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24 gennaio 2008

4 agosto - Tingri-Shigatse - Com'è bella la città

“Day 3 - Tingri/ Lhatse- Xigatse (3900 m): 224 km - Programma massimo. Ecco il giorno del nostro scontento. La notte del nostro scontento, invece, è quella appena trascorsa. O no? Continue scenic drive crossing over Gyatchu La (5220 m), the highest pass en route to Lhasa via Lhatse from where a road to Mt. Kailash bifurcates to the west. Overnight at hotel”.
Qui comincia l’avventura. La notte è, bene o male, anzi più male che bene, trascorsa. Geneviève è stata malissimo: brividi, probabilmente febbre, e vomito. Carlito sta appena un po’ meglio ma per ora sembra resistere. Frédéric e io non abbiamo niente di che ma abbiamo dormito a intermittenza. Di fatto molti hanno sofferto, come minimo, un mal di testa bestiale.
Il programma prevede colazione alle 6.30 e partenza alle 7, visto che abbiamo un mucchio di strada davanti a noi. Purtroppo, però, noi quattro abbiamo cominciato a dormire sul serio soltanto al mattino e alle 7 passiamo bruscamente dal sonno alla veglia. Poco tempo per una toilette davvero sommaria e per mettere via i sacchi a pelo e i pochi altri oggetti che abbiamo tirato fuori dai bagagli. Poi si torna a bordo.
La guida, oggi, vorrebbe sistemare due persone davanti, all’occorrenza la coreana e me, ma l’autista, molto più saggio del nostro accompagnatore, si rifiuta. Il risultato è che la guida finisce per spostare la coreana su un’altra jeep (quella di Geneviève, Frédéric, Michela e Bruno). Così, d’ora in poi, noi quattro italiani saremo gli unici ad avere il privilegio di viaggiare in tre sul sedile posteriore e in due, autista compreso, su quello anteriore. Gigi dice che probabilmente abbiamo avuto questa concessione perché siamo gli unici che hanno protestato. In effetti, scopriremo poi, la supposta guida funziona proprio così.
Partiamo a stomaco vuoto per fare sosta quasi immediatamente di fronte a una montagna, quasi completamente nascosta dalle nuvole, che l’imbecille che ci accompagna pretende sia l’Everest. In effetti, ieri, all’ultimo stop, ci aveva assicurato che al mattino avremmo potuto contemplare sua altezza addirittura “from your window”. Peccato che tutti noi avessimo soltanto una modesta finestra sul cortile.
La fermata, opportuna così così, ci avvicina ulteriormente ad Antonio, un andaluso di Granada, che è una furia di simpatia. I primi contatti sono avvenuti ieri sera quando mi si è avvicinato nel cortile per informarmi che “la vera avventura, qui, è andare alle toilettes”. Poi ci siamo ritrovati a cena nel ristorante (?) tibetano dell’albergo, uno di quei posti che ripropone l’eterna domanda che già ci inseguiva cinque anni fa in Mustang: ma perché sono così zozzi? Pazienza non ci fosse l’acqua ma qui ce n’è ovunque, perché non si lavano? Né lavano le loro tende, i tavoli, i pavimenti. Nulla. Anyway, Antonio ha cominciato a farci scompisciare dalle risa ieri sera e continuerà per tutto il tempo che passeremo insieme.
Dopo i ridicoli tentativi di fotografare un monte che non si vede, prendiamo nuovamente il via. Fino a Lhatse la strada non è un granché ma è più che praticabile. Alessandra sta male e, a un certo punto, fa fermare la macchina. Si sale, si sale e si sale, sta male anche Carlito. Poi si sale ancora, fino a un passo da 5220 metri.
Quando ci fermiamo per il pranzo, la troupe è decimata: Frédéric è un cencio sbattuto (ma per fortuna Geneviève è quasi tornata alla normalità), Carlito ha una faccia che fa spavento, molti non scendono neppure dalla jeep e quasi tutti, me compresa, ordinano solo riso in bianco. L’unico che mangia con un appetito da leone è Dave, il newyorchese che vive in Florida; non si sa come a lui l’altitudine gli fa un baffo (ma si scoprirà poi che Dave, qualche giorno fa, era al campo base dell’Everest, dunque è chiaro che gli eventuali problemi li ha superati da un pezzo).
Riprendiamo il cammino e la strada è sempre una merda. La ragione per cui percorriamo questa strada disastrosa è che i cinesi stanno costruendo e sistemando una nuova strada più o meno parallela a questa e i lavori creano un casino mostruoso. Arrivare a Shigatse è una pena, ma all’ingresso in città tutto cambia: le strade sono perfette e asfaltate. Passiamo accanto all’area storica, attorno al Tashihunpo Monastery (che visiteremo l’indomani) e troviamo Xigatse, la seconda città più grande del Tibet, gradevole se non bella. Peccato che le nostre jeep si dirigano verso la periferia e si fermino davanti a un hotel che la Lonely Planet stronca. Dico alla guida che non voglio dormire lì e Antonio rincara. Invece, siccome in albergo non c’è posto per tutti, noi siamo i primi a cui viene assegnata una camera.
Ho parlato troppo presto, non è poi così male: la doccia è ottima, le lenzuola e gli asciugamani puliti. Peccato per la moquette e per le testiere del letto che sembrano aver raccolto l’unto di generazioni di teste. Sapremo poi che il secondo albergo era molto, molto migliore, quasi di lusso per gli standard tibetani.
A cena fatichiamo a spiegare al taxista dove vogliamo andare: abbiamo scordato la prima regola fondamentale per chi viaggia in Cina, munirsi di indirizzo scritto in ideogrammi. Perciò ci ritroviamo prima in un altro albergo (il taxista ha capito che cercavamo un posto per dormire) e poi ancora in un hotel (Shigatsé Hotel) decisamente più chic, dove consumiamo una discreta cena a buffet per 50 Yuan (10 yuan = 1 € più o meno) insieme agli spagnoli e ai turkmeni.


