10 ottobre 2004 - Shanghai
L’aeroporto di Pudong ci accoglie con una bella zaffata di nebbia da smog alle 6.54 (il mio orario diceva 7.40, ora d’inverno?). Più che puntuali, insomma. Ma l’aria puzza da far schifo. Per il resto fa caldo. Il che significa che, a differenza di quanto immaginavo, qua non usa l’aria condizionata a manetta.
Visto che Carlito è qui per il Challenge Bibendum della Michelin, in compenso, possiamo salire sul pullman previsto per i partecipanti per raggiungere il nostro hotel; l’unico neo è che l’autobus in questione parte alle 8.30.
Per fortuna, il caffè dell’aeroporto non è male. Mi colpisce la raccolta differenziata (lo so, c’è anche a Malpensa, ma non proprio dappertutto). Per di più è diversa dalla nostra, almeno da quanto capisco dai disegnini: i rifiuti si dividono in organici, inorganici e 'pericolosi' o strani.
La prima sensazione, anche se siamo all’interno di un grosso autobus, è quella di essere un pigmeo in una selva di grattacieli: piccolo, piccolo, piccolo. Un po’ come accade a New York. (La sensazione, più tardi, si rivelerà diversa perché qui, per lo più, le strade sono larghe, perciò ci si sente meno schiacciati che in molti quartieri di NYC).
Come previsto (da me e un po’ meno dal Carlito) non si capisce una strafava. Il clacson è una specie di nuova divinità, il suo richiamo si fa udire quasi senza sosta. Le biciclette, che sono lungi dall’essere il principale mezzo di trasporto, sono comunque tantissime.
Percorriamo Yuyuan Lu, vicinissimo al nostro albergo, che è, secondo la ragazza-guida del pullman, un tipico “Shanghai boulevard”. E aggiunge: “non ne vedrete più molti; sono stati quasi tutti allargati”. Sarà per questo che, una volta sistemati e rifocillati, decidiamo di farcelo tutta a piedi, tanto più che porta verso il centro. Per strada ci fermiamo in un caffè di lusso dove ci danno una serie di talloncini favolosi che Carlito tiene per il rimborso spese: ricevuta, tagliando di controllo e simil-lotteria in una sola cedola.
Un’altra cosa che attira la mia attenzione è la passione dei cinesi per gli acquari. D’accordo che, come mi spiega Angelina, una mia amica corsa, che, casualmente, è in Cina nello stesso periodo in cui ci siamo noi e che costituisce la prima delle Shanghai Surprises, il pesce è un simbolo superpositivo, di prosperità e non so che altro, ma qui trovo tre acquari persino nel sottopassaggio della stazione metropolitana di Jing’an Temple, primo assaggio delle “mille luci di Shanghai”: due sono pieni di pesci tropicali da favola e il terzo è un’orgia di pesci rossi, rossissimi e tantissimi. Che sia una metafora?
La vera esperienza elettrica, però, è uscire dalla metropolitana a People’s Square. La piazza in sé è un enorme cantiere, un po’ come tutta quanta la città. Qui si lavora 24 ore al giorno, non esistono notti, né sabati né domeniche. Così a ogni ora possibile si vedono omini arrampicati su fragili impalcature in bambù, senza alcuna protezione: e non parlo dei caschi, questi signori non hanno neppure un’imbragatura e stanno in equilibrio su tronchetti sottilissimi.
In effetti la prima insegna in cui mi imbatto è un McDonald's, che, come i Kentucky Fried Chicken e gli Starbucks, è evidentemente sbarcato in forze a Shanghai (lo stesso vale a Pechino, scoprirò più tardi. In effetti in Cina ci sono già 600 McDo e da qui al 2008 (ora sarà fatto, immagino, n.d.v.) si prevede di aprirne altri 1000. All'orizzonte si profila una nuova razza di cinesi obesi. Il mondo ringrazia).
People’s Square non potrebbe essere più lontana dalla romana Piazza del Popolo, ma è una spianata circondata da costruzioni strabilianti. Come il teatro dell’Opera, scintillante nella sera, costruito secondo i dettami della geomanzia cinese, il feng shui, e che dunque, per esempio, non ha nessun ingresso sul lato ovest. Sulla piazza cantiere si affaccia pure il Park Hotel, costruito da tal Hudec nel 1933, per lungo tempo il grattacielo più alto di Shanghai (a proposito, nella pronuncia cinese la g non si sente quasi, sembra stare lì solo per addolcire l’aspirazione dell’acca. Misteri del pinyin, la trascrizione ufficiale del mandarino nell’alfabeto latino), ma oggi ampiamente sorpassato. E lo Shanghai Art Museum (1935), sul tetto del quale ceniamo, a prezzi assolutamente europei, per goderci la vista su questa strana spianata e farci stregare dai neon.
Il titolo l'ho rubato a David Grossman. Più precisamente a "Follia". Avrei potuto dire che era un omaggio o una citazione, ma cosa diavolo può fregargliene a David Grossman di essere citato da me? Così gliel'ho rubato ma lo ringrazio comunque: è perfetto per i miei deliri da viaggio (ma è meglio se li leggete dal basso in alto)
07 novembre 2008
21 maggio 2008
Ripresina di Miracolo cubano - 15 agosto 2006 - Holguin-Playa Guardalavaca - “Amigos”
Flori a parte, Holguin non presenta granché da segnalare. Per la cena scegliamo il ristorante più figo, il Salon 1720, e ci fermiamo a bere un aperitivo nel patio. Qui incontriamo due bizzarri pistoiesi, arrivati qualche giorno fa a Santiago de Cuba, che, dunque, fanno il giro opposto al nostro. Visto quanto il mio amico fotografo Marco prima e Flori poi (senza contare guide e libri) ci hanno magnificato Baracoa chiediamo anche a loro che ne pensano. Non sembrano entusiasti: “bella, sì sì”, ma è come se restasse sottinteso un “però” che non riceve voce. Ma come diavolo sarà Baracoa?
La cena, frattanto, non è niente male. Anche se i due veneti che siedono all’unico altro tavolo occupato nella nostra sala guastano leggermente l’ambiente. La tarritudine sembra essere il loro credo e quando, per concludere il pasto, chiedono alla cameriera “un amaro”, proprio così, in italiano, tranquilli al punto che mi stupisco non chiedano direttamente “un Averna”, fatico un po’ a non ridere. Un paio di rhum più tardi, comunque, se ne vanno. E, fortunatamente, non ci capiterà più di incrociarli.
Il mattino dopo Pinocchietto e io siamo pronti ad affrontare il cammino fino alla Playa (Guardalavaca). Un tragitto tranquillo. Persino troppo, visto che non incontriamo neppure un autostoppista. Finché, a turbare una quiete che rasenta la noia, si introduce nientemeno che un’autoambulanza. Il conduttore si sbraccia, strombazza, quasi urla e ci fa cenno di accostare. Confesso che mi spavento: che sarà mai successo? L’ambulanziere si ferma accanto a noi e scendiamo quasi simultaneamente dai rispettivi veicoli. Già va meglio: il ragazzone in questione ci viene incontro con un sorriso a piena dentatura, “Amigos”. Ci ha fermato perché vorrebbe invitarci a pranzo a casa sua, a Holguin. Decliniamo l’offerta e chiacchieriamo un po’. Poi ciascuno riparte verso la propria meta. “Ma se passate da Holguin, mi raccomando, venite da me”.
(nell'immagine: c'è che un Che ci sta sempre. Questa foto di foto è stata scattata in un negozio dell'Avana)
La cena, frattanto, non è niente male. Anche se i due veneti che siedono all’unico altro tavolo occupato nella nostra sala guastano leggermente l’ambiente. La tarritudine sembra essere il loro credo e quando, per concludere il pasto, chiedono alla cameriera “un amaro”, proprio così, in italiano, tranquilli al punto che mi stupisco non chiedano direttamente “un Averna”, fatico un po’ a non ridere. Un paio di rhum più tardi, comunque, se ne vanno. E, fortunatamente, non ci capiterà più di incrociarli.
Il mattino dopo Pinocchietto e io siamo pronti ad affrontare il cammino fino alla Playa (Guardalavaca). Un tragitto tranquillo. Persino troppo, visto che non incontriamo neppure un autostoppista. Finché, a turbare una quiete che rasenta la noia, si introduce nientemeno che un’autoambulanza. Il conduttore si sbraccia, strombazza, quasi urla e ci fa cenno di accostare. Confesso che mi spavento: che sarà mai successo? L’ambulanziere si ferma accanto a noi e scendiamo quasi simultaneamente dai rispettivi veicoli. Già va meglio: il ragazzone in questione ci viene incontro con un sorriso a piena dentatura, “Amigos”. Ci ha fermato perché vorrebbe invitarci a pranzo a casa sua, a Holguin. Decliniamo l’offerta e chiacchieriamo un po’. Poi ciascuno riparte verso la propria meta. “Ma se passate da Holguin, mi raccomando, venite da me”.
