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21 maggio 2008

Ripresina di Miracolo cubano - 15 agosto 2006 - Holguin-Playa Guardalavaca - “Amigos”

Flori a parte, Holguin non presenta granché da segnalare. Per la cena scegliamo il ristorante più figo, il Salon 1720, e ci fermiamo a bere un aperitivo nel patio. Qui incontriamo due bizzarri pistoiesi, arrivati qualche giorno fa a Santiago de Cuba, che, dunque, fanno il giro opposto al nostro. Visto quanto il mio amico fotografo Marco prima e Flori poi (senza contare guide e libri) ci hanno magnificato Baracoa chiediamo anche a loro che ne pensano. Non sembrano entusiasti: “bella, sì sì”, ma è come se restasse sottinteso un “però” che non riceve voce. Ma come diavolo sarà Baracoa?
La cena, frattanto, non è niente male. Anche se i due veneti che siedono all’unico altro tavolo occupato nella nostra sala guastano leggermente l’ambiente. La tarritudine sembra essere il loro credo e quando, per concludere il pasto, chiedono alla cameriera “un amaro”, proprio così, in italiano, tranquilli al punto che mi stupisco non chiedano direttamente “un Averna”, fatico un po’ a non ridere. Un paio di rhum più tardi, comunque, se ne vanno. E, fortunatamente, non ci capiterà più di incrociarli.
Il mattino dopo Pinocchietto e io siamo pronti ad affrontare il cammino fino alla Playa (Guardalavaca). Un tragitto tranquillo. Persino troppo, visto che non incontriamo neppure un autostoppista. Finché, a turbare una quiete che rasenta la noia, si introduce nientemeno che un’autoambulanza. Il conduttore si sbraccia, strombazza, quasi urla e ci fa cenno di accostare. Confesso che mi spavento: che sarà mai successo? L’ambulanziere si ferma accanto a noi e scendiamo quasi simultaneamente dai rispettivi veicoli. Già va meglio: il ragazzone in questione ci viene incontro con un sorriso a piena dentatura, “Amigos”. Ci ha fermato perché vorrebbe invitarci a pranzo a casa sua, a Holguin. Decliniamo l’offerta e chiacchieriamo un po’. Poi ciascuno riparte verso la propria meta. “Ma se passate da Holguin, mi raccomando, venite da me”.


(nell'immagine: c'è che un Che ci sta sempre. Questa foto di foto è stata scattata in un negozio dell'Avana)