(nella foto: uno dei fatali passi tra Tingri e Shigatse)


P.S. regalami qualche secondo qui

18 ottobre 2007

Pokhara, 19 agosto 2000

Aeroporti. Prima tappa, all’aero- porto di Jomsom, ore 7.55. Siamo qui dalle sei. Dunque sveglia alle cinque. Da appena un paio di minuti è suonata una sirena, salutata con entusiasmo da tutti i presenti. I magnifici otto sperano voglia dire che l’aereo (ma quale? sarà il nostro? ci sono almeno 40/50 persone che attendono e il nostro bimotore Cosmic Air carica al massimo 16 passeggeri) è in arrivo. Trasporti a parte, ora è evidente: l’avventura è finita. Già da ieri, forse: al nostro arrivo a Jomsom il Tilicho Hotel ci è sembrato una specie di 5 stelle. Un po’ perché abbiamo avuto vere camere a disposizione, un po’ perché siamo finalmente riusciti a lavarci i capelli e a fare una doccia calda. Molto perché il Royal Mustang di Muktinath, nel cui cortile avevamo piantato le tende la notte precedente, era tutto fuorché Royal. E ieri sera festa, ma già intrisa di malinconia: le canzoni, i tamburi, gli strumenti improvvisati e le danze.
Sono come in trance fino alla seconda tappa: aeroporto di Pokhara. Incredibile déjà-vu. Eppure, la prima volta che siamo passati di qui risale almeno a un secolo fa.
Da qualche istante appena abbiamo salutato i portatori: capocuoco e aiutocuoco; Kalu il bello; Passan il tenerissimo; Kumar, la sua ombra, e Santa, futuro aiuto-guida del grande fratello che in questo viaggio ci ha fatto da papà, mamma e capo, Nima-Dawa (un nome un programma. Nima-Dawa, infatti, in nepalese significa sole-luna o, anche, domenica-lunedì). È il primo addio e già mi si stringe il cuore.
Roberta, la pubblicitaria bergamasca, mi ha confessato che stanotte non riusciva a dormire dalla pena: già le manca il Mustang. Ma credo che nessuno di noi, malgrado le dichiarazioni dei grandissimi lavoratori, alias Emanuele e Carlito, abbia veramente voglia di partire. Per giunta, e per fortuna, Pokhara questa mattina ci ha portato con l’alba uno splendido dono: la collezione completa dei 7-8000 del complesso dell'Annapurna. Ultima immagine che toglie a tutti noi, almeno momentaneamente, la facoltà di parola. E tutto si mescola in un unico, confuso sentimento: silenzio e rispetto, lacrime e nostalgia. Credimi: meglio, molto meglio, calare il sipario.
Ehi, puoi riaprire gli occhi.


(nella foto: l'Annapurna, sontuoso sfondo al lago di Pokhara; www.pokharalodge.com)

17 ottobre 2007

Jomsom, 17 agosto 2000

Jomsom, lontana e sola. La discesa da Muktinath è cominciata tardi. Anzi, tardissimo, visti i ritmi che sono ormai un’abitudine per noi: alle 10 passate. Dopo, cioè, che abbiamo visitato quella specie di santuario, sacro agli induisti come ai buddisti, che sovrasta il villaggio e che fa di questo borgo semisperduto un’importantissima meta di pellegrinaggi. Ci sono persone che partono dall’India profonda, a piedi, naturalmente, per salire lassù a pregare. Terminato il doveroso giro dei gompa (i templi) si inizia a scendere dolcemente. Dopo una mezz’oretta di cammino ci imbattiamo, nell’ordine: 1. in una troupe cinematografica (o televisiva) di tedeschi, 2. in una comitiva di bergamaschi tra cui si cela il libraio di Roberta. I segni del nostro ritorno alla civiltà sono ormai tanto preoccupanti quanto evidenti. Ma proseguiamo, il cuore leggero.
A un certo punto del percorso, tra la via Emilia e il bar grossomodo, Francesca, Carlito e io siamo adottati da tre bambine. Impossibile per noi memorizzare i loro nomi. Quanto alle età che hanno dichiarato, in un inglese scheletrico, ci sembrano improbabili: 10, 12 e 13 anni. Sembrano molto, molto più giovani. Comunque è stato uno dei momenti più belli del viaggio. Quella che ha scelto di prendere per mano me è la piccola, una teppa superintelligente e simpaticissima. Ha cominciato a intendersi con Francesca a fonemi e dai “mamama”, “papapa” e “tatata” è nata una prima musica a sei, destinata a trasformarsi poi in vera e propria corale. Oltre al solito similinno nazionale nepalese, “Resham Phiriri”, siamo riusciti a esibirci in un “Fra’ martino” bilingue: “Cin cion bell, cin cion bell”.
Arrivati alla tappa intermedia, le bimbe si fermano a pranzare con la mamma e noi tre proseguiamo. Arranchiamo per arrivare a Kagbeni, ma il premio è dietro l’angolo: Jomsom è là, a portata di vista. Malediciamo il Khali Gandhaki, inguadabile perché ha troppa acqua e riaffrontiamo i saliscendi tra le rocce. A ogni altura, controlliamo. E Jomsom è sempre là, sempre alla stessa distanza, sempre lontana e sola.


(nella foto: l'immenso rullo di preghiera all'entrata del tempio di Muktinath. Contiene 100 milioni di mantra; www.muktinath.org)

