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23 settembre 2011

17 agosto 2011 - Beira-Vilankulos - In viaggio

“Pensa direito, anda com Jeito”. È la pubblicità dei preservativi. Dipinta in nero e verde su un muro bianco a caratteri cubitali. Avevo letto da qualche parte che ce n’erano un mucchio, ma, curiosamente, è la prima che noto.
Si lascia Beira attraversando un paesaggio lussureggiante verde intenso, pieno di palme. Qui c’è un sacco d’acqua. Incrociamo poi il fiume Buzi, mentre il paesaggio e gli alberi cambiano. In ogni caso non c’è più nessuna traccia di sua maestà il baobab, vero re del nord del paese.
Intanto via Sms notizie non ottime da Vilankulos (oddio, relativizziamo; ieri sera abbiamo avuto una vera pessima notizia: è morto Christian Yaya, uomo buono e dolce, matematico e papà della Maison de la Joye. E facciamo fatica a non pensarci): domani niente snorkeling e, soprattutto, niente Bazaruto.
Seguono colline, papaye (albero curioso, con pochissimi rami, pochissime foglie e tantissimi frutti) e banani.
L’autobus Tco ci lascia, alle 10.20 di sera, in the middle of nowhere, al buio. E di Jonas, che sarebbe dovuto venire a prenderci, non c’è traccia.


(nella foto, il baobab di Peter's Place, a Pemba, spiaggia di Wimbe)

13 ottobre 2009

23 agosto 2009 - Ouidah, ultimo giorno: quello della paranoia

È domenica e, quando abbiamo finito di fare colazione e scendiamo, la maggior parte degli abitanti della Maison de la Joie è già a messa. Così contiamo di bissare la giornata di ieri: relax e buon cibo alla Casa del Papa.
Non ci fosse questa maledetta sensazione di malessere. Saranno le nove e mezza, il sole non è ancora alto ma io sudo come in una sauna. Forse ho anche mal di pancia. E cammino. Mi sento Aschenbach? Sì, col cavolo. Lui è un “von”, un esteta in una Venezia bella da morirne; io una cretina in giro per strade polverose, che oggi trovo pure puzzolenti: gli odori del cibo mi colpiscono come sferzate. Sto male. Male come? Non so. Male, comunque. Ho un solo obiettivo: arrivare fino ai giardini del Fort Français e sedermi. Quando finalmente li raggiungo in effetti non mi siedo, mi corico. E ho una quasi-certezza: ho la malaria. Dio che palle, mi lasceranno partire? E, nel caso, ce la farò a portare la nipotina al mare o dovremo rinunciare? Accidenti quanto sudo.
“Va meglio?” chiede Carlo. No, cazzo, non va niente meglio, direi che va peggio invece. Forse perché fa più caldo. Dico a Carlo che non ce la fo, non ce la posso fare: torno a casa, ma lui, se vuole, può andare in spiaggia ugualmente. Il mio amore si carica pure il mio zainetto e rientriamo. Mi sembra di correre e di barcollare insieme e, all’arrivo, mi schianto sul letto con un Dolipran. A parte un momento, non so quanto lungo, in cui perdo conoscenza, per il resto sono a letto e sveglia. Spompata come non mai. Ascolto Carlito, i bimbi, Justine che conferma al mio amore che i miei sintomi sono quelli della malaria. Confesso che un po’ panico: non mi lasceranno mai partire. Poi prendo la saggia decisione di isolarmi qualche ora dal mondo grazie all’iPod e quando, verso le sei di sera, arrivano Marie e Kemi a festeggiare nel mio letto va meglio. Decisamente meglio.
Ora lo so: partirò. Ed è lo strazio di lasciare la Maison, i bambini (con François che chiede 1000 volte quando torniamo. Non lo so, cucciolo mio, non lo so, potrebbe pure essere mai. Ma non ho voglia di dirlo e, se è per questo, neppure di pensarlo). Marie si attacca al collo di Carlo e non vuole lasciarlo andare. François bacia il finestrino dietro il quale mi nascondo. L’auto parte; Justine, per fortuna, parla senza sosta. Io cerco di gestire il male (che malaria, poi, non sarà) e la pena. Non voglio che sia un addio, non ce la posso fare.



