04 settembre 2009

5-6 agosto 2009 - Ouidah - Il cattivo viene sempre da altrove


42 km separano Cotonou da Ouidah. 42 km di strada asfaltata, bella, a posto, con tanto di pedaggio per attraversare un ponte. Eppure per percorrere questi 42 km ci vuole un’ora e mezzo di viaggio. Il traffico è assurdo, tanto più per il Benin, ma Flavio ci spiega che in pochi anni Cotonou è passata da circa 1 milione di abitanti a 3 milioni e mezzo (il sito dell’Ambasciata dice "più di 800 mila"; la Lonely Planet, che, però, sul Benin è più inutile che pessima, "761.900"; il Petit Futé, assolutamente attendibile e quasi sempre precisissimo, dice che gli abitanti sono "ufficialmente un po’ più di 700 mila e ufficiosamente circa 3 milioni") e, ovviamente, non era affatto preparata ad accogliere tutta ‘sta gente. E, altrettanto ovviamente visto il traffico, puzza. Auto, moto, scooter vanno a benzina. Tutti. Di che benzina si tratti non è dato sapere, quello che è chiaro è che si vende in fusti, bottiglie e similia per le strade a 300 franchi CFA al litro (1 € = 6,55957 franchi o, se preferite, 1000 CFA = 1,5 € circa), oltre che nei distributori ufficiali (di cui ancora devo vedere un esemplare, tra l’altro), dove costa 400 franchi al litro. È benzina contrabbandata dalla Nigeria, via strada e, preferibilmente, via corsi d’acqua. Sulle strade corrono pure bare ambulanti che ne trasportano: due vesponi fusi assieme dove tutto, o quasi, è serbatoio. Secondo quanto raccontano Thérèse e Flavio è una sorta di mafia della benzina in mano ai disabili. Sulla base di un reportage che hanno appena visto in Tv, ci spiegano che i “distributori” vanno a rifornirsi in un piccolo villaggio nigeriano, pure quello gestito da disabili. Quello che è certo è che questa benzina ubriaca di ottani puzza. Senza pensare a quanto inquina. Ricordo di botto che poco prima di arrivare a Cotonou dall’aereo ho visto le nuvole diventare grigie. Sarà stata pioggia, magari, ma aveva tutta l’aria di essere smog.
L’arrivo alla Maison de la Joie è una festa: i bambini ci corrono incontro e mi trasformo rapida- mente in un arbre aux enfants, con pargoli che mi pendono da tutti gli arti. Marie, la figlia minore di Justine e Christian, mi salta al collo e me la spupazzo con immenso piacere per qualche tempo. Insieme a noi, intanto, sono arrivati anche quattro simpatici insegnanti napoletani: Lisa, Ciro, Patrizia e Francesco. Mentre ceniamo, decidiamo di passare insieme il primo giorno a Ouidah, patria del vudù (e di tutte le sue emanazioni, dal candomblé alla santeria) e centro nevralgico della tratta degli schiavi nel XIX secolo (come racconta Bruce Chatwin nel “Viceré di Ouidah”).
Il nostro giro turistico prende il via dalla Foresta Sacra che, nel 1992, anno del primo festival vudù (in realtà è cominciato il 13 gennaio 1993, ma da allora si tiene ogni anno), finanziato anche dall’Unesco e, secondo Christian, fortemente voluto dal “primo presidente” Nicéphore Soglo, si è riempita di statue di cemento e di metallo, ricavate da utensili e mezzi di trasporto vari che ricordano i feticci della strega di Kirikou (è d’accordo anche Anicet, nostra guida nella Foresta Sacra, che alla mia citazione si mette a cantare tutto felice “Kirikou n’est pas grand, mais il est vaillant. Mais il est vaillant”). Tra le statue c’è anche quella di una bambola vudù, trafitta, come è uso, da punte e armi bianche varie. Anicet, dal volto scarificato (lo fanno quando il bimbo ha tre mesi, ci dice, perché, come ci spiega su richiesta, è un devoto del dio Pitone, la divinità più importante di Ouidah), dice che basta conoscere il nome di una persona per “stregarla” con una bamboletta vudù. Non c’è alcun bisogno di ciocche di capelli, peli pubici, unghie di scarto e altre simili schifezze varie, insomma. Quanto alla foresta è sacra da quando lo spirito del re Kpasseé (XIV sec., il fondatore della città) si è manifestato all’interno di un albero ancora visibile, che, come tutti gli alberi sacri del Benin, è un iroko.