16 ottobre 2007

Muktinath, 16 agosto 2000

Ahi ahi ahi. Nima ha confessato: da Chhucksang a Muktinath ci attende un percorso “un po’ duro”. E se Nima dice “un po’ duro” per me significa ai limiti dell’impossibile. Sono preoccupata, inutile nasconderlo, vorrei che Carlito restasse con me, mi accompagnasse durante la salita. Non che mi attenda aiuto, è solo che vorrei che fosse accanto a me. Un supporto psicologico e, al tempo stesso, l’occasione di vivere un momento insieme.
Fisime. Il Carlito ingrana la quarta e diventa un puntino dallo zaino rosso due o tre creste avanti a me. Sono furibonda, gliene voglio da morire ma, intanto, non ho il tempo di occuparmene. Posso solo digrignare i denti e guardare bene dove metto i piedi. Se non fossi così nera potrei anche accorgermi del fatto che intorno a me si dispiega, lì, proprio sotto e sopra la costa che sto percorrendo, un paesaggio fortissimo. Rocce e torrenti come al solito, ma di una tale prepotenza che ne hai quasi paura. Cammino, attenta a dove poso le zampe e penso che un mulo avrebbe parecchia difficoltà a percorrere questo sentiero. In molti punti c’è appena lo spazio per un piede; sotto: lo strapiombo. Continuo, un respiro dopo l’altro.
Scelgo di restare dietro Ambrogio. Mi dà la carica. E poi non sono sola. Perché questa gola, questa strada, queste pietre, questi monti e questo fiumiciattolo potrebbero cominciare a odiarmi. Come io, da qualche parte, li odio; anche se sono bellissimi. Vado e mi mordo dentro. Non è stanchezza, è rabbia. E il contorno è troppo crudo per lenirla. Ambrogio tace. Poi incontriamo Roberta, ferma ad assaporare il vuoto e il pieno che la circondano. Decide di proseguire con noi. A volte ci attende, a volte ci segue. Comunque è lì. E insieme, in tre, arriviamo all’alpeggio. Dove ci aspetta uno degli ultimi pranzi.
Doccia fredda. Carlito mi viene incontro con la macchina da presa; sarà che sono incazzata, sarà che ha un tono sarcastico-superiore, fatto sta che alla videodomanda: “ci dica, ci dica, come si sente?” rispondo con un bel dito medio teso. Creo tensione, ma non me ne importa.
Mangio un po’ in disparte, vicino a Roberta, e osservo il gran casino attorno a me: a qualche centinaio di metri dal passo si è concentrata una varietà faunistica straordinaria. Ci sono uomini e donne che vengono dalla festa di Muktinath, con muli, cavalli, bambini, capre e, udite udite, due yak. Uno schianto: pelosi pelosi, con quel muso lungo, le cornone. Il sorriso si spegne: qualcuno ci spiega che vanno al macello.
Finisco di mangiare. Ambrogio è già pronto a ripartire. Così il gruppo degli atleti si mette in movimento. Carlito neppure mi saluta. Roberta mi chiede di aspettarla: vuole riposare ancora un attimo; che donna: mi fa regali su regali, oggi.
Quando decidiamo di riprendere il cammino abbiamo una piacevole sorpresa: il passo è vicinissimo. Ancora pochi metri di fatica e poi sarà tutta una scivolata a valle. L’ottimismo ritorna sulle nostre facce e ci sembra di raggiungere Muktinath in un attimo.
All’arrivo ci sono birra, tavoli sporchi e una specie di catapecchia in costruzione che pretenderà di qui a qualche mese di chiamarsi albergo. Siamo usciti dall’alto Mustang e si vede: una miriade di lodge, di ristorantini, campi da pallavolo, turisti. È il primo distacco anche se, forse, ancora non lo abbiamo realizzato. Del resto, la civiltà ha i suoi vantaggi: almeno venti pannelli annunciano doccia calda in venti posti diversi, compresa la nostra baracca appoggio.
Da noi, però, neanche a parlarne. La padrona trattiene a stento una risata all’ingenua domanda delle quattro coglione occidentali. Comunque non c’è modo, neppure facendo bollire l’acqua. Così, spinte dal desiderio di toglierci di dosso almeno un poco di polvere, Francesca, le due Roberte e io, ci armiamo di saponi e asciugamani e uno dopo l’altro, li facciamo tutti. Non c’è pannello che ci sfugga, anfratto, per quanto buio, che si sottragga alla nostra inchiesta. L’acqua calda è un acchiappacoglioni, non ce n’è l'ombra; e, nel frattempo, sono calati la sera e il freddo e lavarsi alla fontana gelata ci sembra un’ingiusta punizione.


(nella foto: Chumig Gyatsa a Muktinath, foto di David L. Snellgrove presa nel 1956 e pubblicata nel libro "Himalayan Pilgrimage", Shambhala Publishers, Boston, 1989 (ormai esaurito; www.muktinath.org/album/muktinath_site).

15 ottobre 2007

Ibidem, idem, più tardi

Doccia a secchiate. Una fetta di paradiso. A Ghemi abbiamo vere stanze, affacciate sul grande terrazzo di una casa-albergo con monaco incluso. Peccato non avere bagagli. Almeno per ora. I cuochi preparano comunque il tè delle cinque e mentre ci scottiamo la lingua, annunciati da un campanellino che sembra musica d’Eden, arrivano i muli. Così parte la corsa al lavaggio: i nostri eroi, nessuno escluso, si danno al bucato e ottengono un paio di secchi d’acqua calda a testa per la più bella doccia della vacanza. Poi mutande e capelli restano ad asciugarsi al sole calante. Fino a quando non partono i cimbali del monastero accanto e non scende la sera.


(nella foto: i buchi-caverne dove vivevano un tempo gli abitanti dell'Alto Mustang. www.historum.com)

12 ottobre 2007

Ghemi, 13 agosto 2000

Ma dove vai se un mulo non ce l’hai? Siamo sempre a Lo Ghekar, posto strano ma denso di emozioni. Così accade che, all’alba, Kumar e Passan (gli omini del tè, te li ricordi?) appaiano pervasi da una strana inquietudine. Portano le tazze, la bevanda calda e, poco dopo, l’acqua per le abluzioni, ma qualcosa non gira. È lampante. In effetti, se non fossimo perdutamente addormentati (e ne abbiamo qualche ragione visto che ancora non sono le sei e mezzo), ci accorgeremmo subito dell’assenza. Invece niente. Manco un plissé. Devono dircelo perché ce ne rendiamo coscienti: i muli sono scomparsi. Non so bene chi racconta la storia a Carlo (l’architetto, non il mio): Ganesh e Kalu, responsabili delle some, la scorsa notte hanno deciso di darsi alla bella vita. Così sono andati, con un paio di ragazze, a Marang (il buco del culo del Nepal, per intenderci). Non so cosa ci abbiano trovato, fatto sta che ci sono restati a lungo. Morale: al loro ritorno dei muli non restava neppure l’ombra (anche perché era notte fonda). E pure perché in Nepal non si usa legare le bestie: restano libere come quest’aria purissima.
Nima l’infallibile, svegliato dai due dongiovanni, non ha dubbi e alle tre del mattino fa ripartire i due lungo sentieri opposti alla ricerca degli animali. Alle sei e trenta nessuna nuova. Né Ganesh, né Kalu (il bellissimo), né, tantomeno, i muli. Partiamo comunque. Senza sapere se tende, sacchi a pelo e zaini ci raggiungeranno mai. Ci avviamo all’ennesimo tempio (uno dei pochi che valgano davvero la visita, è del VII secolo e ha dipinti antichi fatti direttamente sulla roccia) ignari di quanto ci riserverà il futuro. Poi, ripartiamo alla volta di Ghemi, dove dormiremo. Muli permettendo. Attraversiamo Dakmar e i suoi dintorni. Forse il luogo più bello che ci sia dato di vedere durante il trekking. Paesaggi da Gran canyon, coste arancioni e carminio e concrezioni a canne d’organo in tutte le sfumature dell’argilla. E, dentro, sempre, quel flauto che suona melodie d'infinito.


(nella foto: Dakmar. www.earthboundexp.com/media/images/Mustang/Dakcliff.jpg)

11 ottobre 2007

Ibidem, idem

Di nuovo a Lo Ghekar. Fa quasi freddo ed è quasi sera. Sul recinto di pietre che circonda quella specie di stalla più aia nella quale sono montate le tende si è installata una capretta; è così carina, bianca e nera, con un musetto così dolce che nessuno, nemmeno la più cruda Roberta, l’imprenditrice, le resiste. Lentamente ci avviciniamo e, incredibile, quella non scappa. L’arcano si svela subito dopo: è legata. A questo punto avrai capito come finisce la storia. Non sapevo se risparmiartela.
Però all’inizio non ci credo. Penso mi prendano in giro. No, davvero, non può essere la nostra cena. Poi vedo il cuoco che affila il coltello (ma non erano quasi tutti buddisti? mah). Pietismo ipocrita, il mio come quello di qualche altro; sgozzata in diretta (nascosta alla nostra vista, per fortuna, ma pur sempre a pochi passi da noi) o no, la capretta, a sera, ce la siamo mangiata (tranne Francesca, che è vegetariana) e anche con sommo gusto. Poi Mustang café a go-go, con il “professore” ubriaco che si esibisce sulla musica di percussioni e fiati, suonati dai portatori, come una danzatrice del ventre.
Finale in coro: Nepal e Italia uniti in un unico inno, la canzone più popolare del paese, “Resham Phiriri”. E, malgrado il sacrificio dell’innocente, quella notte tutti noi, italiani e nepalesi confusi, abbiamo dormito come bébé. Quasi il nostro fosse il sonno dei giusti.