(nella foto: statua vudù nella foresta sacra, Ouidah)

28 settembre 2009

E Ouidah: bambini felici

Dopo il mercato di Dantokpa e il pranzo tutti insieme (la signora, le due guide, l’autista, Carlito e io), Justine Michayi ci porta a visitare il centro Afamies, dove veniamo accolti da una farandola di donne danzanti che mi trascinano nel loro ballo e che organizzano un vero e proprio spettacolo (con quasi comizio) in nostro onore. Poi la signora Michayi ci consegna un po’ di carte, ci vende un paio di oggettini che le donne fabbricano per sostentarsi e ci riconduce tra le star. Qui le danze cominciano a richiedere una moneta in fronte e l’esempio lo dà la stessa Michayi. Esaurite le monete è il momento dei saluti ed è qui che mi accorgo che non sempre ridere e ballare insieme, checché ne dicano tutti i bianchi malati d’Africa che sto leggendo in questo viaggio, vuol dire granché: la più disinibita, impudica e ciarliera delle signora vuole 2000 franchi “pour moi, pour moi seule” e d’improvviso tutto mi fa rabbia.
Per fortuna rientriamo a Ouidah per la “route des pêches”, che è meravigliosa e che sfocia sulla Porta di Non ritorno e sulla Route des esclaves. Visto che questo sarebbe dovuto essere il nostro ultimo giorno e che si chiude proprio laddove era cominciato, il circolo si chiude in modo perfetto: bravo Flavio.
Alla Maison Marie, Kemi, Bernadette, François, Magnificat, Abbas e gli altri bambini ci accolgono, come sempre, in festa.



(foto: chez Afamies)