(nell'immagine: c'è che un Che ci sta sempre. Questa foto di foto è stata scattata in un negozio dell'Avana)
19 maggio 2008
8 agosto - ultimo giorno a Lhasa
Ultimo giorno, dunque ultima sera a Lhasa per noi e per molti altri. Non so più chi (Gigi e Ale, mi pare) lancia perciò l’idea di un’ultima cena tutti insieme e, non so più per quale misterioso motivo, tocca a me fare il tam tam. Tutti d’accordo, compreso il misterioso francese solitario, tal Christian, che non spiccica una parola di inglese. Con Gigi, Ale e i due spagnoli ipotizziamo che si potrebbe andare al New Mandala ma, mentre siamo tutti alla reception in attesa di partire alla volta del primo dei due templi della giornata - entrambi a parecchi chilometri da Lhasa, probabilmente in direzioni opposte - i piani mutano.
Non so come l’idea della cena di gruppo è giunta alle orecchie della nostra guida (ma chi lo vuole? la maggior parte di noi non lo sopporta proprio), la quale, of course, ha tutt’altro parere sul ristorante: ne propone uno con cena-spettacolo e, a parte Antonio e me, tutti sono entusiasti perciò il dado è tratto e il fenomeno prenota per il gruppo.
Il peggio ha da venire: il suo massimo lo raggiunge quando lascia a terra almeno cinque persone tra un monastero e l’altro. Tra viaggio e visita il primo si porta via l’intera mattinata, così, quando ci fermiamo per la pausa pranzo, di nuovo a Lhasa, il nostro ci concede 45 minuti. Carlito e io ci fiondiamo in quello che sembra un posto carino, dove lo chef appare assai deluso che desideriamo soltanto un sandwich o, comunque, la cosa più veloce che possa prepararci. Ci accordiamo su un hamburger e sottolineiamo che abbiamo fretta. Come non detto: 35 minuti dopo siamo sempre in attesa e cerchiamo di fargli accelerare i tempi. Le patatine non sono pronte, ci dice, e gli hamburger dovrebbero cuocere ancora un po’. Rinunciamo alle patatine che, comunque, come avevamo cercato di spiegargli, non volevamo, e chiediamo di avere gli hamburger all’istante. Arriviamo all’appuntamento al pelo. Il detestabile Cicerone è in preda a fibrillazione. Ci fa salire sul pullmino superrapidamente e fa chiudere le porte. Gli chiediamo se quelli che mancano hanno rinunciato alla visita e, naturalmente, dice di sì. Peccato che non sia vero: francesi e portoghese vedono il pullman sfilare sotto il loro naso, mentre la guida offre un passaggio alla coreana, al giapponese e alle due polacche (che avevamo perso all’arrivo a Lhasa, visto che avevano acquistato solo il viaggio), che passano casualmente di lì. La fretta è dovuta, oltre che alla maleducazione e al menefreghismo della guida, all’orario di inizio del dibattito-lezione che si svolge nel monastero. Quando arriviamo è comunque già in corso e, a dire il vero, non si capisce cosa ci saremmo persi non vedendolo dal principio. Cinque/dieci minuti può essere interessante/folkloristico. Poi? Il tibetano è per tutti noi una lingua sconosciuta e, a quanto ho potuto capire, nessuno dei presenti è un esperto di filosofia buddista. Ne segue che siamo assai più felici quando torniamo allo shopping.
E che il morale sale alle stelle al solo pensiero che we are coming back home, cioè a Katmandu e al nostro appartamento al New Orleans Café. O casa, dolce casa.
(foto dal tetto di un tempio nei pressi di Lhasa)
Non so come l’idea della cena di gruppo è giunta alle orecchie della nostra guida (ma chi lo vuole? la maggior parte di noi non lo sopporta proprio), la quale, of course, ha tutt’altro parere sul ristorante: ne propone uno con cena-spettacolo e, a parte Antonio e me, tutti sono entusiasti perciò il dado è tratto e il fenomeno prenota per il gruppo.
Il peggio ha da venire: il suo massimo lo raggiunge quando lascia a terra almeno cinque persone tra un monastero e l’altro. Tra viaggio e visita il primo si porta via l’intera mattinata, così, quando ci fermiamo per la pausa pranzo, di nuovo a Lhasa, il nostro ci concede 45 minuti. Carlito e io ci fiondiamo in quello che sembra un posto carino, dove lo chef appare assai deluso che desideriamo soltanto un sandwich o, comunque, la cosa più veloce che possa prepararci. Ci accordiamo su un hamburger e sottolineiamo che abbiamo fretta. Come non detto: 35 minuti dopo siamo sempre in attesa e cerchiamo di fargli accelerare i tempi. Le patatine non sono pronte, ci dice, e gli hamburger dovrebbero cuocere ancora un po’. Rinunciamo alle patatine che, comunque, come avevamo cercato di spiegargli, non volevamo, e chiediamo di avere gli hamburger all’istante. Arriviamo all’appuntamento al pelo. Il detestabile Cicerone è in preda a fibrillazione. Ci fa salire sul pullmino superrapidamente e fa chiudere le porte. Gli chiediamo se quelli che mancano hanno rinunciato alla visita e, naturalmente, dice di sì. Peccato che non sia vero: francesi e portoghese vedono il pullman sfilare sotto il loro naso, mentre la guida offre un passaggio alla coreana, al giapponese e alle due polacche (che avevamo perso all’arrivo a Lhasa, visto che avevano acquistato solo il viaggio), che passano casualmente di lì. La fretta è dovuta, oltre che alla maleducazione e al menefreghismo della guida, all’orario di inizio del dibattito-lezione che si svolge nel monastero. Quando arriviamo è comunque già in corso e, a dire il vero, non si capisce cosa ci saremmo persi non vedendolo dal principio. Cinque/dieci minuti può essere interessante/folkloristico. Poi? Il tibetano è per tutti noi una lingua sconosciuta e, a quanto ho potuto capire, nessuno dei presenti è un esperto di filosofia buddista. Ne segue che siamo assai più felici quando torniamo allo shopping.
E che il morale sale alle stelle al solo pensiero che we are coming back home, cioè a Katmandu e al nostro appartamento al New Orleans Café. O casa, dolce casa.
(foto dal tetto di un tempio nei pressi di Lhasa)
06 marzo 2008
7 agosto - Lhasa e, naturalmente, il Potala
“Day 6-7 - In Lhasa - Two full days sightseeing tour to Lhasa including Jokhang Temple, Barkhor Bazaar, Potala Palace, Drepung & Sera Monasteries. Overnight at hotel”.
Dopo aver ritrovato l’entusiasmo grazie al fatto che abbiamo, nuovamente, dei soldi in tasca, Antonio decreta che sono un genio, ma, subito dopo, comincia a lamentarsi perché è stanco e ha assolutamente bisogno di un drink. Tra me e me penso che se non ci fosse lui a fare i capricci probabilmente la parte della piantagrane la reciterei io, che, del resto, mi fermerei con vero piacere. Così raggiungiamo il New Mandala Restaurant che ha una terrazza sul tetto e becchiamo Gigi e Alessandra. Dividiamo una Lhasa (“la birra del tetto del mondo” come reca scritto la sua etichetta) con loro e li lasciamo andare mentre decidiamo di fermarci a mangiare. Mangiamo piuttosto bene e spendiamo sorprendentemente poco (che non abbiano conteggiato le consumazioni in terrazza? Quando si è messo a piovere abbiamo trasferito baracca e burattini all’interno, forse si sono persi nel trambusto dei trasferimenti), perciò eleggiamo momentaneamente il New Mandala Restaurant il nostro locale d’elezione.
Arriva poi il gran giorno del Potala. Di fianco ai magnifici rulli da preghiera dorati fuori dall’ingres- so cominciamo a renderci conto che visitare il Potala richiede qualche sacrificio (non per noi, turisti di gruppo con guida che, per quanto scarsa e poco simpatica, si occupa di tutti questi dettagli pratici). Per i turisti individuali è un vero calvario: se ne stanno ammucchiati dietro una griglia, in fila per conquistare un biglietto d’ingresso per l’indomani. Hanno davvero pochissimo spazio e assomigliano, in tutto e per tutto, a dei prigionieri.
L’ingresso non è rapidissimo neppure per noi, ma in una ventina di minuti riusciamo a penetrare in questa Versailles tibetana e ad avere accesso alla salita che conduce fino al cuore della reggia. Finora, forse abbagliati dalla retorica che in Occidente circonda la figura del Dalai Lama (che, tra l’altro, ha di recente dichiarato di essere marxista), avevamo sempre attribuito al Potala un’aura mistica, ma, già mentre saliamo e al sesto giorno di Tibet, siamo ormai consci che questo non è altro che un palazzo reale. La confusione viene probabilmente dal fatto che i Dalai Lama sono al tempo detentori del potere temporale e di quello spirituale, ma è evidente visitando il Potala che, se mai vi ha abitato, ora Buddha non abita più qui. A dispetto della quantità di templi e di rappresentazioni del Buddha (c’è una stanza in cui sono raccolte migliaia di statuette che lo ritraggono) e di sant’uomini, neppure al Potala si respira la benché minima dimensione metafisica. Resta che è un gran bel posto. Malgrado il fatto che la nostra guida non ci spieghi quasi nulla di interessante e si riveli meno esauriente della Lonely Planet (che non è il massimo sulle informazioni di tipo culturale, in genere), anche se leggermente meglio dell’insulsa Guide du Routard che mi ostino a trascinarmi dietro.