(nella foto: una capretta tibetana, www.inseparabile.com/capretta_tibetana.htm)

10 ottobre 2007

Lo-Ghekar, 12 agosto 2000

Sulla via del ritorno. Per una volta abbiamo deciso di prendercela comoda. Non so più di chi sia stata l’idea. Forse della ancora febbricitante Roberta o forse mia. Comunque la giornata prevede il solito trekking ma, stavolta, a dorso di cavallo. Solo per questa tappa.
Anche perché Emanuele già declina l’offerta per problemi di schiena e, quando vede i cavalli, il patriarca Ambrogio (nostra eminente guida italiana, un sessantunenne che ricorda, non molto da lontano, Sean Connery) non è più tanto sicuro di salire a bordo; in effetti vista l’altezza sua (un metro e novanta) e quella dei veicoli (un metro al garrese?) è facile immaginare le lunghe gambe dell’Ambroeus che strisciano sulle pietre. In ogni caso finiamo per partire e attraversare l’unica vera prateria del Mustang. Destinazione: il passo di Marang La a 4300 metri e il villaggio di Lo-Ghekar, dove passeremo la prossima notte.
Nima, a piedi, va più veloce dei cavalli, tanto più che quando davvero la strada si fa brutta, siamo tutti costretti a scendere di groppa e a condurre per fune i nostri Ronzinanti per una stretta sassaia ripida sulla quale tentiamo a turno di franare a valle. In sintesi: raggiungiamo prestissimo la nostra meta; perciò, nel pomeriggio, decidiamo di fare una passeggiata fino a un paese a un’ora/un’ora e mezzo di strada: Marang. Scopriamo così l’immancabile buco del culo del Nepal o, almeno, del Mustang, un concentrato di tutte le sfighe che possono colpire il genere umano. Ovvero tutto quello che finora ci era stato risparmiato; immersione nella vita vera o depressione?
Marang è un paese come un altro, all’apparenza. Zozzo perso come tutti i centri abitati e gli abitanti del Mustang: incrostato, pieno di cacca e, a questo punto ovviamente, puzzolente. Forse in dimensione un pochino ridotta. Perché è percorso da sentieri più che da strade. Così stretti che non solo un obeso rimarrebbe perennemente incastrato fino all’agognato dimagrimento, ma tali da costringere due persone normali, o anche minuscole come sono in genere questi tibeto-nepalesi, a procedere all’egiziana quando si incrociano. Ovvero a superarsi l’un l’altra mettendosi di profilo.
Muri bassi che danno su campi appena coltivati: il cibo della povertà, quindi prevalentemente patate. Finché si arriva alla piazza o, meglio, a uno slargo dove, attorno a questi stupidi sei occidentali in cerca di brividi da finto primitivo, si concentrano una ventina di ragazzini di età variabile dai due ai tredici anni. Per la prima volta scopriamo che anche nell’alto Mustang esistono le tare. Di quelle gravi, come nel caso di quel bambino, tra il down e il chissà chi, la cui testa ciondola dalle spalle, quanto mai curve, di quello che sembra essere lo scemo del villaggio. E di quelle piccine, come i denti storti, ma storti da far paura, deformi. Lo strano è che finora avevamo stupidamente ignorato l’argomento, pensando forse che in Nepal i menomati li facessero fuori, visto che non c’era stato dato di vederli. Invece, a quanto pare, li hanno inviati tutti qui. Tanto ci si arriva solo a piedi. E avevamo pure immaginato che, d’altra parte, in questo paese a ridosso dell’Himalaya, tutti, nessuno escluso, potessero vantare dentature perfette. Ti giuro: i denti più belli che mi sia mai capitato di incontrare.
Invece Marang stona. Come un punteruolo su una lavagna.
Siamo così codardi che nessuno commenta. Ma non possiamo fare a meno di notare che c’è un uomo pulito e grassottello in mezzo a questa miseria: il monaco.


(la foto non c'entra, tanto più che a Lo Manthang, dove apparentemente è stata fatta, non ho visto niente di simile. Però mi piaceva: ringrazio www.tsechhen.org.np)

09 ottobre 2007

Ibidem, idem - Festa di piazza

A furia di inseguire capre per i vicoli di Lo Manthang, Francesca e io abbiamo capito una cosa: qualunque giro tu faccia ti ritrovi sempre nello stesso punto. A meno, naturalmente, che tu non esca dalle mura e riprenda il cammino. Così, continuando a ripercorrere i nostri passi, finiamo per ritrovare la piazza, inizio e fine di tutti i nostri vagabondaggi. È piena zeppa di lomanthanghesi: uomini da una parte, donne dall’altra, della strada. In un angolo è seduta bellaragazza, che saluta, sorride e torna a puntare il viso verso tre musicisti che noi scorgiamo solo in quel preciso istante. Hai presente i dervisci danzanti? bene, prendine tre con cappellino e tutto, sostituisci la gonna svasata con un paio di amplissimi pantaloni un po’ califfi, piazzagli in mano un paio di percussioni e qualche fiato primitivo e immaginali in una strada polverosa circondata da basse case che un tempo sono state bianche. Non proprio al centro, ma un po’ spostati verso il fondale di una bottega e leggermente sulla destra. Voilà lo spettacolo.
I musicisti ballerini si guardano l’un l’altro e girano lentamente a ritmo attorno ai loro strumenti senza mai spezzare il triangolo. L’arrivo di un quarto suonatore, forse in ritardo, produce un leggero trambusto ma non c’è tempo di badargli perché, proprio allora, irrompe sulla scena il bullo del paese a bordo dell’unica, lucidissima moto di tutto l’alto Mustang (è arrivata dalla Cina perché dal sud, da dove proveniamo noi, si arriva solo a piedi, d’uomo, di mulo o di cavallo che siano, mentre si favoleggia che la strada che viene dal Tibet sia, al limite, percorribile anche da qualche mezzo meccanico). Il suono stonato funziona da incantatore di serpenti e tutti i pargoli e le fanciulle (compresa la nostra bellaragazza) si gettano in un gran vociare all’inseguimento dell’imbecille su due ruote.
E la festa è finita.