09 marzo 2007

14 agosto 2006 - Nuestra señora Floriselda de Holguin


Per Holguin mi sono preparata. In questi primi otto giorni a Cuba ho maturato la convinzione, alquanto balzana e non precisamente fondata, che la GéoGuide che mi porto appresso sia meglio della Lonely per la scelta di casas particulares e luoghi dove mangiare (ma, accidenti a me, ora che rifletto, possibile che mi sia già scordata che la Fabrica de Tabacos consigliata per andare a vedere la fabbricazione dei sigari, era chiusa da anni? Svariati anni. E la guida è datata 2006, ça va sans dire). Dunque, sulla base della GéoGuide ho una meta precisa: Villa Flori.
Tra cuadras, arriba e abajo ci mettiamo un mucchio di tempo a trovare Villa Flori. Anche perché non è che sia proprio in centro. Stanchi, felici e arditi suoniamo a una porta che appare chiusa chiusa. Sentiamo l’eco del campanello nella casa e aspettiamo. Nessun altro suono. Io, timida, refrattaria e codarda come sono, me ne andrei. Ma, per fortuna, il mio uomo è SuperPinocchietto. E lui, sicuro, risuona.
È un quasi niente, un lontano fruscio, forse. Poi un rumore appena più intenso. E passi felpati che scendono scale. In un effluvio odoroso si materializza Flori, Floriselda Concepcion H., come dice il suo biglietto da visita.
“Scusate, stavo facendo il bagno”. Ci fa entrare, accomodare in poltrona e dice che, purtroppo, le sue due camere sono già affittate. Mi chiama “mi amor” e quando sente che siamo italiani si illumina d’immenso. Prosegue spiegandoci che una sua amica ha certamente una stanza per noi. Le telefona ed è fatta. Poi aggiunge: “la prima persona cui ho affittato una camera è stato un ragazzo italiano. E ora è mio genero”. Racconta che è stata in Europa. A Praga, per esempio, ma non in Italia. Anche se “mi invitano sempre e potrei andarci quando voglio. Ma non mi piace viaggiare”. Dice che è in pensione ma ha fatto per tutta la vita l’infermiera. E in qualità di infermiera è andata in Angola, ai tempi della guerra di liberazione (Mpla, qualcuno ricorda?). Al di là delle ragioni politiche dell’appoggio all’Angola, i medici cubani impegnati in operazioni umanitarie in giro per il mondo erano 25 mila nel 2006. Un po’ come se fosse la più grande pseudo-Emergency del pianeta. Con iniziative come l’Operacion Milagro (sì, sì, Operazione Miracolo): un programma cubano-venezuelano che offre assistenza oftalmica e interventi chirurgici gratuiti agli occhi ai più poveri tra i boliviani (Nei primi sei mesi del 2006 1.240 medici e infermieri cubani sono andati in Bolivia per partecipare alle “Brigate di attenzione gratuita” attive nelle zone rurali. Stando alle cifre del ministero della Sanità di La Paz, negli ultimi mesi i medici cubani avrebbero curato circa 600 mila boliviani, il 6,6% della popolazione. I primi medici cubani sono arrivati in Bolivia a gennaio, per soccorrere le migliaia di persone danneggiate da un’alluvione).
Nel frattempo è arrivato il marito di Tamara, da cui dormiremo questa notte. Così Flori ci chiede dove abbiamo intenzione di andare dopo aver visitato Holguin e, saputo che la meta è Baracoa, ci organizza il viaggio: “fate così, fermatevi una notte a Playa Guardalavaca, che è magnifica, e poi diretti a Baracoa. Ah Baracoa, bellissima, a mi me encanta. E a Baracoa andate da Eugenio, ora lo chiamo”. Detto fatto, siamo già quasi proiettati a casa di Eugenio. Poi Flori evapora in una nuvola di borotalco.


(nella foto: il patio del Salon 1720, bar-ristorante di Holguin)

23 gennaio 2007

14 agosto 2006 - Camagüey-Holguin: que viva la medicina cubana


Sesto giorno a Cuba. Impressioni forti, ma ancora confuse. Il tratto in auto tra Camagüey e Holguin ci regala, comunque, uno degli incontri più interessanti dell’intero viaggio: quello con l’autostoppista infermiera. La ragazza è la prima persona alla quale diamo un passaggio che, oltre ad avere cose da raccontare, ha anche una gran voglia di parlare con noi. Ha 22 anni e un figlio di sei mesi, avuto da un 54enne, ed è in congedo maternità pagato per un anno. Lavora come paramedico e guadagna 500 pesos cubani (circa 20 convertibles) al mese. È molto fidelista, dice che a Cuba tutto funziona, soprattutto sotto il profilo sanitario: ci sono le strutture e i mezzi. Anche se dove vive lei una sala parto non c’è e le donne devono andare fino a Camagüey per partorire.
L’unico problema di Cuba, a suo dire, sono i prezzi di abiti e scarpe: altissimi. Scopriremo poi che è una delle lamentele principali dei cubani con i turisti: la litania si ripete quasi a ogni incontro. Quasi. Probabilmente ne parlano solo quelli che sperano di ricevere in regalo, se non sandali, almeno una T-shirt. Un paio di scarpe, in effetti, costa 20 dollari, vale a dire all’incirca lo stipendio di un mese dell’infermierina. Lo Stato, a suo avviso, dà molto, ma certo non soldi. A dire il vero non sembra granché soddisfatta della quantità di latte fornita ai bambini di un anno (e fino al compimento del settimo): un litro al giorno. Che, a me, non sembra affatto male, ma, si sa, non ho figli, dunque, forse, non so valutare. A meno che non ci si sia capite, il che è sempre possibile. La solita Lonely Planet, che mi sono bell’e stufata di citare, parla, per esempio, di una scatola di latte in polvere, ma dimentica di specificare ogni quanto venga fornita (una volta al mese?) e quanto sia grande. A occhio, il mio naturalmente, questo mi sembra poco. Saranno aumentate le dosi? Attendo lumi da eventuali lettori.
La ragazza, comunque, sembra molto positiva. Sarà che adora il suo lavoro. Vorrebbe pure andare in missione all’estero e conta di avere il permesso per farlo. Non è una speranza vana, visto che il paese dove la nostra amica ha chiesto di andare è il Venezuela. E, si sa, il presidente Hugo e il comandante Fidel sono in ottimi rapporti. Dunque la bella si sente già in partenza. Per ora l’unico luogo che lascia è la nostra auto. E confesso che quando la giovane infermiera arriva a destinazione si insinua nell’abitacolo un piccolo vuoto. Da riempire con il prossimo incontro.