Usciti dal Potala, con i due spagnoli, andiamo invano alla ricerca delle “rock carvings” sul Chagpo Ri. Riusciamo solo a fare un lunghissimo giro attorno al Potala, a farci respingere con decisione da un paio di poliziotti quando crediamo di aver raggiunto il sentiero per salire sulla collina, evidentemente off limits, e a sprecare gran parte del tempo che ci rimane per pranzare prima del successivo appuntamento con il gruppo per la visita al Jokhang Temple, il tempio più importante e più visitato dell’intero Tibet. Racchiude infatti la statua di un veneratissimo Buddha: pare che basti un pellegrinaggio per vederlo una volta nella vita per garantirsi nella prossima una reincarnazione a un livello superiore.
Per il pranzo ci separiamo dagli spagnoli, Carlito e io siamo decisi a provare i noodles che preparano e servono ai banchetti del Barkhor Market (Barkhor Square è la piazza su cui si affaccia il Jokhang Temple, nonché su cui si apre la terrazza del New Mandala Restaurant), versione lhasiana dei ristoranti popolari, da strada, diffusi in tutto l’Estremo Oriente, che non tentano affatto Esther e Antonio. Come al solito il nostro senso dell’orientamento (in effetti, quello di Carlito e mio sono autentici sensi di disorientamento, siamo disorientati a Parigi, figurati a Lhasa) ci tradisce e vaghiamo a vuoto senza riuscire a ritrovare i banchetti in questione. Ripieghiamo sul New Mandala dove la consueta lentezza tibetana rischierebbe di esasperarci se non decidessimo di rinunciare a parte di quanto ordinato a metà percorso. Ci presentiamo così puntualissimi all’appuntamento e facciamo il nostro ingresso al Jokhang Temple assieme a tutti gli altri.
Il tempio, attorno al quale girano, pressoché incessante- mente, una massa di pellegrini, il cui numero aumenta vistosamente all’ora del tramonto, è magnifico. Il biglietto d’ingresso è addirittura un minuscolo cd-rom, il che la dice lunga su quanto il luogo sia turistico, ma, al contrario della maggior parte dei siti visitati finora, ha conservato una certa spiritualità. Senza dubbio la presenza dei pellegrini contribuisce molto all’atmosfera. La visita è abbastanza rapida, anche perché ci diamo nuovamente appuntamento qui la sera per assistere a una cerimonia che si rivelerà, ai miei occhi, un’autentica sola, dunque abbiamo ancora qualche ora libera davanti a noi. Restiamo un po’ nel tempio, nel tentativo di impregnarci di qualche briciola di sacralità. Poi ci dedichiamo al profanissimo rito dello shopping.
(nelle foto: spezie e frutta secca a Barkhor Square; il Potala; rulli da preghiera all'ingresso del Potala)
Dopo aver ritrovato l’entusiasmo grazie al fatto che abbiamo, nuovamente, dei soldi in tasca, Antonio decreta che sono un genio, ma, subito dopo, comincia a lamentarsi perché è stanco e ha assolutamente bisogno di un drink. Tra me e me penso che se non ci fosse lui a fare i capricci probabilmente la parte della piantagrane la reciterei io, che, del resto, mi fermerei con vero piacere. Così raggiungiamo il New Mandala Restaurant che ha una terrazza sul tetto e becchiamo Gigi e Alessandra. Dividiamo una Lhasa (“la birra del tetto del mondo” come reca scritto la sua etichetta) con loro e li lasciamo andare mentre decidiamo di fermarci a mangiare. Mangiamo piuttosto bene e spendiamo sorprendentemente poco (che non abbiano conteggiato le consumazioni in terrazza? Quando si è messo a piovere abbiamo trasferito baracca e burattini all’interno, forse si sono persi nel trambusto dei trasferimenti), perciò eleggiamo momentaneamente il New Mandala Restaurant il nostro locale d’elezione.
Arriva poi il gran giorno del Potala. Di fianco ai magnifici rulli da preghiera dorati fuori dall’ingres- so cominciamo a renderci conto che visitare il Potala richiede qualche sacrificio (non per noi, turisti di gruppo con guida che, per quanto scarsa e poco simpatica, si occupa di tutti questi dettagli pratici). Per i turisti individuali è un vero calvario: se ne stanno ammucchiati dietro una griglia, in fila per conquistare un biglietto d’ingresso per l’indomani. Hanno davvero pochissimo spazio e assomigliano, in tutto e per tutto, a dei prigionieri.
L’ingresso non è rapidissimo neppure per noi, ma in una ventina di minuti riusciamo a penetrare in questa Versailles tibetana e ad avere accesso alla salita che conduce fino al cuore della reggia. Finora, forse abbagliati dalla retorica che in Occidente circonda la figura del Dalai Lama (che, tra l’altro, ha di recente dichiarato di essere marxista), avevamo sempre attribuito al Potala un’aura mistica, ma, già mentre saliamo e al sesto giorno di Tibet, siamo ormai consci che questo non è altro che un palazzo reale. La confusione viene probabilmente dal fatto che i Dalai Lama sono al tempo detentori del potere temporale e di quello spirituale, ma è evidente visitando il Potala che, se mai vi ha abitato, ora Buddha non abita più qui. A dispetto della quantità di templi e di rappresentazioni del Buddha (c’è una stanza in cui sono raccolte migliaia di statuette che lo ritraggono) e di sant’uomini, neppure al Potala si respira la benché minima dimensione metafisica. Resta che è un gran bel posto. Malgrado il fatto che la nostra guida non ci spieghi quasi nulla di interessante e si riveli meno esauriente della Lonely Planet (che non è il massimo sulle informazioni di tipo culturale, in genere), anche se leggermente meglio dell’insulsa Guide du Routard che mi ostino a trascinarmi dietro.
Usciti dal Potala, con i due spagnoli, andiamo invano alla ricerca delle “rock carvings” sul Chagpo Ri. Riusciamo solo a fare un lunghissimo giro attorno al Potala, a farci respingere con decisione da un paio di poliziotti quando crediamo di aver raggiunto il sentiero per salire sulla collina, evidentemente off limits, e a sprecare gran parte del tempo che ci rimane per pranzare prima del successivo appuntamento con il gruppo per la visita al Jokhang Temple, il tempio più importante e più visitato dell’intero Tibet. Racchiude infatti la statua di un veneratissimo Buddha: pare che basti un pellegrinaggio per vederlo una volta nella vita per garantirsi nella prossima una reincarnazione a un livello superiore.
Per il pranzo ci separiamo dagli spagnoli, Carlito e io siamo decisi a provare i noodles che preparano e servono ai banchetti del Barkhor Market (Barkhor Square è la piazza su cui si affaccia il Jokhang Temple, nonché su cui si apre la terrazza del New Mandala Restaurant), versione lhasiana dei ristoranti popolari, da strada, diffusi in tutto l’Estremo Oriente, che non tentano affatto Esther e Antonio. Come al solito il nostro senso dell’orientamento (in effetti, quello di Carlito e mio sono autentici sensi di disorientamento, siamo disorientati a Parigi, figurati a Lhasa) ci tradisce e vaghiamo a vuoto senza riuscire a ritrovare i banchetti in questione. Ripieghiamo sul New Mandala dove la consueta lentezza tibetana rischierebbe di esasperarci se non decidessimo di rinunciare a parte di quanto ordinato a metà percorso. Ci presentiamo così puntualissimi all’appuntamento e facciamo il nostro ingresso al Jokhang Temple assieme a tutti gli altri.
Il tempio, attorno al quale girano, pressoché incessante- mente, una massa di pellegrini, il cui numero aumenta vistosamente all’ora del tramonto, è magnifico. Il biglietto d’ingresso è addirittura un minuscolo cd-rom, il che la dice lunga su quanto il luogo sia turistico, ma, al contrario della maggior parte dei siti visitati finora, ha conservato una certa spiritualità. Senza dubbio la presenza dei pellegrini contribuisce molto all’atmosfera. La visita è abbastanza rapida, anche perché ci diamo nuovamente appuntamento qui la sera per assistere a una cerimonia che si rivelerà, ai miei occhi, un’autentica sola, dunque abbiamo ancora qualche ora libera davanti a noi. Restiamo un po’ nel tempio, nel tentativo di impregnarci di qualche briciola di sacralità. Poi ci dedichiamo al profanissimo rito dello shopping.