(la foto: www.dongurewitzphotography.com)

04 ottobre 2007

Ibidem, idem - Burro di nak

Questa giornata di riposo a Lo Manthang è una manna. Non tanto per piedi, caviglie, polpacci, cosce, adduttori e altri muscoli vari che, nel mio caso, sembrano stare inspiegabilmente benissimo, quanto perché ci permette di girare a casaccio in un villaggio (d’accordo è la capitale del Mustang, ma in realtà invece che quattro saranno quindici case e altrettante stalle) come in una vera vacanza. Cioè di avere un sacco di tempo davanti senza l'obbligo di far niente (non è che camminare sia un obbligo, è un piacere, però se non marci non arrivi, quindi non è che tu possa proprio scegliere).
Carlito, Francesca, Roberta la febbricitante e io percorriamo le strade a circuito mettendo il naso ovunque ci sia una porta aperta. Poi seguiamo una bizzarra indicazione verso un negozio di artigianato sperso in un groviglio di vicoli e finiamo per bussare a una casa. Alla finestra la bella ragazza che ci serve a tavola (la figlia del nostro ospite o di un altro notabile del luogo, non ho capito bene alla fine). Ci vede, ci riconosce, ci sorride scoprendo le labbra su denti bianchissimi e perfetti e ci fa entrare. Pare sia la casa di sua cugina, che, come tutti qui, incidentalmente vende collane e statuine, amuleti e coppette. Niente di interessante. Però la bella ragazza ci piace. Parla un inglese piccolo piccolo, ma è intelligente e sa farsi capire. È analfabeta ma (a dispetto di quello che ci ha appena detto il re) spiega che per le ragazze è normale anche oggi: le bimbe non mettono piede nelle aule (anche se il sovrano sostiene che qui tutti vanno a scuola, ma forse parlava solo per i maschietti). Niente di nuovo sotto il sole.
Ancora, racconta che ha 25 anni ma non è sposata perché “i locali non le piacciono”. Come darle torto? le tibetane a volte sono bellissime, ma gli uomini hanno davvero poco dell'Adone. Ride, è contenta della nostra attenzione, e vuole mostrarci il suo piccolo tesoro; così va a prendere un libro fotografico sul Mustang scritto da un tedesco di un’avvenenza rara. E, perché possiamo meglio apprezzare il volume, ci invita nella sala, dove ci sono la cugina, con il figlio poppante in braccio, e la migliore amica di bellaragazza (non mi riesce di ricordarne il nome): hanno in progetto un girls party per la serata e sono già supereccitate.
Le quattro scimmiette occidentali si siedono così a sfogliare il prezioso cimelio e le leggi dell’ospitalità impongono alle tre donne indigene di offrire il temibile tè locale, già zuccherato e, soprattutto, completato con il burro di nak. È una bevanda quasi mitica, di cui parlano tutti quelli che hanno visitato il Tibet e che ha fama di essere simile a una sorta di brodo e, per di più, di avere un sapore terribile.
Carlito affronta la sua tazza con indomito coraggio mentre le due ragazze e io la guardiamo a lungo con diffidenza. Infine intingo appena e mi dico che ce la si può fare. Poi arriva il colpo gobbo: ci propongono un dolcetto (o forse è un salatino, che ne so?, è una specie di nodo di pasta fritto, dall’apparenza innocua). Infrangendo consapevolmente tutte le norme del galateo internazionale tento di rifiutare, forse colpita da una sorta di preveggenza improvvisa. Rischio l’incidente diplomatico, così indietreggio come di fronte al re e finisco col brandire il misterioso stuzzichino.
Sorrido e lo addento; fatico a trattenere un conato, tanto inatteso quanto immediato. Per riprendermi allungo le labbra verso il tè al burro; un nuovo conato mi fa impallidire. Poso tutto sul tavolino e cerco di respirare profondamente. Carlito ha finito di bere ed è pronto per la seconda razione, mentre le ragazze non hanno neppure il coraggio di guardare il liquido beigiolino che sciacquetta davanti a loro né di affrontare il feroce salatino.
Sono affranta: è, ti giuro, la prima volta che mi capita una cosa del genere. Credevo di aver bevuto di tutto, ovunque. Pozioni che non avevo idea da dove venissero e dove andassero, in recipienti risciacquati alla bell’e meglio in fiumi putridi o in acque stagnanti; rischiando forse la salmonella ma mai la maleducazione. Fino a quando ho dovuto lottare con il burro di nak e, come avrai capito, ha vinto lui.


(nella foto: uno yak in Tibet)

03 ottobre 2007

Ibidem, idem

Ancora Lo Manthang. Nima è in fibrillazione da almeno un paio d’ore. Tutto perché alle quattro e mezzo abbiamo appuntamento con il re. Inteso come il re del Mustang, cioè l’unico tra i sette-otto sovrani del Nepal di un tempo, che ha mantenuto il titolo. A parte, naturalmente, quello vero che regna su tutto il paese e se ne sta in quel di Kathmandu. Comunque, questo re qui è una sorta di governatore, ma ciò non toglie che ci sia un preciso protocollo da rispettare in sua presenza. Anche se si paga un biglietto, le solite 100 rupie, per avere udienza. Sia come sia, Nima è irriconoscibile: sarà la millesima volta che ci spiega come presentare al monarca la sciarpa di seta bianca che ciascuno di noi è tenuto a offrirgli e come indietreggiare rinculando davanti a lui.
Alle quattro e venti esplode il panico: Nima non ci trova; o, meglio, non trova me e altre due ragazze, che stiamo bellamente acquistando cartoline e cianfrusaglie proprio nel negozio davanti alla reggia. Ma i nostri uomini ci beccano e, in parte, si scopre la ragione di tanta agitazione da parte della nostra guida: si è sbagliato nello spiegarci il protocollo. Inezie, ma forse non per lui. Tocca perciò al nipote del re, che, tra l’altro, è anche il nostro ospite, farci un rapido riassunto sul comportamento da tenere, mentre già scaliamo i gradini del palazzo reale. Nota bene che tutto questo suona un po’ ridicolo visto che stiamo recandoci all’udienza in calzoncini corti (non io, ma la maggioranza) e sandali da trekking, ma ogni popolo ha le sue usanze.
Superato, bene o male, il dramma della presentazione delle sciarpe, del saluto (bisogna dire “tashi delek”, ovvero l’equivalente tibetano del nepalese “namaste”, qualcosa tipo “saluto il dio che c'è in te”) e del rinculo (anche se quasi tutti finiscono per voltare le spalle al re o, almeno, di sicuro è quanto accade a Carlito ed Emanuele), scopriamo che sua altezza non è altro che un barbogio 75enne poco disponibile al dialogo e annoiatissimo dalla nostra compagnia. Malgrado questo tiriamo un quarto d’ora di conversazione, compreso l’assaggio del tè che ci viene offerto, prima di telare e tornare a una vita priva di protocollo.