(nella foto: la farmacia-museo Taquechel a La Habana Vieja, calle Obispo, XVIII secolo)

22 gennaio 2007

13-14 agosto 2006 - Camagüey: il bene e il male


A Camagüey, flanellando per le strade più carine del centro, siamo stati attratti da un’esposizione di disegni di bambini all’Uneac, Union de Escritores y Artistas de Cuba (organizzazione governativa - e sottolineo governativa con tutto il male ma anche il bene, se riflettete un poco, che tutto questo significa - che supervisiona - male -, sostiene - bene -, controlla - male -, finanzia -bene. Oppure viceversa. Dove finisce il bene e dove cominicia il male? O anche viceversa), a poca distanza dal Parque Agramonte. Scopriamo piccoli tesori, in parte da soli, in parte grazie al direttore dell’Uneac, gentilissimo, che ci fa da cicerone e la cosa più impressionante è l’età degli autori: ci sono artisti di cinque-sei anni che hanno realizzato autentiche magie di colore.


(nella foto: uno dei palazzi che si affacciano sul Parque Agramonte, a Camagüey)

16 gennaio 2007

13 agosto 2006 - 80° compleanno di Fidel - Trinidad - Sancti Spiritus - Camagüey


Lo sanno tutti: Fidel sta male (e oggi, mentre infilo queste note sul web, sta pure peggio, almeno secondo “El Pais”). Dunque, i previsti festeggiamenti per il suo 80° compleanno sono saltati. Rimandati, a dire il vero, al 2 dicembre, giorno in cui a Cuba si commemora il 50esimo anniversario dell'approdo del Granma e dello sbarco del suo carico di rivoluzionari nella provincia orientale dell’isola. Ora sappiamo che Castro non festeggerà il suo genetliaco neppure in quella seconda occasione.
Riguardo al comandante, confesso che mi aspettavo ben altro; forse è colpa mia. O forse sono solo distratta. Però ero convinta che a Cuba fosse peggio, che il culto della personalità di Fidel fosse simile a quello di Ceausescu in Romania. Credevo che, come accade in Marocco e Thailandia, per esempio, con i ritratti dei rispettivi reali, il viso di Fidel fosse replicato ovunque, negli uffici pubblici come nei ristoranti, negli hotel come nei cortili degli edifici privati. Invece no.
Senza esagerare in senso inverso, naturalmente: in un’isola in cui non c’è pubblicità nelle strade, tutti i cartelloni, i manifesti e similia inneggiano alla rivoluzione e/o al lider maximo. E, tanto per dire, lungo il bellissimo percorso che si snoda da Trinidad a Sancti Spiritus, spiccano le scritte preparate per il compleanno, come un “Viva Fidel Castro” composto di pietre bianche sul ciglio della strada. Per il genetliaco del comandante, tra l’altro, è arrivato anche Hugo Chavez, accolto all’aeroporto da Raul. Sentiamo la cronaca della sua visita alla radio. Dicono, per esempio, che Chavez ha appena annunciato che si ripresenterà alle elezioni presidenziali venezuelane a dicembre (fatto. E le ha vinte). E, più tardi, ci ribecchiamo l’incontro Fidel-Hugo alla televisione e assistiamo così alla consegna dei regali e alla più volte menzionata “frugal merenda” che i due capi di Stato avrebbero diviso.