(nelle foto: spezie e frutta secca a Barkhor Square; il Potala; rulli da preghiera all'ingresso del Potala)
20 febbraio 2008
6 agosto - Gyantse-Lhasa - Cinesi
“Day 5 - Gyantse- Lhasa (3650 m): 261 km. Ovvero: si galoppa. Full day picturesque drive crossing over Karola (5010 m), Kambala (4794 m), colourful Yamdrok Lake and the Tibetan lifelineriver Brahma Putra (Yarlung Tsangpo). Overnight at hotel”.
L’albergo era leggermente peggio di com’era sembrato a prima vista (la doccia funzionava davvero male e gli asciugamani erano zozzi ma, per fortuna, avevamo i nostri).
Il viaggio verso Lhasa, invece, non è drammatico: un po’ di sterrato, più o meno fino alla pausa pranzo, ma senza grandi buche, né frane, né salti. Nella cittadina dove ci fermiamo a pranzare le donne vendono collane di formaggio di nak. Ale ne compra un filo e ci fa assaggiare un paio di bocconi. Non che valga granché, una vaghiiiiiiiiissima somiglianza con il pecorino, ma quasi nessun sapore; in compenso, si fa per dire, con nostro sommo stupore il formaggio in questione si rivela dolce.
Dopo questa discutibile esperienza gastronomica, la guida ci indica un ristorante che non mi ispira né punto né poco. Carlito e io ci incamminiamo perciò lungo quella che sembra l’unica strada del luogo e scoviamo un posto che ci sembra meglio. Il tavolo più grande è occupato da una comitiva di turisti cinesi accompagnati da una guida che parla un po’ di inglese. Ci assicurano che il locale è pulito e ci sediamo per pranzare. Come sempre ci servono d’ufficio il tè, mentre noi ordiniamo carne di yak e patatine fritte. Mal ce ne incoglie perché sono entrambi immangiabili: la carne secca, dopo la scena delle immonde bestie intere che ho visto appese a seccare al sole al mercato di Gyantse, già non mi va molto (e un po’ la faccio andare di traverso anche a Carlito che, pure, di sanguinolento animale appeso con corteo di mosche non ne ha visto manco uno), quanto alle patate, tagliate a fiammifero, sono crude. Ma non importa, i cinesi sono molto curiosi e ci fanno un sacco di domande. Così finiamo per trovarci in una situazione ribaltata rispetto a “Lost in translation”: noi diamo risposte semplici, per lo più banali, e quasi sempre piuttosto brevi (anche perché l’inglese della guida è piuttosto basic), ma quando la ragazza traduce sembra che faccia autentici discorsi, invariabilmente molto più lunghi delle nostre risposte, e scatena gridolini eccitati e grandi cenni di assenso nel suo gruppo/pubblico. Misteri della tradu/di/zione.
Fuori dal paesello la strada migliora nettamente: i cinesi, che venivano da Lhasa e proseguivano verso Shigatse, per poi tornare nella capitale (molto più furbi di noi, decisamente) hanno capito tutto. Che i gridolini fossero di stupore per la nostra imbecillità?
Arriviamo a Lhasa attorno alle cinque del pomeriggio. Tanto per cambiare non siamo granché soddisfatti della posizione dell’albergo scelto da quel cretino della nostra guida e tentiamo, con gli americani David e Melissa, Antonio ed Esther, di dare il via a una ribellione, ma l’entusiasmo si smorza quando David, che ha chiamato l’hotel da noi scelto sulla base della solita Lonely Planet, il Mandala, ci informa che non c’è posto. Per una volta, però, ci sbagliamo: il Flora ha camere decisamente carine, a tre letti, niente fetida moquette sul pavimento, un bel getto della doccia, fin troppa acqua calda e lenzuola e asciugamani sono puliti. È un po’ più fuori mano del Mandala, ma i due sono separati da cinque minuti di strada, più o meno. E poi si trova nel quartiere musulmano di Lhasa che probabilmente ci sarebbe sfuggito se non avessimo soggiornato al Flora. Ultima nota? La colazione è ottima, persino meglio del mio adorato New Orleans Café di Katmandu.
Una volta convinti che l’albergo va bene, usciamo con i due spagnoli alla ricerca della Bank of China, l’unica dove cambino valuta straniera e dove, secondo la receptionist, si possa ritirare denaro con la Visa. Carlito e io non abbiamo un solo yuan, mentre all’altra coppia ne rimangono appena 40. Pensavamo di prendere un taxi ma Antonio, sicuro di sé, ci fa strada verso il Potala. Attraversiamo il quartiere musulmano, raggiungiamo il mercato, prendiamo una larga via cinese e moderna e arriviamo in vista del Potala, ma circa 500 metri a sinistra della piccola Tien An Men, come abbiamo ribattezzato l’immensa piazza che si stende davanti a quella che un tempo era la dimora dei Dalai Lama. Non c’è traccia di nessuna Bank of China. Proviamo a entrare a chiedere in un’altra banca, ma, accidenti a noi, che dovremmo ben saperlo, non capiscono né il nostro inglese né i nostri gesti. Esther ricorda di aver visto la famigerata Bank of China nei pressi del Potala quando siamo passati di qui a bordo delle jeep, ma ritrovare il punto preciso è ben altro affare. Carlito decide, chissà come, che la banca si trova dall’altro lato della piccola Tien An Men (500 m per lato, secondo la Lonely) e partiamo verso l’ignoto. Attraversata la piazza siamo esausti e sempre a mani desolatamente vuote. Chiediamo indicazioni a destra e a manca e riceviamo le risposte più disparate. L’unica certezza è che qua non c’è traccia della Bank of China.
Esther e io decidiamo di prendere in mano la situazione e di riattraversare la piazza in direzione di una banca qualsiasi che abbia uno sportello con marchio Visa. Per averci provato stamane sappiamo già che è probabilmente inutile perché, come è prevedibile, qui i Bancomat parlano soltanto in cinese ed è impossibile per noi dare loro istruzioni. Ma magari chissà. Insomma, personalmente sono colma di fiducia, mi metto in fila e arrivo pure a protestare con un paio di tizi (e tizie) che cercano di passarmi davanti e che, di fronte al mio gesticolare, si dissolvono. Il lampo di genio arriva quando osservo meglio i due cinesi davanti a me: sono giovani, trendy e decisamente turisti. C’è qualche chance che capiscano un po’ d’inglese perciò mi faccio avanti e chiedo loro di aiutarmi a prelevare. Strike. Mi guidano nelle risposte da dare alla macchina e si girano educatamente quando compongo il mio Pin. Vorrei offrire loro qualcosa ma declinano l’invito. Autentici angeli (come sempre in coppia visto che si tratta di proteggere la turista smarrita; uno, poverino, non basterebbe).
(nella foto: il lago Yamdrok, a oltre 4000 metri d'altezza sulla strada verso Lhasa)
L’albergo era leggermente peggio di com’era sembrato a prima vista (la doccia funzionava davvero male e gli asciugamani erano zozzi ma, per fortuna, avevamo i nostri).
Il viaggio verso Lhasa, invece, non è drammatico: un po’ di sterrato, più o meno fino alla pausa pranzo, ma senza grandi buche, né frane, né salti. Nella cittadina dove ci fermiamo a pranzare le donne vendono collane di formaggio di nak. Ale ne compra un filo e ci fa assaggiare un paio di bocconi. Non che valga granché, una vaghiiiiiiiiissima somiglianza con il pecorino, ma quasi nessun sapore; in compenso, si fa per dire, con nostro sommo stupore il formaggio in questione si rivela dolce.
Dopo questa discutibile esperienza gastronomica, la guida ci indica un ristorante che non mi ispira né punto né poco. Carlito e io ci incamminiamo perciò lungo quella che sembra l’unica strada del luogo e scoviamo un posto che ci sembra meglio. Il tavolo più grande è occupato da una comitiva di turisti cinesi accompagnati da una guida che parla un po’ di inglese. Ci assicurano che il locale è pulito e ci sediamo per pranzare. Come sempre ci servono d’ufficio il tè, mentre noi ordiniamo carne di yak e patatine fritte. Mal ce ne incoglie perché sono entrambi immangiabili: la carne secca, dopo la scena delle immonde bestie intere che ho visto appese a seccare al sole al mercato di Gyantse, già non mi va molto (e un po’ la faccio andare di traverso anche a Carlito che, pure, di sanguinolento animale appeso con corteo di mosche non ne ha visto manco uno), quanto alle patate, tagliate a fiammifero, sono crude. Ma non importa, i cinesi sono molto curiosi e ci fanno un sacco di domande. Così finiamo per trovarci in una situazione ribaltata rispetto a “Lost in translation”: noi diamo risposte semplici, per lo più banali, e quasi sempre piuttosto brevi (anche perché l’inglese della guida è piuttosto basic), ma quando la ragazza traduce sembra che faccia autentici discorsi, invariabilmente molto più lunghi delle nostre risposte, e scatena gridolini eccitati e grandi cenni di assenso nel suo gruppo/pubblico. Misteri della tradu/di/zione.