(nella foto: il re del Mustang, www.edelweisstreks.com)

02 ottobre 2007

Ibidem, 11 agosto 2000

Lo Manthang. Siamo alloggiati proprio davanti al palazzo reale, anche se continuiamo a dormire in tenda. E abbiamo constatato soltanto ieri sera che basso prezzo possa avere la felicità: quello di una doccia calda, abbondante, vera. Un piacere così intenso che sembra averci lavato e pulito anche l’anima. Così al mattino ripartiamo di buona lena, con camicie e calzoni di bucato (fatto alla bell’e meglio, a una fontana) e capelli che profumano di shampoo e balsamo.
Ci conquistiamo a fatica il monastero di Vattelapesca, oltre il fiume proibito. Il chiostro pseudo-messicano ocra e mattone - con le finestre e le porte circondate di blu e illuminate da cubi bianchi, intervallate da sprazzi turchesi, rossi e verdi - ne valeva la pena, mentre l’interno del monastero è pressoché uguale a tutti quelli, e sono ormai decine, che abbiamo visitato finora. Però qui c’è un unico monaco, orbo da un occhio, che non ha neppure i biglietti d’ingresso ma esige comunque il pagamento di una tariffa di 100 rupie per lasciarci entrare. Seconda variante: per conquistarci il diritto di raggiungere il monastero oltreconfine il nostro “professore” (l’ufficiale di controllo che per legge deve accompagnarci durante tutto il viaggio e che nel nostro caso si rivela essere, invece che una spia al servizio del governo, un povero diavolo davvero di buon cuore) ha lasciato mezza coscia nelle fauci di un mastino tibetano di proprietà del locale commissariato. Terza variante: per varcare la frontiera proibita dobbiamo essere scortati, a pagamento si intende, da un poliziotto scemo che neppure conosce la strada e ci fa semiscalare un dirupo. Quasi a rischio penne. Con il mio solito tempismo e buon carattere, lo insulto in inglese e in italiano ma Nima e “herr professor”, per quanto infortunato, intervengono a calmare le acque.


(nella foto: mulini di preghiera, www.gcbs-japan.com)

01 ottobre 2007

Lo Manthang, 10 agosto 2000

Ultima tappa dell'andata: da Tsarang a Lo Manthang, mitica capitale del Mustang e confine estremo al di là del quale il nostro visto non vale più. Giornata nervosa: ho insultato Carlito davanti a tutti e poi sono stata io a piangere, rimuginare e soffrire. Forse il problema sta altrove: da quanti giorni non facciamo l’amore? da quanto tempo non abbiamo un secondo per noi, a parte le notti in tenda, poco intime e, soprattutto, riempite solo di sonno?
Camminare serve anche a sfoltire i pensieri e poi, da qualche minuto, accanto a me c’è Francesca, solidale e affettuosa, nel suo modo burbero da lombardo-piemontese. E pure il Mustang mi aiuta. Con un nuovo regalo. Francesca e io abbiamo appena superato il passo di Lo e siamo nel canalone che conduce alla capitale. Siamo in silenzio e, d’un tratto, la nostra curiosità viene attirata da un rumore sordo di fonte imprecisa; non so bene perché, puntiamo entrambe gli occhi in alto. Sopra di noi volano due aquile, che sbattono le ali e producono una sorta di sciabordio da vela nel vento. Sembrano lì per noi, tanto che ripetono più volte il loro numero a nostro uso e consumo. Le lacrime bussano alle ciglia, mentre i due rapaci si lasciano planare lontano, dietro una collina. Poi ecco ancora un’aquila-aliante tornare sopra di noi e scomparire di nuovo dal lato opposto. Facciamo fatica ad abbassare il volto; poi ricominciamo piano la discesa, senza fiato e senza parole.


(nella foto: la copertina di una videocassetta dedicata a Lo Manthang, www.himalayafilmfestival.nl)

28 settembre 2007

Ibidem, idem


E un’altra volta è notte. Io, a differenza di Guccini, non suono neppure. In ogni caso ho una certezza: le mestruazioni o non mi sono mai arrivate o mi sono già sparite. Sospetto allucinazioni da altitudine.
Per questa quarta serata in trekking, comunque, siamo ospiti in una casa tibetana, dove vive una signora con svariati figli e cinque mariti (ma pare non siano mai presenti tutti insieme). Dal punto di vista di noi otto occidentali, il pernottamento in una casa privata è un modo come un altro per entrare davvero in contatto con le genti di questi monti. Leggi: dormiamo in sei in un’unica stanza-soggiorno su panche di cemento che sbucano dalle pareti (gli altri due hanno diritto a una camera più intima ma sembra che sia l’affumicatoio, perciò non riescono a rallegrarsene più che tanto). Dunque formazione a quadrato, a scelta tra il testa-piedi, il testa-testa e il piedi-piedi.
Ad ammorbidire il duro giaciglio gli stessi materassini che abbiamo già adoperato nelle tende e il nostro sacco a pelo personale. Mi domando a che pro Carlito e io abbiamo acquistato due sacchi accoppiabili, per crearne uno unico e grande, matrimoniale, visto che qui ci si corica in fila indiana. Transeat.
Già mi sono scordata dell’ultima doccia, ma qui pare sia impossibile: chi ha visitato il bagno sconsiglia una seduta superiore ai 10 secondi. In effetti, quando verrà il mio turno farò in modo di mettercene anche meno. Ri-transeat.
Però abbiamo non uno, ma due tavoli, su cui: a) consumiamo il cibo preparato per il tea-time, b) intavoliamo un’interminabile partita di Perudo, c) ceniamo. Bevendo birra. d) veniamo iniziati al Mustang café, una bevanda, che ha allietato la maggior parte delle nostre serate, a base, prevedibile, di caffè e di una specie di rhum prodotto in loco che definire disgustoso è dir poco. Lo scoliamo comunque, malgrado il sospetto che contenga anche il famigerato burro di nak, la femmina dello yak. Resta il fatto che, che tu ci abbia fatto caso o no, c’è un unico liquido realmente introvabile da queste parti: l’acqua potabile. E che Roberta ha ancora la febbre.