Sancti Spiritus: un viaggio nel tempo


Non c’è niente di speciale, d’accordo, ma l’atmosfera è rilassata, le case colorate, il fiume tranquillo. Non penso sia un posto dove valga la pena passare una notte, ma la pausa pranzo alla Quinta Santa Elena, in riva al fiume e vicinissima al Puente Yayabo, è una sosta piacevolissima. Alla Quinta, nel giardino, sotto gli alberi, si sta d’incanto e, caso rarissimo a Cuba al di fuori delle casas particulares, si mangia pure bene. Per giunta a un certo momento arriva un adorabile vecchietto con una macchina fotografica del 1910 e ci dà una dimostrazione di come funzioni una Polaroid per viaggiare nel tempo: “Esta foto fue hecha en Sancti Spiritus, Cuba, el 13 de agosto 2006. Firma”. Non fosse per gli abiti, Pinocchietto e io potremmo essere i nostri nonni: la foto è seppia, con i bordi zigrinati e una squisita aria d’antan.
Si riparte. E si continua a perlustrare Cuba dai finestrini dell’auto. Tra Ciego de Avila e Camagüey su un grande cartello-propaganda leggo “No hay bloquéo para las ideas”, che, in fondo, mi sembra uno slogan mica male. Quando abbiamo quasi raggiunto la nostra ultima tappa della giornata, Camagüey appunto, compaiono lungo il nostro cammino magnifici alberi a ombrello. Peccato non avere autostoppisti a bordo, mi sarebbe tanto piaciuto sapere il loro nome.

15 gennaio 2007

12 agosto 2006 - Secondo giorno a Trinidad: que viva musica


Replay. Ciondoliamo pigri per le strade di Trinidad. Perla di Cuba, prediletta dall’Unesco e decantata da tutti. Carina, decisamente carina, “pero nada mas” secondo Pinocchietto e la sottoscritta. In Plaza Mayor l’effetto cartolina è garantito da una bella sposa biancovestita che posa per le foto, sola o accompagnata, dentro, sopra, accanto a una Chevrolet rossa. Liberarsi della piccola si rivela missione impossibile, mentre visitiamo uno dopo l’altro i palazzi della piazza, lei, inesorabile, staziona ora qui ora là e continua a farsi fotografare, al sole, all’ombra, nei giardini.
Più tardi Pinocchietto e io decidiamo di partire in esplorazione della valle de Los Ingenios, che altro non sono che gli antichi zuccherifici. Seguiamo i cartelli e ci ritroviamo a fine giornata in una sorta di bar, sfornito e quasi chiuso, in posizione belvedere, da cui si vede benissimo tutta la valle ma non si intuisce neppure uno zuccherificio d’epoca. In compenso la nostra bella è ancora là, con l’abito del dopo cerimonia ora, a farsi fotografare con il panorama sullo sfondo.
Rientrando ci fermiamo a chiacchierare con i vicini di casa, intenti come sempre a fabbricare materassi (sì, sì, a mano). Si parla da strada a finestra, con la disinvoltura relativa che ci permette il nostro spagnolo. Il fatto che siamo italiani suscita entusiasmo, quando poi Pinocchietto rivela la sua nascita sarda, la signora materassaia si abbandona a entusiasmo puro: suo figlio vive a Sassari. E, di colpo, superando confini fisici, culturali, sociali, mentali, babelici e chissà quanti altri, sembra che facciamo tutti parte di un’unica famiglia.
Nel frattempo scende la sera e comincia la nostra quasi quotidiana ricerca di note. Dal punto di vista socio-musicale, la Casa de la Musica di Trinidad è stata, probabilmente, la migliore esperienza. Sulle Escalinadas il sabato sera si mescolano turisti (anzi, a dire il vero, soprattutto turiste) e cubani. Certo, c’è sempre qualche nota falsa, come quando il cantante ha dato il benvenuto a “los amigos italianos de la Francorosso” (e te pareva) o, più in generale, per il sospetto che tutti i cubani e le cubane presenti, così solerti nel far danzare gli stranieri, altro non fossero che altrettanti jineteros. Ma, visto che Pinocchietto e io ci siamo limitati a fare da spettatori, confesso che quella che ci rimane appiccicata addosso è soltanto allegra aria di festa.