Fuori dal paesello la strada migliora nettamente: i cinesi, che venivano da Lhasa e proseguivano verso Shigatse, per poi tornare nella capitale (molto più furbi di noi, decisamente) hanno capito tutto. Che i gridolini fossero di stupore per la nostra imbecillità?
Arriviamo a Lhasa attorno alle cinque del pomeriggio. Tanto per cambiare non siamo granché soddisfatti della posizione dell’albergo scelto da quel cretino della nostra guida e tentiamo, con gli americani David e Melissa, Antonio ed Esther, di dare il via a una ribellione, ma l’entusiasmo si smorza quando David, che ha chiamato l’hotel da noi scelto sulla base della solita Lonely Planet, il Mandala, ci informa che non c’è posto. Per una volta, però, ci sbagliamo: il Flora ha camere decisamente carine, a tre letti, niente fetida moquette sul pavimento, un bel getto della doccia, fin troppa acqua calda e lenzuola e asciugamani sono puliti. È un po’ più fuori mano del Mandala, ma i due sono separati da cinque minuti di strada, più o meno. E poi si trova nel quartiere musulmano di Lhasa che probabilmente ci sarebbe sfuggito se non avessimo soggiornato al Flora. Ultima nota? La colazione è ottima, persino meglio del mio adorato New Orleans Café di Katmandu.
Una volta convinti che l’albergo va bene, usciamo con i due spagnoli alla ricerca della Bank of China, l’unica dove cambino valuta straniera e dove, secondo la receptionist, si possa ritirare denaro con la Visa. Carlito e io non abbiamo un solo yuan, mentre all’altra coppia ne rimangono appena 40. Pensavamo di prendere un taxi ma Antonio, sicuro di sé, ci fa strada verso il Potala. Attraversiamo il quartiere musulmano, raggiungiamo il mercato, prendiamo una larga via cinese e moderna e arriviamo in vista del Potala, ma circa 500 metri a sinistra della piccola Tien An Men, come abbiamo ribattezzato l’immensa piazza che si stende davanti a quella che un tempo era la dimora dei Dalai Lama. Non c’è traccia di nessuna Bank of China. Proviamo a entrare a chiedere in un’altra banca, ma, accidenti a noi, che dovremmo ben saperlo, non capiscono né il nostro inglese né i nostri gesti. Esther ricorda di aver visto la famigerata Bank of China nei pressi del Potala quando siamo passati di qui a bordo delle jeep, ma ritrovare il punto preciso è ben altro affare. Carlito decide, chissà come, che la banca si trova dall’altro lato della piccola Tien An Men (500 m per lato, secondo la Lonely) e partiamo verso l’ignoto. Attraversata la piazza siamo esausti e sempre a mani desolatamente vuote. Chiediamo indicazioni a destra e a manca e riceviamo le risposte più disparate. L’unica certezza è che qua non c’è traccia della Bank of China.
Esther e io decidiamo di prendere in mano la situazione e di riattraversare la piazza in direzione di una banca qualsiasi che abbia uno sportello con marchio Visa. Per averci provato stamane sappiamo già che è probabilmente inutile perché, come è prevedibile, qui i Bancomat parlano soltanto in cinese ed è impossibile per noi dare loro istruzioni. Ma magari chissà. Insomma, personalmente sono colma di fiducia, mi metto in fila e arrivo pure a protestare con un paio di tizi (e tizie) che cercano di passarmi davanti e che, di fronte al mio gesticolare, si dissolvono. Il lampo di genio arriva quando osservo meglio i due cinesi davanti a me: sono giovani, trendy e decisamente turisti. C’è qualche chance che capiscano un po’ d’inglese perciò mi faccio avanti e chiedo loro di aiutarmi a prelevare. Strike. Mi guidano nelle risposte da dare alla macchina e si girano educatamente quando compongo il mio Pin. Vorrei offrire loro qualcosa ma declinano l’invito. Autentici angeli (come sempre in coppia visto che si tratta di proteggere la turista smarrita; uno, poverino, non basterebbe).
(nella foto: il lago Yamdrok, a oltre 4000 metri d'altezza sulla strada verso Lhasa)
30 gennaio 2008
5 agosto - Shigatse e Gyantse - Dalle stalle alle stelle
“Day 4 - Xigatse- Gyantse (3950 m): 90 km - Morning sightseeing to the Panchen Lama’s Tashil- humpu Monastery. Drive to Gyantse and visit to the Kumbum Stupa & Phalkor Monastery. Overnight at hotel”.
Ho parlato troppo presto n° 2. La scorsa notte, attorno alle due, vengo svegliata da Carlito, che mi interpella, o almeno così credo, dicendo ad alta voce qualcosa tipo: “Mah, cosa stai facendo?”. Nelle nebbie del sonno rispondo una frase simile a “Niente, non ho neppure parlato”. Intanto il mio amore accende una torcia, poi la luce della camera, si alza, raccoglie da terra le carte plastificate che sono altrettanti buoni per la colazione e scruta perplesso la scrivania. “Un topo?” domando io, improvvisamente sveglissima. “Eh. Penso”. Wow, che fortuna. Avevamo lasciato in bella vista un pacchetto di biscotti e un po’ di cioccolato, sicuro come l’oro che la nostra imprudenza ha solleticato l’attenzione e l’appetito del topo. Carlito guarda un po’ in giro, io sono perplessa. Alla fine decidiamo di spegnere nuovamente la luce e provare a dormire di nuovo.
Qualche istante dopo i rumori sulla scrivania si riproducono e Carlito punta la torcia in quella direzione e illumina il topolino in questione. Lo vedo guizzare rapidissimo e Carlito sostiene che si sia infilato sotto il mio letto con un balzo (ah, già, ecco un altro neo: letti separati). Riaccendiamo la luce e mi risiedo sul letto, Carlito ricomincia la sua perlustrazione e scopre un biscotto per terra. Chiude tutto in un sacchetto e lo butta in bagno. Io, che sono esausta (le due notti precedenti ho dormito poco e male e, come ho detto, il viaggio sino a Shigatse è stato molto faticoso) e non tanto abituata ai topi, scoppio a piangere come una mentecatta, seduta sul letto. Vorrei smaterializzarmi di botto e ritrovarmi nel mio letto (che, peraltro, in questo momento, fuso a parte, dovrebbe essere occupato dal mio amico Michele cui abbiamo prestato l’appartamento) o accanto alla mia mamma.
Quando riesco a calmarmi valuto la situazione più freddamente: non ci sono mille soluzioni in effetti. Possiamo lanciarci nella caccia alla bestia o decidere di provare a dormire. Con due opzioni: luce accesa o spenta. Finiamo per tentare di ritrovare il sonno a luce accesa, in modo che il topo se ne rimanga nel suo rifugio. Non si dorme un granché bene ma un pochino si dorme.
L’indomani informo la guida dell’indesiderata presenza. Sembra mortificato e mi assicura che l’albergo di stasera sarà migliore. Poi comincia la visita al superbo monastero di Tashihunpo: un vero villaggio, con un mucchio di cappelle, terrazze, giardini, Buddha (tra cui uno gigantesco), in cui, dopo una breve introduzione della guida, ci viene concesso di perderci qualche ora. Il posto è molto bello ma la spiritualità non abita più qui: i monaci, tra l’altro stipendiati dal governo cinese, fanno ormai commercio di tutto. Vendono preghiere, amuleti (carini, qui a 25 yuan, che nel monastero di Gyantse vedremo a 10 e a Lhasa a 5) e si fanno pagare per fare fotografie all’interno delle cappelle. Perdo Carlito quasi subito e trascorro l’intera mattinata con Claudia Marina, una ragazza portoghese che è un portento. Dopo aver cercato, un po’ vanamente, di nutrire lo spirito, andiamo al mercato, dove mi impadronisco di un Kamasutra in osso di yak che si compra anche Claudia (anzi, a dire il vero è lei a condurre la trattativa, io quando c’è da contrattare tendo a farmi da parte. Tanto sono una frana).
All’hotel senza topo ritrovo il mio Carlito che, con Gigi e Alessandra, si è perso il mercato, ma in compenso al monastero ha scovato una corte in cui si svolgeva un dibattito filosofico, durante il quale i monaci argomentano l’uno contro l’altro sottolineando le proprie tesi con battiti di mani, gesti dell’ombrello e similia.
Si riparte. Sosta d’alta montagna in un luogo in cui macinano l’orzo tostato per trasformarlo in farina, la tsampa, che sembra essere, a giudicare dall’entusiasmo della nostra guida e degli autisti, una sorta di fiero cibo nazionale tibetano.