(nella foto: un chorten, tempietto diciamo, all'entrata di Tsarang; http://myhimalayas.com)

27 settembre 2007

Tsarang, 9 agosto 2000

«Dicono che se si riuscisse a viaggiare alla velocità della luce, non si invecchierebbe. Si resterebbe uguali a se stessi, mentre l’universo fugge verso il passato. Forse è per questo che viaggiamo». Così Carlos Franz, in “Dove una volta c’era il Paradiso”. Sembrava una frase bellissima. Eppure, ora, c’è qualcosa che mi stona. Non ho mai fatto un viaggio più bello di questo, a piedi, perciò vicino alla minima velocità possibile. Camminare è uno strano sport: invece di farti assaporare più lentamente, dunque con il giusto ritmo, quello che ti passa attorno, ti costringe a un rapporto più stretto con le tue emozioni. Così finisce per diventare un acceleratore di sensazioni. Come se i profumi diventassero più profumati, le felicità più felici e i dolori più dolorosi.
A proposito di dolori, l’influenza di Roberta, il mal di montagna dell’altra Roberta, le scottature e i disturbi intestinali di Emanuele e di Carlo (il bell’architetto) non accennano a migliorare. Così, sulla strada per Tsarang, facciamo una sosta all’ospedale giapponese di Ghemi, attivo da circa un anno. È un edificio carinissimo, un po’ sperso in un’area quasi desertica, se non fosse per il muro mani più lungo del Nepal che comincia poco prima dell’ingresso. Le pareti a calce sembrano quasi urlare “che ci faccio qui?” e il giardino centrale, con le aiuole a disegni e scritte pare uno scherzo della natura. Però i medici ci sono e visitano, uno dopo l’altro, attentamente, i nostri malatini, prescrivendo cure e vendendo loro stessi i medicinali del caso.
Finito il check-up si riprende, costeggiando il muro mani sulla sinistra come s’ha da fare, per una delle passeggiate meno faticose e più lunghe dell’intero trekking. Il deserto tra Ghemi e Tsarang pare non abbia mai fine, se non quando il sentiero comincia a inerpicarsi e, dall’alto dell’ennesimo valico, si scorge la terra promessa: orti, mura, abitazioni e onde rosa di grano saraceno. Ha inizio l’interminabile discesa alla città, irraggiungibile come un miraggio.


(nella foto: onde rosa di grano saraceno, www.nepalhiking.com)

26 settembre 2007

Ibidem, idem, un po’ più tardi

Mal di montagna. Questa stanza è un concentrato di polvere: cade sul tavolo proprio mentre ci stiamo preparando la cioccolata; ha trasformato i cuscini nella versione maxi di un cancellino; ha invaso i muri tanto che è ormai una cosa sola con la calce e la tintura. È opprimente. Così, dopo due sorsi e un biscotto, a turno schizziamo fuori. Programmo l’ammutinamento e con Carlo (non Carlito, proprio Carlo, architetto 33enne di bell’aspetto con due occhi da svenimento) lancio il referendum per l’abrogazione della sala da pranzo. Ovvero: siamo in campeggio, che si mangi in tenda. Roberta, l'imprenditrice non l’advertiser (sì, proprio così, su otto persone ci sono due Carli e due Roberte), non partecipa alle votazioni perché è stesa inerte sul sacco a pelo. Per il resto la proposta degli ammutinati raccoglie l’unanimità e i nostri portatori-guide-angeli custodi montano la tenda living-room, con Carlo e me, improvvisamente catturati dai sensi di colpa, che facciamo patetici tentativi di aiutarli. Intanto scende la sera e il freddo: siamo tutti bardati come Bibendum della Michelin, strati e strati di pile e lane e piume.
Un giro di carte prima di cena ci fornisce la scusa per riunirci tutti insieme sotto la tendarefettorio e sprigionare un po’ di calore. Ultime notizie dalla tendadormitorio dell’angolo: Roberta sta male. Ha la nausea, mal di testa, forse la febbre, capogiri e non so che altro. Nima diagnostica con sicurezza: mal di montagna. E comincia a impartire a Emanuele, avvocato e fidanzato dell’imprenditora, le istruzioni per la cura. Intanto scuote la testa: «Sorella Roberta è troppo impaziente. Sorella Roberta cammina troppo troppo fretta». Poi, perentoriamente richiamato dal suo senso del dovere alla nuova missione di infermiere aggiunge: «Emanuele, siamo andiamo». E per la seconda sera siamo soltanto in sette a dividere la cena.


(nella foto: il percorso nell'Alto Mustang, www.visit-nepal.com/lomangthang/Lomangthang-map-1.jpg)

25 settembre 2007

Tamagaon, 8 agosto 2000

Il terzo giorno. È una specie di mistica del trekking: il terzo giorno è il peggiore. Lo dice la cartina, perché è l’unico giorno in cui dobbiamo sormontare quattro passi, in un saliscendi che così penoso non è ancora stato. Lo ripete Roberta, l’advertiser, perché è il giorno in cui le gambe cominciano a cedere. E, soprattutto, perché, da ieri sera, ha una febbre da cavallo ed è allergica alle medicine (e, per coronare il tutto, a meno di una settimana dal rientro dal Nepal è finita in ospedale con la salmonella tifoidea. Indovina come e dove l’ha presa?). Lo conferma Francesca, alla quale sono appena arrivate le mestruazioni e, mentre procede, soffre. In barba a tutte le mistiche, però, (e forse in barba anche al mestruo, che non ho capito se è arrivato o no) per me il terzo giorno è quello della rivelazione: in un punto imprecisato tra Chele e Tamagaon ho finalmente imparato a camminare. Anzi, il punto lo conosco, solo che non lo so individuare sulla mappa: sarà a mezz’ora al massimo da Chele, quando comincia quella che, in simili frangenti, sembra un’autostrada di sassi. Lì, come illuminata sulla via di Tamagaon, ho cominciato a seguire il ritmo del mio respiro e il fiatone è sparito insieme alla fatica. Mi sono sentita straordinariamente felice e in pace con il mondo. Ho persino incontrato un francese che mi ha trovata “radieuse”. E ho camminato come mai m’era accaduto prima. In stato di grazia e di incoscienza. Così profondo che quando, al ritorno, siamo ripassati per alcuni tratti del medesimo percorso non ci potevo credere: come diavolo avevo potuto arrampicarmi per quelle pietraie ripide e infide?