20 dicembre 2006

Sempre 11 agosto 2006 - Prima sera a Trinidad: note d'antipasto


Ancora non lo sappiamo, ma il concerto per l'aperitivo di ieri sera, alla Canchachara, resterà uno dei migliori di tutta la vacanza. I musicisti sono bravissimi. Magari non particolarmente originali visto che propongono, per lo più, brani del Buena Vista, però proprio bravi. Automatico dunque che per convincere virginie ad acquistare il loro cd (carissimo, in assoluto e anche in relativo: 10 convertibles) basti un battito di ciglia. Poi si rientra: Alexis ha insistito perché cenassimo in casa. In genere Pinocchietto e io preferiamo uscire, ma, a dire il vero, siamo abbastanza stufi del cibo dei ristoranti. Non è un luogo comune: a Cuba si mangia malissimo. Da Nelson, invece, mangiamo piuttosto bene, il che ci permette di affrontare lo spettacolo di musica e danza afro-cubane nelle migliori condizioni di spirito.
Nell'ingresso soggiorno della casa in cui siamo ospiti i due figli di Nelson, un maschio e una femmina, giacciono l'intera giornata in stato semivegetativo davanti a un grande schermo televisivo. Niente plasma o cristalli liquidi, ma Cnn o canali musicali a ciclo continuo. I due sembrano vivere a terra, sdraiati sulla pancia; perennemente annoiati, quando non addormentati, e vagamente spocchiosi, come spesso accade agli adolescenti. Quando i ragazzi lasciano il campo libero, padre e madre prendono possesso della sala rilassandosi sulle sedie a dondolo. Da qualche parte ho letto che i cubani hanno una vera passione per le sedie a dondolo e, in effetti, dopo averle trovate a casa di Nelson, non posso fare a meno di notare che ce ne sono ovunque, in tutti i salottini visibili dalla strada. Quanto alla mia passione per le sedie a dondolo non so da dove venga. Forse, banalmente, da quella grande sedia a dondolo in paglia (allora si diceva così, cosa sarà stato? midollino?) su cui, se chiudo gli occhi, mi sembra ancora di rivedere mia nonna seduta.

08 novembre 2006

Ancora 11 agosto 2006 - Trinidad, ahi que calor


Pranziamo in un paladar, cioè in una sorta di ristorante privato (i restaurantes, viceversa, sono di Stato. I paladares sono comparsi in epoca relativamente recente, nel 1995, e, in teoria, non possono avere più di 12 coperti, né servire manzo, astice o gamberetti. Almeno così sta scritto sulla Lonely Planet). Il cameriere è un adorabile vecchio signore che si dice “fidelista”. Ama un po’ meno, a quanto pare, Raul, ma nelle sue parole non appare alcun astio. Il punto è solo che Fidel, ai suoi occhi, è più intelligente. A dire il vero, il nostro lo considera un genio, ne ha una stima infinita e sostiene che il Castro mayor ha sempre previsto con largo anticipo tanto gli avvenimenti cubani che quelli internazionali: una decina d’anni per la caduta del muro di Berlino, per esempio. Malgrado questo, dopo che Cuba è uscita dall’orbita sovietica, si è trovata ad affrontare il peggior periodo di crisi dalla nascita della repubblica socialista, il tristemente famigerato periodo especial, una sorta di austerity cubana, cominciata nel 1990, che ha fatto penare tutti per qualche anno. L’anziano cameriere termina la sua analisi con una lode e una critica: Fidel è decisamente più bravo di Raul e, naturalmente, è dotato di maggior carisma. E dubito che, almeno su questo, qualcuno levi la testa a dargli torto.
Usciti dal paladar, scopriamo che girare per Trinidad nel primo pomeriggio è quasi missione impossibile: il caldo è atroce. Tanto peggio se la città e la Valle de los Ingenios (cioè gli zuccherifici del XIX secolo di cui la zona è piena) sono entrati a far parte del patrimonio mondiale dell’Unesco dal 1988, domani è un altro giorno e oggi abbiamo voglia di fare gli italiani medi e cazzeggiare. Al mare, magari. Così finiamo alla Playa Ancon nella penisola omonima: la spiaggia non è niente di che, ma pare che la costa sud di Cuba non sia il massimo; le spiagge proverbiali da Caraibi spinti stanno tutte a nord. Per una volta concordo con uno dei proverbi più scemi e minimalisti che conosca: almeno per oggi “chi si accontenta gode”.