Dopo la foresta è la volta dell’ex forte portoghese, che ospita il museo di storia di Ouidah (gli andrebbe meglio il nome di museo della memoria che, invece, spetta alla Casa del Brasile, se per memoria si intende memoria dello schiavismo, ma non importa). Lucrèce, matrona che ci fa da guida, è fin troppo esaustiva nel commentare riproduzioni che possono avere, al più, un valore pedagogico. I due “cimeli” più interessanti stanno nell’ultima e tredicesima stanza: due “arazzi” patchwork uno dei quali racconta la storia di Ouidah, mentre il secondo mette in scena alcuni proverbi locali. All’esterno il campo dove venivano stipati gli schiavi, in attesa di raggiungere la piazza Chacha (o Cha-cha = rapido, soprannome di Francisco de Souza, il viceré di Ouidah del libro di Chatwin, che, curiosamente, il Bruce ribattezza Francisco Da Silva. Ma non è l’unica inesattezza del nostro, amen) dove veniva effettuata la tratta, in seguito la terribile case Zomaï, la casa oscura, dove gli schiavi venivano lasciati un mese al buio perché si abituassero a un futuro nelle stive delle navi negriere nelle quali avrebbero viaggiato per 12 settimane e, infine, la nave o la fossa comune.
Dal museo passiamo alla Rotta degli Schiavi, lunga 3,5 km, e percorriamo le tappe previste: la piazza Chacha, lo Zomaï (letteralmente “luogo dove il fuoco non entra), l’albero dell’oblio (attorno al quale gli uomini dovevano girare nove volte, le donne sette), l’albero del ricordo (o della memoria; tre giri qualunque fosse il sesso) - per dimenticare, il primo, il luogo da cui si veniva, e ricordare, il secondo, almeno parte di sé - la fossa comune e la Porta del Non Ritorno, monumento se non bello, per lo meno dotato di un’eloquente forza evocativa, costruito dall’Unesco nel 1992 in occasione dei 500 anni dalla scoperta dell’America. A poca distanza c’è anche la Porta del Ritorno a ricordo dei discendenti affrancati degli schiavi che fecero ritorno alla madre patria.
La Casa do Brazil ospita invece un’espo- sizione perma- nente dedicata alla donna africana e al suo ruolo di pilastro nella società. Qui scopriamo che l’escissione era (e, in alcuni casi, tuttora è) pratica corrente nel nord del Benin, mentre nel sud è meno diffusa. Secondo la guida-factotum del museo, comunque, da cinque anni (cinque?) l’escissione è vietata. Nel sud, in ogni caso, non è cosa e, sembra suggerire, non lo è mai stata. Per il resto vale il detto “tutto il mondo è paese”: anche in Benin, come in quasi tutto il pianeta, sono le donne a sovraccaricarsi di lavoro, nei campi come in casa, mentre l’uomo si limita a esistere. Fino a non molto tempo fa in Benin una donna si realizzava diventando madre: conta(va)no i figli, non i padri, spesso completamente assenti. E per rincarare sulle similitudini tra qui e il resto del mondo, anche nel caso in esame il cattivo viene sempre da altrove: secondo i beninois in Benin tutte le prostitute sono togolesi e tutti i delinquenti nigeriani. Hai visto mai?


(nelle foto: un bimbo guarda una cerimonia; danza tradizionale a Ouidah; Anicet, nostra guida alla Foresta Sacra; cartello al Museo di Storia di Ouidah)

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