24 settembre 2007

Ibidem, idem, più tardi

Oggi le comiche. Il nostro bagno non è partico- larmente accoglien- te: un buco circondato da una tenda. Così Francesca, professione musicoterapeuta, e io decidiamo, con il favore delle tenebre, di appartarci alla belle étoile. Saliamo un’erta proprio dietro il nostro accampamento (la stessa che riaffronteremo domattina, ma, appunto, lo sapremo solo la mattina dopo), che ha l’aria di essere stata già scelta come gabinetto da molti. Cammina cammina, troviamo finalmente un luogo che ci appare propizio. Perciò caliamo le braghe e ci mettiamo culo all’aria. È un attimo e sento un ringhio alle spalle; nell’ordine (spero): urlo, mi alzo, afferro i calzoni, mi precipito a valle, incurante delle cacche altrui e convinta che un mastino tibetano (temibilissimo cane che tornerà più avanti nella storia) stia per azzannarmi il fondoschiena. Francesca fa gli stessi movimenti all’unisono con me (anche se lei non si immagina il mastino), mentre il guardiano (uno dei nostri portatori) dà l’allarme. Grandissimo trambusto nel campo: qualcuno sveglia Nima (la solita guida capo, un angelo).
Così il boss, Santa (futuro aiuto-guida, parente di Nima e con un braccio inservibile) e un paio d’altri ragazzi partono armati di pile e grinta verso l’ignoto disturbatore della quiete privatissima. Passano meno di due secondi e sentiamo una risata di quelle che davvero possono seppellire, dopodiché i quattro scendono a braccia e gambe scomposte sghignazzando e imitando le due sorelle fifone (in Nepal, in segno di rispetto, ci si rivolge a donne e uomini chiamandoli, rispettivamente, sorelle e fratelli). Il mio mastino era un tubo dell’acqua gorgogliante a fior di terra. Però è stata, giuro, l’unica volta che ho avuto paura.


(nella foto: un mastino tibetano, www.imolossideltibet.com)

21 settembre 2007

Chele, 7 agosto 2000

Prima notte in tenda. Mi sembra di non avere chiuso occhio. L’incredibile è che, quando arriva il tè del buon risveglio, non mi sento stanca. Neanche un po’. Sarà, forse, per il sorriso dei più giovani tra i portatori, Passan e Kumar, che, al mattino, a un’ora compresa tra le cinque e le sei e trenta, arrivano a darci il buongiorno e a versare nelle tazze l’infusione calda. Sorseggio il tè incredula, avvolta dal sacco a pelo che è stato sverginato solo da poche ore. Sbatto gli occhi, attenta a non scottarmi la lingua. Carlito, il mio amore, monosillaba qualcosa mentre comincio a realizzare che sta per avere inizio il secondo giorno, la fatica, l’avventura e che, forse, cinque ore di cammino mineranno l’entusiasmo, il fiato e le gambe. Si spera che minino anche la ciccia.
Le riflessioni sono interrotte da un secondo passaggio di Passan e Kumar con due bacinelle d’acqua calda: sono il nostro lavandino, la nostra doccia e anche il nostro bidet quotidiani. Esco in reggiseno e pantaloni, saluto i compagni di viaggio e dò il via alle abluzioni mentre due o tre dei nostri uomini si rasano.
Oggi dobbiamo spingerci fino a Chele. È esattamente dal punto in cui siamo, Kagbeni, che si entra nel regno proibito dell’alto Mustang, quello che ci costa 70 dollari al giorno solo per il visto e che accoglie la maggior parte dei rifugiati tibetani in Nepal. A questa sorta di porta d’ingresso, un cartello detta il comportamento da tenere: “Prendi solo foto, lascia solo orme”. Va da sé che obbediremo.
C’è il sole, la colazione è abbondante e i veri zaini li portano i muli. Così mi spalmo la protezione, mi infilo il cappello e affronto la prima salita autentica. Per ora con grinta.
Dalle nuvole il Nilgiri (che supera i 7000 metri) gioca a bau-cetti, ma è sempre meglio che un calcio nel sedere.
Si parla poco e si sale, fino a quando il Khali Ghandaki diventa un nastro e le rocce assumono un bel colore rosso. Aggiriamo la cresta del canyon e ridiscendiamo verso il fiume, muti per lo stupore più che per la fatica, con gli occhi che guardano buchi come grotte, alti sulla roccia. Cento, duecento anni fa erano villaggi. Nessuno di noi riesce a capacitarsi del fatto che i Mustanghesi (ma certamente non si chiamano così) abitassero lassù. Che razza di idee.
Ci fermiamo per il pranzo a Tangbe, vicoli stretti e preghiere nel vento. Sventolano come stendardi, si imprimono sui rulli girevoli dei muri mani, ti vengono alle labbra perché si disperdano nell’aria anche se non sei credente. E riparti con lo sguardo sciolto.
Il passo, però, mi si fa pesante, perciò, quando avvisto la salita finale (c’è sempre una salita finale per darti la mazzata da stramazzo) vorrei tanto un mulo sotto il sedere. Chele è arrampicata su una rocca e non ho tempo di rendermi conto di quanto sia bella: arranco e mi fermo, sosto e arranco, chiacchiero con Nima, la nostra guida nepalese, e riarranco. Però ce la faccio e, arrivata alla meta, mi getto su una seggiola e sorseggio una coca-cola. Già: niente telefono, niente elettricità, niente auto, niente acqua corrente, ma coca cola a go-go.


(nella foto: un muro mani nell'Alto Mustang. www.sunita.nl)

20 settembre 2007

Mustang lento

Premessa: questo è il diario di un viaggio lontano nel tempo, un viaggio che Pinocchietto e io abbiamo fatto nel 2000, il più bel viaggio che abbiamo mai fatto. È tutto fuorché inedito, è stato pubblicato su Internet non so quante volte, persino in e-book. Ma, visto che è roba mia, il suo posto naturale è qui, in mezzo agli altri racconti di viaggio della turista smarrita. E ora si comincia.

Kagbeni, 6 agosto 2000

Chiudi gli occhi. Poi, prova a immaginare il letto pietroso di un fiume grigio (si chiama Khali Ghandaki, che in nepalese vuol dire, per la verità, fiume nero), insinuato in una gola dominata da alte rocce tra il perla e il sabbia. E ora prova a immaginare me, che sgambetto come un cerbiatto (siamo soltanto al primo giorno, sia chiaro), in alto, su un sentiero che scende fino a far guadare le acque e poi risale inerpicandosi sull'argilla. Su e giù, giù e su, con il vento (per fortuna a favore) che fischia attraverso i miei giganteschi orecchini.
Poco dopo (il primo giorno abbiamo camminato solo tre ore), il miracolo: dietro una curva compare, in lontananza ma non troppo, una macchia verde di coltivazioni, in mezzo alla quale spicca una costruzione rosso mattone (il gompa, ovvero il tempio, di Kagbeni). Non resta che prendere un sospiro profondo, sopraffatti dalla cartolina da brivido dell'imprevisto, e riprendere il cammino. Ormai si canta a squarciagola e si vola sul sentiero, mentre l'entusiasmo aumenta l'appetito.
A proposito, in dodici giorni di trekking dodici, ho perso soltanto un chilo; sia detto a demerito, onta e ignominia dei nostri fantastici cuochi che ci viziavano e rimpinzavano come oche da foie gras.


(nella foto: Kagbeni e il Khali Ghandaki. Foto: www.dkohnstudios.com)
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