04 settembre 2009

5-6 agosto 2009 - Ouidah - Il cattivo viene sempre da altrove


42 km separano Cotonou da Ouidah. 42 km di strada asfaltata, bella, a posto, con tanto di pedaggio per attraversare un ponte. Eppure per percorrere questi 42 km ci vuole un’ora e mezzo di viaggio. Il traffico è assurdo, tanto più per il Benin, ma Flavio ci spiega che in pochi anni Cotonou è passata da circa 1 milione di abitanti a 3 milioni e mezzo (il sito dell’Ambasciata dice "più di 800 mila"; la Lonely Planet, che, però, sul Benin è più inutile che pessima, "761.900"; il Petit Futé, assolutamente attendibile e quasi sempre precisissimo, dice che gli abitanti sono "ufficialmente un po’ più di 700 mila e ufficiosamente circa 3 milioni") e, ovviamente, non era affatto preparata ad accogliere tutta ‘sta gente. E, altrettanto ovviamente visto il traffico, puzza. Auto, moto, scooter vanno a benzina. Tutti. Di che benzina si tratti non è dato sapere, quello che è chiaro è che si vende in fusti, bottiglie e similia per le strade a 300 franchi CFA al litro (1 € = 6,55957 franchi o, se preferite, 1000 CFA = 1,5 € circa), oltre che nei distributori ufficiali (di cui ancora devo vedere un esemplare, tra l’altro), dove costa 400 franchi al litro. È benzina contrabbandata dalla Nigeria, via strada e, preferibilmente, via corsi d’acqua. Sulle strade corrono pure bare ambulanti che ne trasportano: due vesponi fusi assieme dove tutto, o quasi, è serbatoio. Secondo quanto raccontano Thérèse e Flavio è una sorta di mafia della benzina in mano ai disabili. Sulla base di un reportage che hanno appena visto in Tv, ci spiegano che i “distributori” vanno a rifornirsi in un piccolo villaggio nigeriano, pure quello gestito da disabili. Quello che è certo è che questa benzina ubriaca di ottani puzza. Senza pensare a quanto inquina. Ricordo di botto che poco prima di arrivare a Cotonou dall’aereo ho visto le nuvole diventare grigie. Sarà stata pioggia, magari, ma aveva tutta l’aria di essere smog.
L’arrivo alla Maison de la Joie è una festa: i bambini ci corrono incontro e mi trasformo rapida- mente in un arbre aux enfants, con pargoli che mi pendono da tutti gli arti. Marie, la figlia minore di Justine e Christian, mi salta al collo e me la spupazzo con immenso piacere per qualche tempo. Insieme a noi, intanto, sono arrivati anche quattro simpatici insegnanti napoletani: Lisa, Ciro, Patrizia e Francesco. Mentre ceniamo, decidiamo di passare insieme il primo giorno a Ouidah, patria del vudù (e di tutte le sue emanazioni, dal candomblé alla santeria) e centro nevralgico della tratta degli schiavi nel XIX secolo (come racconta Bruce Chatwin nel “Viceré di Ouidah”).
Il nostro giro turistico prende il via dalla Foresta Sacra che, nel 1992, anno del primo festival vudù (in realtà è cominciato il 13 gennaio 1993, ma da allora si tiene ogni anno), finanziato anche dall’Unesco e, secondo Christian, fortemente voluto dal “primo presidente” Nicéphore Soglo, si è riempita di statue di cemento e di metallo, ricavate da utensili e mezzi di trasporto vari che ricordano i feticci della strega di Kirikou (è d’accordo anche Anicet, nostra guida nella Foresta Sacra, che alla mia citazione si mette a cantare tutto felice “Kirikou n’est pas grand, mais il est vaillant. Mais il est vaillant”). Tra le statue c’è anche quella di una bambola vudù, trafitta, come è uso, da punte e armi bianche varie. Anicet, dal volto scarificato (lo fanno quando il bimbo ha tre mesi, ci dice, perché, come ci spiega su richiesta, è un devoto del dio Pitone, la divinità più importante di Ouidah), dice che basta conoscere il nome di una persona per “stregarla” con una bamboletta vudù. Non c’è alcun bisogno di ciocche di capelli, peli pubici, unghie di scarto e altre simili schifezze varie, insomma. Quanto alla foresta è sacra da quando lo spirito del re Kpasseé (XIV sec., il fondatore della città) si è manifestato all’interno di un albero ancora visibile, che, come tutti gli alberi sacri del Benin, è un iroko.
Dopo la foresta è la volta dell’ex forte portoghese, che ospita il museo di storia di Ouidah (gli andrebbe meglio il nome di museo della memoria che, invece, spetta alla Casa del Brasile, se per memoria si intende memoria dello schiavismo, ma non importa). Lucrèce, matrona che ci fa da guida, è fin troppo esaustiva nel commentare riproduzioni che possono avere, al più, un valore pedagogico. I due “cimeli” più interessanti stanno nell’ultima e tredicesima stanza: due “arazzi” patchwork uno dei quali racconta la storia di Ouidah, mentre il secondo mette in scena alcuni proverbi locali. All’esterno il campo dove venivano stipati gli schiavi, in attesa di raggiungere la piazza Chacha (o Cha-cha = rapido, soprannome di Francisco de Souza, il viceré di Ouidah del libro di Chatwin, che, curiosamente, il Bruce ribattezza Francisco Da Silva. Ma non è l’unica inesattezza del nostro, amen) dove veniva effettuata la tratta, in seguito la terribile case Zomaï, la casa oscura, dove gli schiavi venivano lasciati un mese al buio perché si abituassero a un futuro nelle stive delle navi negriere nelle quali avrebbero viaggiato per 12 settimane e, infine, la nave o la fossa comune.
Dal museo passiamo alla Rotta degli Schiavi, lunga 3,5 km, e percorriamo le tappe previste: la piazza Chacha, lo Zomaï (letteralmente “luogo dove il fuoco non entra), l’albero dell’oblio (attorno al quale gli uomini dovevano girare nove volte, le donne sette), l’albero del ricordo (o della memoria; tre giri qualunque fosse il sesso) - per dimenticare, il primo, il luogo da cui si veniva, e ricordare, il secondo, almeno parte di sé - la fossa comune e la Porta del Non Ritorno, monumento se non bello, per lo meno dotato di un’eloquente forza evocativa, costruito dall’Unesco nel 1992 in occasione dei 500 anni dalla scoperta dell’America. A poca distanza c’è anche la Porta del Ritorno a ricordo dei discendenti affrancati degli schiavi che fecero ritorno alla madre patria.
La Casa do Brazil ospita invece un’espo- sizione perma- nente dedicata alla donna africana e al suo ruolo di pilastro nella società. Qui scopriamo che l’escissione era (e, in alcuni casi, tuttora è) pratica corrente nel nord del Benin, mentre nel sud è meno diffusa. Secondo la guida-factotum del museo, comunque, da cinque anni (cinque?) l’escissione è vietata. Nel sud, in ogni caso, non è cosa e, sembra suggerire, non lo è mai stata. Per il resto vale il detto “tutto il mondo è paese”: anche in Benin, come in quasi tutto il pianeta, sono le donne a sovraccaricarsi di lavoro, nei campi come in casa, mentre l’uomo si limita a esistere. Fino a non molto tempo fa in Benin una donna si realizzava diventando madre: conta(va)no i figli, non i padri, spesso completamente assenti. E per rincarare sulle similitudini tra qui e il resto del mondo, anche nel caso in esame il cattivo viene sempre da altrove: secondo i beninois in Benin tutte le prostitute sono togolesi e tutti i delinquenti nigeriani. Hai visto mai?