(nella foto: uno scorcio di Plaza Mayor, con la Iglesia Parroquial de la Santisima Trinidad, a Trinidad appunto)

20 settembre 2006

11 agosto 2006 - Cienfuegos-Trinidad. On the road again


La strada tra Cienfuegos e Trinidad ci porta ad attraversare la Sierra, quella delle imprese dei barbudos: palme in quantità, campi coltivati a canna da zucchero o a mais, risaie. Si ha l’impressione di attraversare un posto ricchissimo e benedetto da tutti gli dei. Anche le casette lungo la strada sono spesso modeste, mai misere. Ci sono mucche e cavalli e neppure un ronzino. Quanto al carro trascinato dagli equini sembra essere, un po’ come in parte abbiamo già visto a Cienfuegos, il principale mezzo di trasporto in zona.
Dalla Sierra sbuchiamo sul mare per percorrere la strada che non c’è, almeno sulla mia cartina. Sul percorso inesistente scopriamo i granchi attraversatori: parecchi di loro incrociano il nostro cammino, ma la loro temerarietà non è sempre premiata; ne vediamo diversi spiaccicati dalle ruote delle auto, a dispetto del fatto che di vetture non ne passino molte.
Juanita si è prodigata per noi (o ci ha tirato un pacco, non lo sapremo mai) e ha allertato un corrispondente che ci aspetta all’entrata di Trinidad. È un po’ un aiuto non richiesto, che mi fa sentire vagamente incastrata, come se viaggiassimo su binari predisposti da altri. Ma Juanita ha telefonato a questo nuovo zelante senza chiedere la nostra opinione e ora ci prepariamo all’incontro: il tizio in questione si chiama Alexis e i suoi segni distintivi sono un berretto blu e una maglia grigia. All’ingresso della città non troviamo nessuno. Dunque, dopo un tratto di strada percorsa a caso, sollevati, accostiamo la macchina per studiare il da farsi. È allora che ci viene incontro un giovanotto, Alexis appunto, con un enorme sorriso, e un nome, virginie, alle labbra. Come avrà fatto a pescarci? Mistero.
Morale: siamo finiti a casa di Nelson, proprio come previsto da Juanita. Almeno qui l’aria condizionata fa relativamente poco casino e, per soprannumero, abbiamo pure il ventilatore. Insomma: è un po’ meglio e costa meno (dev’essere perché manca l’effetto zelante in bicicletta); per giunta Nelson è pure simpatico e la chica, che per la verità è una signora, tuttofare è una vera perla.


(nella foto: carro a cavallo unico sulla strada principale di Punta Gorda, Cienfuegos)

