A furia di inseguire capre per i vicoli di Lo Manthang, Francesca e io abbiamo capito una cosa: qualunque giro tu faccia ti ritrovi sempre nello stesso punto. A meno, naturalmente, che tu non esca dalle mura e riprenda il cammino. Così, continuando a ripercorrere i nostri passi, finiamo per ritrovare la piazza, inizio e fine di tutti i nostri vagabondaggi. È piena zeppa di lomanthanghesi: uomini da una parte, donne dall’altra, della strada. In un angolo è seduta bellaragazza, che saluta, sorride e torna a puntare il viso verso tre musicisti che noi scorgiamo solo in quel preciso istante. Hai presente i dervisci danzanti? bene, prendine tre con cappellino e tutto, sostituisci la gonna svasata con un paio di amplissimi pantaloni un po’ califfi, piazzagli in mano un paio di percussioni e qualche fiato primitivo e immaginali in una strada polverosa circondata da basse case che un tempo sono state bianche. Non proprio al centro, ma un po’ spostati verso il fondale di una bottega e leggermente sulla destra. Voilà lo spettacolo.
I musicisti ballerini si guardano l’un l’altro e girano lentamente a ritmo attorno ai loro strumenti senza mai spezzare il triangolo. L’arrivo di un quarto suonatore, forse in ritardo, produce un leggero trambusto ma non c’è tempo di badargli perché, proprio allora, irrompe sulla scena il bullo del paese a bordo dell’unica, lucidissima moto di tutto l’alto Mustang (è arrivata dalla Cina perché dal sud, da dove proveniamo noi, si arriva solo a piedi, d’uomo, di mulo o di cavallo che siano, mentre si favoleggia che la strada che viene dal Tibet sia, al limite, percorribile anche da qualche mezzo meccanico). Il suono stonato funziona da incantatore di serpenti e tutti i pargoli e le fanciulle (compresa la nostra bellaragazza) si gettano in un gran vociare all’inseguimento dell’imbecille su due ruote.
E la festa è finita.
(la foto: www.dongurewitzphotography.com)
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