Dopo una pausa pranzo un po’ tardiva, raggiungiamo Gyantze, ai miei occhi la perla del Tibet, e il sito che molti tra noi hanno preferito. Al Phalkor Monastery e al Kumbum Stupa troviamo infine una sottile aura mistica, commercio meno evidente, qualche etto di spiritualità. Cena memorabile da Zhang Yuan (pensierino lasciato per lui sul “quaderno delle recensioni” del mitico: “Applauso a scena aperta per l’ottima cena. Ho ancora in bocca il sapore delle banane caramellate. Il tre stelle Michelin del Tibet. Zhuang Yuan, grazie di esistere”). In effetti, una vera consolazione dopo i tormentini di questo viaggio. E per il sweet and sour chicken hip hip hurrah, hip hip hurrah, hip hip hurrah hurrah hurrah.
(nella foto: dibattito filosofico nel monastero di Tashihunpo a Shigatse)
P.S. regalami qualche secondo qui
Ho parlato troppo presto n° 2. La scorsa notte, attorno alle due, vengo svegliata da Carlito, che mi interpella, o almeno così credo, dicendo ad alta voce qualcosa tipo: “Mah, cosa stai facendo?”. Nelle nebbie del sonno rispondo una frase simile a “Niente, non ho neppure parlato”. Intanto il mio amore accende una torcia, poi la luce della camera, si alza, raccoglie da terra le carte plastificate che sono altrettanti buoni per la colazione e scruta perplesso la scrivania. “Un topo?” domando io, improvvisamente sveglissima. “Eh. Penso”. Wow, che fortuna. Avevamo lasciato in bella vista un pacchetto di biscotti e un po’ di cioccolato, sicuro come l’oro che la nostra imprudenza ha solleticato l’attenzione e l’appetito del topo. Carlito guarda un po’ in giro, io sono perplessa. Alla fine decidiamo di spegnere nuovamente la luce e provare a dormire di nuovo.
Qualche istante dopo i rumori sulla scrivania si riproducono e Carlito punta la torcia in quella direzione e illumina il topolino in questione. Lo vedo guizzare rapidissimo e Carlito sostiene che si sia infilato sotto il mio letto con un balzo (ah, già, ecco un altro neo: letti separati). Riaccendiamo la luce e mi risiedo sul letto, Carlito ricomincia la sua perlustrazione e scopre un biscotto per terra. Chiude tutto in un sacchetto e lo butta in bagno. Io, che sono esausta (le due notti precedenti ho dormito poco e male e, come ho detto, il viaggio sino a Shigatse è stato molto faticoso) e non tanto abituata ai topi, scoppio a piangere come una mentecatta, seduta sul letto. Vorrei smaterializzarmi di botto e ritrovarmi nel mio letto (che, peraltro, in questo momento, fuso a parte, dovrebbe essere occupato dal mio amico Michele cui abbiamo prestato l’appartamento) o accanto alla mia mamma.
Quando riesco a calmarmi valuto la situazione più freddamente: non ci sono mille soluzioni in effetti. Possiamo lanciarci nella caccia alla bestia o decidere di provare a dormire. Con due opzioni: luce accesa o spenta. Finiamo per tentare di ritrovare il sonno a luce accesa, in modo che il topo se ne rimanga nel suo rifugio. Non si dorme un granché bene ma un pochino si dorme.
L’indomani informo la guida dell’indesiderata presenza. Sembra mortificato e mi assicura che l’albergo di stasera sarà migliore. Poi comincia la visita al superbo monastero di Tashihunpo: un vero villaggio, con un mucchio di cappelle, terrazze, giardini, Buddha (tra cui uno gigantesco), in cui, dopo una breve introduzione della guida, ci viene concesso di perderci qualche ora. Il posto è molto bello ma la spiritualità non abita più qui: i monaci, tra l’altro stipendiati dal governo cinese, fanno ormai commercio di tutto. Vendono preghiere, amuleti (carini, qui a 25 yuan, che nel monastero di Gyantse vedremo a 10 e a Lhasa a 5) e si fanno pagare per fare fotografie all’interno delle cappelle. Perdo Carlito quasi subito e trascorro l’intera mattinata con Claudia Marina, una ragazza portoghese che è un portento. Dopo aver cercato, un po’ vanamente, di nutrire lo spirito, andiamo al mercato, dove mi impadronisco di un Kamasutra in osso di yak che si compra anche Claudia (anzi, a dire il vero è lei a condurre la trattativa, io quando c’è da contrattare tendo a farmi da parte. Tanto sono una frana).
All’hotel senza topo ritrovo il mio Carlito che, con Gigi e Alessandra, si è perso il mercato, ma in compenso al monastero ha scovato una corte in cui si svolgeva un dibattito filosofico, durante il quale i monaci argomentano l’uno contro l’altro sottolineando le proprie tesi con battiti di mani, gesti dell’ombrello e similia.
Si riparte. Sosta d’alta montagna in un luogo in cui macinano l’orzo tostato per trasformarlo in farina, la tsampa, che sembra essere, a giudicare dall’entusiasmo della nostra guida e degli autisti, una sorta di fiero cibo nazionale tibetano.
Dopo una pausa pranzo un po’ tardiva, raggiungiamo Gyantze, ai miei occhi la perla del Tibet, e il sito che molti tra noi hanno preferito. Al Phalkor Monastery e al Kumbum Stupa troviamo infine una sottile aura mistica, commercio meno evidente, qualche etto di spiritualità. Cena memorabile da Zhang Yuan (pensierino lasciato per lui sul “quaderno delle recensioni” del mitico: “Applauso a scena aperta per l’ottima cena. Ho ancora in bocca il sapore delle banane caramellate. Il tre stelle Michelin del Tibet. Zhuang Yuan, grazie di esistere”). In effetti, una vera consolazione dopo i tormentini di questo viaggio. E per il sweet and sour chicken hip hip hurrah, hip hip hurrah, hip hip hurrah hurrah hurrah.
(nella foto: dibattito filosofico nel monastero di Tashihunpo a Shigatse)
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24 gennaio 2008
4 agosto - Tingri-Shigatse - Com'è bella la città
“Day 3 - Tingri/ Lhatse- Xigatse (3900 m): 224 km - Programma massimo. Ecco il giorno del nostro scontento. La notte del nostro scontento, invece, è quella appena trascorsa. O no? Continue scenic drive crossing over Gyatchu La (5220 m), the highest pass en route to Lhasa via Lhatse from where a road to Mt. Kailash bifurcates to the west. Overnight at hotel”.
Qui comincia l’avventura. La notte è, bene o male, anzi più male che bene, trascorsa. Geneviève è stata malissimo: brividi, probabilmente febbre, e vomito. Carlito sta appena un po’ meglio ma per ora sembra resistere. Frédéric e io non abbiamo niente di che ma abbiamo dormito a intermittenza. Di fatto molti hanno sofferto, come minimo, un mal di testa bestiale.
Il programma prevede colazione alle 6.30 e partenza alle 7, visto che abbiamo un mucchio di strada davanti a noi. Purtroppo, però, noi quattro abbiamo cominciato a dormire sul serio soltanto al mattino e alle 7 passiamo bruscamente dal sonno alla veglia. Poco tempo per una toilette davvero sommaria e per mettere via i sacchi a pelo e i pochi altri oggetti che abbiamo tirato fuori dai bagagli. Poi si torna a bordo.
La guida, oggi, vorrebbe sistemare due persone davanti, all’occorrenza la coreana e me, ma l’autista, molto più saggio del nostro accompagnatore, si rifiuta. Il risultato è che la guida finisce per spostare la coreana su un’altra jeep (quella di Geneviève, Frédéric, Michela e Bruno). Così, d’ora in poi, noi quattro italiani saremo gli unici ad avere il privilegio di viaggiare in tre sul sedile posteriore e in due, autista compreso, su quello anteriore. Gigi dice che probabilmente abbiamo avuto questa concessione perché siamo gli unici che hanno protestato. In effetti, scopriremo poi, la supposta guida funziona proprio così.
Partiamo a stomaco vuoto per fare sosta quasi immediatamente di fronte a una montagna, quasi completamente nascosta dalle nuvole, che l’imbecille che ci accompagna pretende sia l’Everest. In effetti, ieri, all’ultimo stop, ci aveva assicurato che al mattino avremmo potuto contemplare sua altezza addirittura “from your window”. Peccato che tutti noi avessimo soltanto una modesta finestra sul cortile.
La fermata, opportuna così così, ci avvicina ulteriormente ad Antonio, un andaluso di Granada, che è una furia di simpatia. I primi contatti sono avvenuti ieri sera quando mi si è avvicinato nel cortile per informarmi che “la vera avventura, qui, è andare alle toilettes”. Poi ci siamo ritrovati a cena nel ristorante (?) tibetano dell’albergo, uno di quei posti che ripropone l’eterna domanda che già ci inseguiva cinque anni fa in Mustang: ma perché sono così zozzi? Pazienza non ci fosse l’acqua ma qui ce n’è ovunque, perché non si lavano? Né lavano le loro tende, i tavoli, i pavimenti. Nulla. Anyway, Antonio ha cominciato a farci scompisciare dalle risa ieri sera e continuerà per tutto il tempo che passeremo insieme.