15 settembre 2006

10 agosto - L’Avana-Cienfuegos. No es facil


All’hotel le cameriere ci hanno provato: si vede che, in genere, gli stranieri lasciano la mancia. Noi no, però non è che non abbiamo apprezzato, care Jeni e Tami. Ve lo scrivo qui, dove non lo leggerete mai, ma ve lo scrivo. Il bigliettino era una delizia: “Bienvenidos a nuestro hotel. Les deseamos una feliz estancia y esperamos que se sientan como en su propia casa; es una lastima que se marchen mañana, regresen pronto y que Dios los bendiga. Dulces Sueños”. Ho rispettato tutto, anche le maiuscole. Il bigliettino ci è piaciuto, l’asciugamano piegato a cuore pure, ma siamo partiti lo stesso. Senza neppure lasciarvi un peso. “No es facil”.
Uscire dall’Avana sembra già un’avventura. In realtà Roberto, l’affitta-auto, si è spiegato benissimo, ma Pinocchietto e io siamo in ansia: non c’è stata una sola persona che non si sia raccomandata mille volte di chiedere ripetutamente la strada, “a Cuba i cartelli sono inesistenti”. Vero è che niente indica come uscire dall’Avana, ma, incredibilmente, siamo sulla via giusta. Quasi sempre. E, alla fine, l’Autopista Nacional, l’unica autostrada dell’isola, riusciamo a imboccarla. Così raggiungere Cienfuegos e la decantata Punta Gorda è più o meno uno scherzo.
Peccato che Punta Gorda sia così così. Che la casa particulare che ho selezionato dalla Lonely Planet mi faccia senso al punto che non scendo neppure a visitarla. E che veniamo adottati quasi immediatamente da uno zelante in bicicletta, a suo modo uno jinetero, naturalmente, che ci conduce di casa in casa alla ricerca di una camera. Di botto sembra che Cienfuegos rigurgiti di turisti, non si trova una habitacion decente. È per questo che quando approdiamo da Juanita, la sua stanza ci va benone. Anche se il prezzo, lo scopriremo poi, è decisamente eccessivo. Ma che ci vuoi fare, le/ci tocca pagare lo zelante.
Juanita pronuncia quasi subito la formula magica in vigore a Cuba: “no es facil”. Anche se in bocca sua è sembrato soltanto un modo di dire. Più che altro riferito alla difficoltà di educare delle figlie a Cuba: a partire dai dieci anni, dice lei, bisogna stare molto attenti e vigilare. Marcarle strette, insomma. Poi aggiunge amenità del tipo che chi ha voglia di lavorare lavora, qui come altrove, creando un ponte del tutto inconsapevole con una qualsiasi sua omologa Giovanna della Val Brembana. Intanto, ci informa, lei da Cuba entra ed esce quanto e quando vuole: ha la residenza a Granada, dove vive il fratello. Nella realtà, però, abita a Cienfuegos, Cuba, e qui vuole restare. “A mi me gusta Cuba” chiosa con un’espressione che sottintende che questo è l’unico posto al mondo dove valga la pena vivere.
A me, invece, Zoé Valdés fa schifo. Sobria come al solito, virginie. No, va bene, Zoé Valdés non mi fa schifo, non necessariamente, è solo il suo libro che mi fa schifo. E mi fa schifo perché racconta storie bellissime (“Los Misterios de La Habana”), ma le racconta malissimo. Almeno a mio avviso, ma siccome non vale davvero la pena affrontare un dibattito sulla letteratura tra me e me su un letto madido di sudore è meglio che dia un taglio a tutto e vada a fare una doccia.
Di fronte all’hotel Jagua, un po’ oltre in questa grassa lingua di terra che chiamano Punta Gorda, prendiamo l’aperitivo sul mare. Dopo aver eseguito la doverosa visita alla Cienfuegos coloniale, sotto un acquazzone feroce, che non merita di lasciare tracce sostanziali nella memoria. Quello che beviamo è il miglior mojito che abbiamo assaggiato finora, altro che Bodeguita del Medio. Mentre sto seduta a rimirare il tramonto e a ciucciare beata, vedo passare la versione cubana del panino del muratore meneghino, dove, al posto della cotoletta, c’è un pesciazzo, con tanto di coda, intero, impanato e fritto. Per fortuna Pinocchietto, stagliato sullo sfondo di un oceano acciaio con montagne basse all’orizzonte modello acquarello giapponese, è di una bellezza stupefacente.


(nella foto: uno dei palazzi che si affacciano sul Parque José Marti - gli accenti acuti sulle vocali non sono previsti dalla mia tastiera dunque eliminati d'ufficio - centro della Cienfuegos coloniale)

Sempre 9 agosto 2006, sempre la Avana. Transizione.