(nelle foto: un bimbo guarda una cerimonia; danza tradizionale a Ouidah; Anicet, nostra guida alla Foresta Sacra; cartello al Museo di Storia di Ouidah)

31 luglio 2009

Benin meno cinque - La Maison de la Joie

Pinocchietto e io siamo abituati a viaggiare soli. Così, anche se questa volta tutto è stabilito in anticipo e organizzato da Viaggi&Miraggi, il nostro gruppo è composto solo da noi due. Tuttavia le regole del turismo responsabile prevedono un incontro pre-partenza e qualche giorno fa abbiamo incrociato via Skype gli italiani che partiranno per il Benin più o meno nel nostro stesso periodo. E, soprattutto, la loro guida: Flavio. Flavio è, insieme alla moglie Thérèse, beninoise, e all'amica Justine, l'ideatore e l'anima della Maison de la Joie, il luogo dove trascorreremo la maggior parte delle nostre notti in Benin, la sua casa a Ouidah e la casa di una ventina di bambini "prestati". La tradizione beninoise di inviare i propri figli presso parenti più benestanti perché possano avere un futuro migliore si è trasformata in un commercio di bambini schiavi, così Flavio, Thérèse, Justine e i loro amici hanno liberato alcuni di questi bimbi accogliendoli nella loro casa-famiglia. Oggi alla Maison de la Joie vivono una coppia (Justine e il marito Christian), una trentina di ragazzi (compresi i figli di Christian e Justin) e cinque signore che lavorano nel ristorantino aperto dalla Maison. La casa si mantiene con contributi privati, adozioni a distanza e con i proventi dei viaggi di turismo responsabile.
Dal computer esce la voce di Flavio e già mi piace. Intanto è bella e io sono sempre stata sensibile ai bei timbri. Poi il ragazzo (l'uomo, piuttosto, siamo coetanei) è dannatamente simpatico. Racconta un sacco di cose: di sé, della Maison, del Benin, fornisce informazioni pratiche, regala una manciata di sogni, spazza il campo dalle illusioni (per esempio: voi siete bianchi, dunque portafogli ambulanti agli occhi dei beninois). Dice che è un viaggio tosto, poi che il Benin ha una popolazione di 7-11 milioni di abitanti (i dati ufficiali sono restati a sette milioni e mezzo), il 40% dei quali ha meno di 14 anni. Parla del cibo e sostiene che la cucina beninoise è la migliore dell'Africa occidentale (l'igname la fa da padrone). Parla più pudicamente di Thérèse, del battesimo di sua figlia: si dispiace perché Pinocchietto e io non potremo assistervi, la piccola sarà battezzata il 15 agosto e noi quel giorno saremo lontani da Ouidah, nel nord del paese, a visitare le Tata Somba, sorta di fortini-castello in argilla e paglia (Flavio mi pare abbia detto anche sterco, il che è verosimile, ma nessuna delle tre guide che ho consultato ne fa menzione. Potrebbe essere una forma di autocensura da pudore: agli occidentali l'idea non può che far ribrezzo). Il 14 dormiremo all'interno di una Tata Somba e, secondo Flavio, è un'esperienza bellissima. Poi ve la racconto.



(nelle immagini, dall'alto: la Maison de la Joie a Ouidah e una Tata Somba)
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