
Non ci fosse questa maledetta sensazione di malessere. Saranno le nove e mezza, il sole non è ancora alto ma io sudo come in una sauna. Forse ho anche mal di pancia. E cammino. Mi sento Aschenbach? Sì, col cavolo. Lui è un “von”, un esteta in una Venezia bella da morirne; io una cretina in giro per strade polverose, che oggi trovo pure puzzolenti: gli odori del cibo mi colpiscono come sferzate. Sto male. Male come? Non so. Male, comunque. Ho un solo obiettivo: arrivare fino ai giardini del Fort Français e sedermi. Quando finalmente li raggiungo in effetti non mi siedo, mi corico. E ho una quasi-certezza: ho la malaria. Dio che palle, mi lasceranno partire? E, nel caso, ce la farò a portare la nipotina al mare o dovremo rinunciare? Accidenti quanto sudo.
“Va meglio?” chiede Carlo. No, cazzo, non va niente meglio, direi che va peggio invece. Forse perché fa più caldo. Dico a Carlo che non ce la fo, non ce la posso fare: torno a casa, ma lui, se vuole, può andare in spiaggia ugualmente. Il mio amore si carica pure il mio zainetto e rientriamo. Mi sembra di correre e di barcollare insieme e, all’arrivo, mi schianto sul letto con un Dolipran. A parte un momento, non so quanto lungo, in cui perdo conoscenza, per il resto sono a letto e sveglia. Spompata come non mai. Ascolto Carlito, i bimbi, Justine che conferma al mio amore che i miei sintomi sono quelli della malaria. Confesso che un po’ panico: non mi lasceranno mai partire. Poi prendo la saggia decisione di isolarmi qualche ora dal mondo grazie all’iPod e quando, verso le sei di sera, arrivano Marie e Kemi a festeggiare nel mio letto va meglio. Decisamente meglio.
Ora lo so: partirò. Ed è lo strazio di lasciare la Maison, i bambini (con François che chiede 1000 volte quando torniamo. Non lo so, cucciolo mio, non lo so, potrebbe pure essere mai. Ma non ho voglia di dirlo e, se è per questo, neppure di pensarlo). Marie si attacca al collo di Carlo e non vuole lasciarlo andare. François bacia il finestrino dietro il quale mi nascondo. L’auto parte; Justine, per fortuna, parla senza sosta. Io cerco di gestire il male (che malaria, poi, non sarà) e la pena. Non voglio che sia un addio, non ce la posso fare.
(nella foto: statua vudù nella foresta sacra, Ouidah)