Tutto il coacervo di luoghi comuni che Pinocchietto e io abbiamo in testa sembra vero: i cubani sono allegri sorridenti e simpatici. E tutto il resto è musica.
Non so se sia questo che ci spinge all’azione, ma siamo efficientissimi: alle 10.30 de la mañana abbiamo già pseudoprenotato l’auto, confermata nel pomeriggio, e bloccato la camera nella casa particulare di Rafaela e Pepe per il nostro ritorno all’Avana. Così ci perdiamo un po’ indolentemente nella plaza Vieja, poi verso la plaza des Armas e quella de la Catedral. Nella plaza Vieja, oltre a ristoranti, localini e gallerie d’arte c’è un misterioso centro vallone. Ospita una mostra di foto, spiegazioni attorno alla Vallonia, descrizione delle industrie & co. e cartine. A cosa diavolo servirà? A promuovere il turismo certamente no. Sarà un vallone che si è innamorato dell’Avana? Mistero.
Il primo giorno segna anche il primo approccio con la doppia economia cubana. Noi turisti paghiamo in pesos convertibles (1 € = 1,13 pc), mentre i cubani usano il peso cubano, o moneda nacional. Un peso convertible equivale a 25 pesos cubanos e i salari sono in moneda nacional. Ai turisti la moneda nacional è quasi inutile, per loro c’è l’altra moneta, altri prezzi etc. Per esempio, noleggiare un’auto a Cuba costa più che in Europa: per la nostra Hyundai, nuova di pacca con appena 1700 km al suo attivo, paghiamo 85 convertibles al giorno.


(nella foto: una delle splendide cinquantenni americane di cui è ricca Cuba, ritratta in una viuzza di Trinidad. Niente a che vedere con l'auto che c'è toccata a nolo)

09 settembre 2006

9 agosto 2006 - L’Avana-Neapolis


L’Avana sembra Napoli. Una Napoli pre-bassoliniana, magari. Con i palazzi cadenti della Habana Vieja a far pendant a quelli dei Quartieri spagnoli. La stessa biancheria stesa ai balconi, le stesse facce, o quasi, a sorridere dietro le finestre, lo stesso grigio topo a ricoprire della patina del tempo ogni pietra, ogni inferriata, ogni infisso. La somiglianza è più evidente se si riesce a vedere L’Avana in bianco e nero, cancellando la pletora di colori pastello che dilaga come una muffa su quanto è già stato restaurato.
Tra dieci anni, probabilmente, tutto questo non ci sarà più: la Habana Vieja si sarà trasformata in una cartolina, con facciate verde acqua, giallo sole o rosa confetto e la consueta sfilata di ristorantini, gallerie d’arte, baretti, alberghi, boutique, ri-gallerie, ri-ristorantini, ri-baretti, ri-boutique e ri-alberghi. Bella senz’anima com’è, ora, il Pelourinho a Bahia. Per il momento è in fase di transizione, bellissima e bruttissima insieme. Ancora non operata, dunque ancora viva.
Secondo la Lonely Planet, del resto, la Habana Vieja è la città coloniale “più bella d’America”. Perciò probabilmente del mondo, penso io.


(nella foto: l'ultimo palazzo non restaurato della plaza Vieja all'Avana)

08 settembre 2006

MIRACOLO CUBANO

Io vi racconto lo squallore


Madrid-La Habana. A bordo dell’aereo, a parte i normali vacanzieri in coppia o doppia coppia, ci sono i gruppi di vitelloni sfigati, i single improponibili, i branchi di ragazzotti burini. Non credo di sbagliarmi se penso che siano tutti in cerca di figa facile. E docile. Almeno in apparenza. Dovrebbero farmi ribrezzo, suppongo. Ma, non so perché, mi fanno soprattutto pena.
Visto il panorama di cui ho goduto finora, comunque, mi attendo di trovare all’aeroporto dell'Avana branchi di jineteras e jineteros all’assalto del turista. È quello che mi hanno raccontato. Più fonti e più voci: “guarda, è incredibile. Quando i grulli partono le ragazze vanno ad accompagnarli all'aeroporto. E piangono. Poi passano in bagno a rifarsi il trucco e si presentano agli arrivi. Pronte per i nuovi venuti”. Oppure: “ti giuro, non ci si può credere. Hai presente le jineteras? No? Beh, non ti preoccupare: le prime le troverai, a mazzi, già all'aeroporto”. Qualcosa, nel frattempo, deve essere cambiato. O, magari, Pinocchietto e io siamo sbarcati il giorno del santo patrono degli jineteros. Resta il fatto che all'aeroporto dell’Avana di questa presunta folla al nostro arrivo, l’8 agosto 2006, non c’è traccia.
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