Dopo i ridicoli tentativi di fotografare un monte che non si vede, prendiamo nuovamente il via. Fino a Lhatse la strada non è un granché ma è più che praticabile. Alessandra sta male e, a un certo punto, fa fermare la macchina. Si sale, si sale e si sale, sta male anche Carlito. Poi si sale ancora, fino a un passo da 5220 metri.
Quando ci fermiamo per il pranzo, la troupe è decimata: Frédéric è un cencio sbattuto (ma per fortuna Geneviève è quasi tornata alla normalità), Carlito ha una faccia che fa spavento, molti non scendono neppure dalla jeep e quasi tutti, me compresa, ordinano solo riso in bianco. L’unico che mangia con un appetito da leone è Dave, il newyorchese che vive in Florida; non si sa come a lui l’altitudine gli fa un baffo (ma si scoprirà poi che Dave, qualche giorno fa, era al campo base dell’Everest, dunque è chiaro che gli eventuali problemi li ha superati da un pezzo).
Riprendiamo il cammino e la strada è sempre una merda. La ragione per cui percorriamo questa strada disastrosa è che i cinesi stanno costruendo e sistemando una nuova strada più o meno parallela a questa e i lavori creano un casino mostruoso. Arrivare a Shigatse è una pena, ma all’ingresso in città tutto cambia: le strade sono perfette e asfaltate. Passiamo accanto all’area storica, attorno al Tashihunpo Monastery (che visiteremo l’indomani) e troviamo Xigatse, la seconda città più grande del Tibet, gradevole se non bella. Peccato che le nostre jeep si dirigano verso la periferia e si fermino davanti a un hotel che la Lonely Planet stronca. Dico alla guida che non voglio dormire lì e Antonio rincara. Invece, siccome in albergo non c’è posto per tutti, noi siamo i primi a cui viene assegnata una camera.
Ho parlato troppo presto, non è poi così male: la doccia è ottima, le lenzuola e gli asciugamani puliti. Peccato per la moquette e per le testiere del letto che sembrano aver raccolto l’unto di generazioni di teste. Sapremo poi che il secondo albergo era molto, molto migliore, quasi di lusso per gli standard tibetani.
A cena fatichiamo a spiegare al taxista dove vogliamo andare: abbiamo scordato la prima regola fondamentale per chi viaggia in Cina, munirsi di indirizzo scritto in ideogrammi. Perciò ci ritroviamo prima in un altro albergo (il taxista ha capito che cercavamo un posto per dormire) e poi ancora in un hotel (Shigatsé Hotel) decisamente più chic, dove consumiamo una discreta cena a buffet per 50 Yuan (10 yuan = 1 € più o meno) insieme agli spagnoli e ai turkmeni.
(nella foto: uno dei fatali passi tra Tingri e Shigatse)
P.S. regalami qualche secondo qui
Qui comincia l’avventura. La notte è, bene o male, anzi più male che bene, trascorsa. Geneviève è stata malissimo: brividi, probabilmente febbre, e vomito. Carlito sta appena un po’ meglio ma per ora sembra resistere. Frédéric e io non abbiamo niente di che ma abbiamo dormito a intermittenza. Di fatto molti hanno sofferto, come minimo, un mal di testa bestiale.
Il programma prevede colazione alle 6.30 e partenza alle 7, visto che abbiamo un mucchio di strada davanti a noi. Purtroppo, però, noi quattro abbiamo cominciato a dormire sul serio soltanto al mattino e alle 7 passiamo bruscamente dal sonno alla veglia. Poco tempo per una toilette davvero sommaria e per mettere via i sacchi a pelo e i pochi altri oggetti che abbiamo tirato fuori dai bagagli. Poi si torna a bordo.
La guida, oggi, vorrebbe sistemare due persone davanti, all’occorrenza la coreana e me, ma l’autista, molto più saggio del nostro accompagnatore, si rifiuta. Il risultato è che la guida finisce per spostare la coreana su un’altra jeep (quella di Geneviève, Frédéric, Michela e Bruno). Così, d’ora in poi, noi quattro italiani saremo gli unici ad avere il privilegio di viaggiare in tre sul sedile posteriore e in due, autista compreso, su quello anteriore. Gigi dice che probabilmente abbiamo avuto questa concessione perché siamo gli unici che hanno protestato. In effetti, scopriremo poi, la supposta guida funziona proprio così.
Partiamo a stomaco vuoto per fare sosta quasi immediatamente di fronte a una montagna, quasi completamente nascosta dalle nuvole, che l’imbecille che ci accompagna pretende sia l’Everest. In effetti, ieri, all’ultimo stop, ci aveva assicurato che al mattino avremmo potuto contemplare sua altezza addirittura “from your window”. Peccato che tutti noi avessimo soltanto una modesta finestra sul cortile.
La fermata, opportuna così così, ci avvicina ulteriormente ad Antonio, un andaluso di Granada, che è una furia di simpatia. I primi contatti sono avvenuti ieri sera quando mi si è avvicinato nel cortile per informarmi che “la vera avventura, qui, è andare alle toilettes”. Poi ci siamo ritrovati a cena nel ristorante (?) tibetano dell’albergo, uno di quei posti che ripropone l’eterna domanda che già ci inseguiva cinque anni fa in Mustang: ma perché sono così zozzi? Pazienza non ci fosse l’acqua ma qui ce n’è ovunque, perché non si lavano? Né lavano le loro tende, i tavoli, i pavimenti. Nulla. Anyway, Antonio ha cominciato a farci scompisciare dalle risa ieri sera e continuerà per tutto il tempo che passeremo insieme.
Dopo i ridicoli tentativi di fotografare un monte che non si vede, prendiamo nuovamente il via. Fino a Lhatse la strada non è un granché ma è più che praticabile. Alessandra sta male e, a un certo punto, fa fermare la macchina. Si sale, si sale e si sale, sta male anche Carlito. Poi si sale ancora, fino a un passo da 5220 metri.
Quando ci fermiamo per il pranzo, la troupe è decimata: Frédéric è un cencio sbattuto (ma per fortuna Geneviève è quasi tornata alla normalità), Carlito ha una faccia che fa spavento, molti non scendono neppure dalla jeep e quasi tutti, me compresa, ordinano solo riso in bianco. L’unico che mangia con un appetito da leone è Dave, il newyorchese che vive in Florida; non si sa come a lui l’altitudine gli fa un baffo (ma si scoprirà poi che Dave, qualche giorno fa, era al campo base dell’Everest, dunque è chiaro che gli eventuali problemi li ha superati da un pezzo).
Riprendiamo il cammino e la strada è sempre una merda. La ragione per cui percorriamo questa strada disastrosa è che i cinesi stanno costruendo e sistemando una nuova strada più o meno parallela a questa e i lavori creano un casino mostruoso. Arrivare a Shigatse è una pena, ma all’ingresso in città tutto cambia: le strade sono perfette e asfaltate. Passiamo accanto all’area storica, attorno al Tashihunpo Monastery (che visiteremo l’indomani) e troviamo Xigatse, la seconda città più grande del Tibet, gradevole se non bella. Peccato che le nostre jeep si dirigano verso la periferia e si fermino davanti a un hotel che la Lonely Planet stronca. Dico alla guida che non voglio dormire lì e Antonio rincara. Invece, siccome in albergo non c’è posto per tutti, noi siamo i primi a cui viene assegnata una camera.
Ho parlato troppo presto, non è poi così male: la doccia è ottima, le lenzuola e gli asciugamani puliti. Peccato per la moquette e per le testiere del letto che sembrano aver raccolto l’unto di generazioni di teste. Sapremo poi che il secondo albergo era molto, molto migliore, quasi di lusso per gli standard tibetani.
A cena fatichiamo a spiegare al taxista dove vogliamo andare: abbiamo scordato la prima regola fondamentale per chi viaggia in Cina, munirsi di indirizzo scritto in ideogrammi. Perciò ci ritroviamo prima in un altro albergo (il taxista ha capito che cercavamo un posto per dormire) e poi ancora in un hotel (Shigatsé Hotel) decisamente più chic, dove consumiamo una discreta cena a buffet per 50 Yuan (10 yuan = 1 € più o meno) insieme agli spagnoli e ai turkmeni.
(nella foto: uno dei fatali passi tra Tingri e Shigatse)
P.S. regalami qualche secondo qui
16 gennaio 2008
3 agosto Zhangmu - E si riparte
“Day 2 - Zhangmu/ Nyalam - Tingri (4300 m)/Lhatse (4350 m): 225/244 km - Day drive uphill to the highest plateau of the world (wow; è davvero fantastico) with all the tipical view of Tibetan landscape offering sheer feeling of standing on the roof of the world crossing over Lalungla (5050 m), from where, weather (ma, in effetti, a noi fa difetto un altro genere di tempo) permitting, breathtaking panorama of beautiful Himalayan ranges including Mt. Cho Oyu (8201 m) and Mt. Xishapagma (8012 m) but dwarfed by the vastness of the Tibetan plateau. From Tingri (quindi per noi l’indomani), one can enjoy the magnificence of Mt. Everest (8848 m). Overnight at the hotel (e qui il coraggio si moltiplica: hotel? Quale hotel? Qualcuno ha visto un hotel?).
