Di nuovo a Lo Ghekar. Fa quasi freddo ed è quasi sera. Sul recinto di pietre che circonda quella specie di stalla più aia nella quale sono montate le tende si è installata una capretta; è così carina, bianca e nera, con un musetto così dolce che nessuno, nemmeno la più cruda Roberta, l’imprenditrice, le resiste. Lentamente ci avviciniamo e, incredibile, quella non scappa. L’arcano si svela subito dopo: è legata. A questo punto avrai capito come finisce la storia. Non sapevo se risparmiartela.
Però all’inizio non ci credo. Penso mi prendano in giro. No, davvero, non può essere la nostra cena. Poi vedo il cuoco che affila il coltello (ma non erano quasi tutti buddisti? mah). Pietismo ipocrita, il mio come quello di qualche altro; sgozzata in diretta (nascosta alla nostra vista, per fortuna, ma pur sempre a pochi passi da noi) o no, la capretta, a sera, ce la siamo mangiata (tranne Francesca, che è vegetariana) e anche con sommo gusto. Poi Mustang café a go-go, con il “professore” ubriaco che si esibisce sulla musica di percussioni e fiati, suonati dai portatori, come una danzatrice del ventre.
Finale in coro: Nepal e Italia uniti in un unico inno, la canzone più popolare del paese, “Resham Phiriri”. E, malgrado il sacrificio dell’innocente, quella notte tutti noi, italiani e nepalesi confusi, abbiamo dormito come bébé. Quasi il nostro fosse il sonno dei giusti.
(nella foto: una capretta tibetana, www.inseparabile.com/capretta_tibetana.htm)
2 commenti:
e chi lo sa, magari lo era davvero, il sonno dei giusti.
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