella merda.
Non saprò mai chi aveva ragione. Quello che so è che sto camminando nel mare e che è bellissimo.
In effetti il mare non c’è; si è ritirato lontano. Al suo posto una distesa di sabbia bagnata, con qualche pozza d’argento; una cicogna, bianca, con le estremità delle ali nere, una vera bellezza, in equilibrio su una sola zampa; uno straordinario paesaggio lunare, un deserto senza dune con incredibili sfumature tra il rosa e il blu. Ne vale la pena, in questo momento lo so: queste immagini mi rimarranno per sempre dietro gli occhi. E potrò recuperarle e rivederle ogni volta che ne avrò bisogno solo richiudendo le palpebre.
Salvo che l’avventura non è ancora cominciata. L’acqua è ormai ai polpacci e il fondo comincia a essere melmoso. I sandali e i piedi iniziano a subire l’effetto ventosa e camminare diventa meno gradevole. L’acqua sale e la melma aumenta e mi cattura un sandalo. Uff. Che palle. E se avesse ragione Rainer?
Mi siedo nell’acqua e con le mani, a tentoni, cerco il sandalo nella melma. Lo trovo e lo ri-infilo alla bell’e meglio. Pessima idea. Dopo un paio di metri rischio di perderlo nuovamente. Così mi fermo e faccio le cose per bene. Nel frattempo vedo che la nostra guida comincia a prendere in mano la sua borsa e a togliersi la maglietta. Il momento di salvare il salvabile ponendolo sopra la testa evidentemente si avvicina. Perciò lo imito. Comincio ad averne le palle piene e il peggio deve ancora venire. Si avanza a fatica anche prima di imboccare il canale. Immagino che non andrà meglio.
Ci siamo, l’acqua mi arriva alle ascelle, il fondo è sempre melmoso, non capisco bene quale sia il cammino da prendere. La guida avanza senza darmi indicazioni. Per fortuna incrocio un paio di signori che mi spiegano che devo passare vicino al bambù, piantato nella sabbia, che serve appunto da indicazione per le barche; ed, evidentemente, anche per gli esseri umani.
Superato il primo canale camminare sembra più facile. Non per molto: il secondo canale è in agguato. Ed è un po’ peggio del primo. Il livello dell’acqua è più o meno lo stesso, ma la corrente sensibilmente più forte. Sacramento mentalmente ma poi la guida della ragazza spagnola mi viene incontro, mi offre il braccio e mi traghetta al sicuro. Poi torna a traghettare Alex e Carlito.
Voilà, quasi terra ferma. Molto quasi. Comincia il percorso accidentato tra le mangrovie. Sarebbe niente. Se non fosse che la pioggia della mattina ha prodotto un percorso di fango grigio e sdrucciolevole. E io scivolo. Una volta e resto in piedi. Due. E resto in piedi. La terza però mi ritrovo con il sedere nel fango e gli schizzi mi arrivano persino sugli occhiali.
Alex, galante, si offre di portarmi la borsa e io, paracula, accetto. Non so se a causa della quantità di zanzare, che peraltro beccano solo Carlito ma in quantità davvero impressionante, della mia scivolata o perché tale è il percorso previsto, ricominciamo a camminare nell’acqua. Quella di un piccolo canale tra le mangrovie. Pieno di sassi ma, se non altro, privo di fango.
Per conquistare Ibo ci vogliono effettivamente tre ore. Forse anche di più.
All'arrivo i due baldi maschietti vanno a prenotare la cena al Cinco Portas, mentre io cerco di passare inosservata e resto ad attenderli sotto il portico del Miti Miwiri.
Tentativo inutile: la guida è evidentemente entrata ad annunciare la missione compiuta e Jörg viene a informarsi sull’andamento della gita.
Il mio resoconto è fedele ma ridanciano e il risultato è che lui conclude con un “contento che abbiate apprezzato”.
Rainer non aveva poi così torto, in fin dei conti.
(nella foto: bassa marea a Quirimba)
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