Indovina? Opzione minore: si dormirà (chi può) a Tingri, il buco del culo del Tibet.
La guida è stata perentoria ieri sera: per chi ha colazione inclusa, breakfast alle 8.30. Poi ci si ritrova al controllo (dove per altro hanno tenuto i nostri passaporti tutta la notte) alle 9. Il gruppo vacanze Piemonte della camera di fianco al cesso mette la sveglia alle 7.30. Così, tanto per la colazione che per il meeting collettivo, siamo pronti molto molto prima del necessario. L’inutilità è patente: il posto di controllo, tanto per cominciare, apre alle 9.30. In seguito bisogna sottostare agli incredibili tempi cinesi e alle interminabili manovre. Prima che abbiamo soltanto il diritto di varcare il confine per rientrare in terra di nessuno (chissà poi di che confine si tratta. Avrei giurato l’avessimo varcato ieri) ci passano davanti file e file di camion; infine abbiamo il permesso di penetrare in dogana, facciamo passare i nostri bagagli al controllo e poi ci mettono in fila. Dopo qualche tempo posiamo gli zaini a terra, consci che l’attesa non sta affatto per terminare. Miracolo, la guida ci restituisce i passaporti. Il che non significa, apparentemente, nulla.
È passata almeno un’altra mezz’ora quando un tizio in uniforme non militare, con l’aria del perfetto burocrate nullafacente, mentre tira indifferenti boccate dalla sua sigaretta, decide che la nostra fila non è nella posizione corretta e ci invita, assai poco garbatamente, a spostarci di mezzo metro. Dieci minuti dopo decide di dare alla coda una nuova raddrizzata. La fila, comunque, si scompone continuamente per l’attesa: c’è chi fuma una sigaretta, chi va a vedere che accade in cima alla coda, chi passeggia nella minuscola area in cui è consentito e così via. Alla fine di questa estenuante mattinata riusciamo a passare (che io sappia solo Frédéric ha qualche problema visto che la macchinetta automatica controllapassaporti non riconosce il suo documento). Una volta terminato il controllo individuale ci sono non so che diavolo di pratiche collettive che vengono sbrigate dalla guida e, finalmente, attorno a mezzogiorno riusciamo a imbarcarci sulle jeep. Siamo in Cina, finalmente. Pardon, in Tibet.
L’equipaggio comprende la coreana, Gigi e Alessandra e noi due. La coreana è un vero soggetto: viaggia sola, non rivolge mai la parola a nessuno (oddio, forse dopo la notte comune aveva un po’ legato con una giapponese vestita come per una sfilata, tanto che le due erano salite sulla stessa jeep, ma Gigi, con molto fair play devo dire, le ha chiesto se poteva cambiare posto in modo da non separare nessuna coppia e lei, con squisita gentilezza asiatica, ha scaricato il suo bagaglio e si è spostata), legge il suo libro tutto il tempo, è sempre la prima a salire a bordo dell’auto, dove è capace di rimanere ore, paga sempre qualcuno perché le porti la valigia, si guarda quasi di continuo allo specchio, estrae misteriosi quadratini blu da un astuccetto di cartone e si tampona il viso per togliersi inesistenti eccessi di sebo, è la sola che, nel corso del viaggio, siamo quasi riusciti a perdere (a parte la già citata giapponese che, a un certo punto, sembrerà essersi dissolta nel nulla) a una stazione di servizio.
La coreana si è seduta davanti, dove c’è spazio per due, mentre noi ci ritroviamo schiacciati dietro in quattro. Però è gentile e decide di rompere silenzio e ghiaccio dicendoci “Ehi guys, se qualcuno di voi vuole venire davanti no problem, basta dirlo”. Noi, probabilmente assaliti dai sensi di colpa per tutti gli accidenti che le abbiamo inviato sino a un istante prima, decliniamo quasi in coro l’offerta. Ma, visto che tra il lusco e il brusco, non siamo ancora partiti, arriva la guida e sconvolge il branco: la coreana, che è piccola e sottile, deve spostarsi dietro e uno di noi ingombrantoni deve passare davanti. Tocca a Carlito, mi pare, e, finalmente, si parte.
Durante questo lungo e, come si vedrà, estenuante viaggio in jeep, l’unica consolazione è il paesaggio, che cambia gradualmente più e più volte, verdissimo nella valle di Katmandu e poi alpino, verde di montagna, dunque più intenso, ricco di risaie e di coltivazioni a terrazza, anche microscopiche, che perde a poco a poco colore per trasformarsi in roccia, arida pietraia, mica friabile, di nuovo roccia argillosa e multicolore, cosparsa di macchie gialle di colza, del verdino del grano ancora giovane, di qualche rettangolo viola di qualcosa che sembra lavanda. Per terminare, attorno a Lhasa, con montagne che sembrano acquarelli giapponesi. Una favola.
Prima che ci avviassimo ho prudentemente chiesto alla guida se dovevamo comprare qualche sandwich da portare con noi, ma, dopo una prima risposta affermativa, l’imbecille decide che non vale la pena e che faremo invece una sosta per il pranzo. Brillante idea, visto che la notte scorsa, per essere a posto con le tappe avremmo dovuto dormire a Nyalam, 33 km dopo Zhangmu (a sua volta soltanto a 123 km da Katmandu) e che, come si sarà capito, è appunto soltanto all’ora di pranzo che riusciamo infine a lasciare Zhangmu.
Dunque siamo appena partiti o quasi quando ci fermiamo, forse proprio a Nyalam, dove Carlito e io dividiamo un tavolo, qualche fried rice e qualche birra con i “turkmeni” Geneviève e Frédéric. La guida vede la nostra birra e ci avvisa: “You’ll be sick”. Affermazione che, per qualcuno almeno, sarà profetica.
Il viaggio non è comodissimo, anche perché in quattro dietro si sta un po’ come sardine, ma, tutto sommato, può andare. Le giornate sono lunghissime perché la Cina ha un unico fuso orario, dunque il Tibet che, nel nostro caso, si trova a circa 5000 km da Pechino, ha la stessa ora della capitale. Passando il ponte dell’amicizia, ieri, abbiamo perso in un botto due ore e un quarto perciò ieri sera ci siamo coricati insieme alle galline nepalesi.
Si varca il passo da 5000 m, dove, come accadrà a ogni valico durante questo viaggio, sostiamo per qualche minuto. Proprio come ogni altro passo, in Tibet o in Mustang che sia, anche questo contempla la sua brava dose di pietre raccolte in mucchio (visto che tradizionalmente ogni indigeno che transita posa un sasso sulla montagnola) e la sua sfilata di preghiere nel vento. Poi si prosegue e si cominciano a intravedere altissime montagne. È quasi sera quando facciamo nuovamente sosta per contemplare il presunto Everest. Nessuno di noi saprà mai, a posteriori, di che montagna si sia realmente trattato: la guida dice che è l’Everest e l’autista della jeep dice di no. In ogni caso, qualunque sia il nome di quel picco, la vetta è quasi completamente celata dalle nuvole, dunque la vista ci commuove fino a un certo punto. Comunque questo è il momento scelto dalla guida per radunarci attorno a lui e farci la sua proposta: visto che è tardi chiede se non sia il caso di fermarsi a Tingri (Old Tingri) per la notte, invece di proseguire fino a Lhatse. Io aderisco per prima e nessuno ha obiezioni, probabilmente perché di jeep e di polvere e stritolamenti da affollamento sul sedile posteriore non ne possiamo più. Mal ce ne incoglie: qualche decina di minuti più tardi raggiungiamo la topaia che ci ospiterà per la notte. Finiamo in una stanza da quattro che misurerà all’incirca 4 metri quadrati, insieme ai francesi del Turkmenistan. Una pena. La doccia è comune e comincia a far freddo per cui solo pochi temerari osano affrontarla e tra questi non figuriamo noi. Il cesso, ché altrimenti non si può chiamare, non è nient’altro che una grossa cava coperta da un asse di legno. Sotto il grosso buco nell’asse si estende una montagna di merda. C’è chi, come Geneviève, visto il posto, decide di rinunciare e di incamminarsi verso qualche luogo appartato e all’aperto. Al rientro dalla gita igienica sta male: un mal di testa da scoppiare. Primo sintomo del mal di montagna. Geneviève si mette a letto e noi tre superstiti proviamo ad andare a mangiare. Con scarso successo. La notte è un inferno per molti del gruppo.
P.S. regalami un secondo qui
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