29 novembre 2007

2 agosto 2005 - Katmandu-Zhangmu

7 nights-8 days - Overland adventure in Tibet with one way trans Himalayan flight” è il programma che abbiamo acquistato e che per il giorno numero uno prevede Kathmandu (1300 m) - Zhangmu (2500 m)/Nyalam (3700 m): 123 km/156 km. Descrizione: “Early morning (nella realtà pomeriggio) scenic drive to Kodari (Nepal-Tibet border) through the beautiful Nepalese countryside and after necessary border formalities at Nepalese immigration, an hour adventurous uphill drive by truck (normally) or 2 hours walk uphill (in case of landslide) to Chinese immigration (che rende l’ingresso facilissimo, come si vedrà), check-in to the hotel (hotel si fa per dire) or continue to drive to Nyalah. Overnight at hotel”.

Si parte. O quasi.
Tutti in pullman, ore 9.14, altri quattro italiani e un gruppo di? Usa? più una coreana. Mancano, a quanto pare, tre ritardatari. Che poi sono due e sono francesi.
Il loro arrivo non cambia granché, quello che si aspetta è l’aereo da Lhasa con i permessi (per? noi? Evidentemente, visto che se no non si parte, ma, mi domando, perché il sabato, quando si parte alle 5.30, gli stessi permessi non sarebbero necessari?).
Una volta che l’aereo atterra a Katmandu, ci comunicano che andiamo a prenderci i permessi all’aeroporto (che, comunque, più o meno, è di strada). Non potevamo partire prima per l’aeroporto? Misteri nepalesi. Il risultato è che sono le 10.20 e non siamo ancora davvero partiti.

La colazione prevista nel programma è un miraggio e, a quanto pare, pure il pranzo. Perciò sono ultrafelice di essermi portata dietro gli avanzi di pizza che Carlito schifava. Di fatto le fettine fredde di una margherita versione Katmandu ci faranno da colazione e anche da pranzo. Mentre a merenda prenderemo qualche banana al confine.

La strada tra Katmandu e Kodari, proprio come promesso dal programma, è bellissima: si sale e si scende in mezzo ad abeti che sembrano ancora più verdi sull’argilla rossa, qualche casa sparsa, un sacco d’acqua, ruscelli, cascatelle e poi veri fiumi. Le mucche si diradano man mano che aumentano le capre (fantastiche le capre che mangiano i manghi). Il disastro e le stramberie cominciano dalla frontiera.

La nostra brusca e antipatica guida sembra disposta a fare finalmente qualcosa per noi: occuparsi dell’uscita dal Nepal. Dunque scendiamo tutti dal pullmino, non prima di aver subito l’assalto dei nepalesi cambiavalute (1 € = 8,5 yuan, che non è propriamente il cambio più vantaggioso). La guida arriva addirittura a consigliarci da chi cambiare (che s’ha dda fa’ ppe’ campa’).

Comunque, armi e bagagli in mano o in spalla, affrontiamo una ventina di metri di terra di confine, dopodiché la guida ci intima di fermarci e di attendere. Carlito ne approfitta per comprare una cassa d’acqua. Io, invece, come si saprà tra poco, colgo l’occasione per mettere tra parentesi il cervello per un paio d’ore.

I nepalesi, come sempre abbondantemente armati, sono tranquilli e non fanno una piega neppure quando li prendiamo in foto sulla sbarra di frontiera.
Poco o nulla sembra cambiato nella fisionomia dei volti: i tibetani, che in quest’area sono ancora decisamente maggioritari rispetto ai cinesi, sono pressoché identici ai nepalesi di frontiera.
L’unica differenza apparente è che, appena superata la prima barra di metallo, si moltiplicano i tavoli da biliardo. Per lo più collocati in situazioni improbabili: per esempio in una stanza su strada che da noi sarebbe un negozio privo di porte e vetrine ma dotato di saracinesca. A posteriori mi chiedo se il biliardo non sia uno degli sport nazionali cinesi (con Cina usato come termine generico e globale), co-protagonista, tra l’altro, del primo episodio, “Il tempo dell’amore”, del film taiwanese “Three Times”.

Una ventina di minuti più tardi, mentre ho infilato gli occhiali sopra la testa e scrivo, cominciano le prime gocce di pioggia.
È il momento scelto per muoversi.
Riprendiamo tutto quanto e percorriamo ancora qualche decina di metri fino a raggiungere l’estremità cinese del Ponte dell’amicizia.
Qui nuovo stop. E nuovo ordine: tutti i bagagli in fila vicino al parapetto, a lato dell’ufficio China Inspection and Quarantine.

Dimenticavo: prima che attraversiamo il ponte-confine ci ripetono fino alla nausea che non abbiamo il diritto di fare foto. Visto quello che accade ai nostri bagagli sospetto che i cinesi abbiano paura del ridicolo. Un tizio si arma di uno spruzzatore da Ddt formato gigante e inonda più volte zaini, borse e valigie di una misteriosa sostanza disinfettante. Ma non erano i cinesi ad avere la Sars? Ah, ah, ah. Ah, l’operazione avviene sotto lo sguardo più o meno vigile di un altro tale, the Doc immagino, in camice bianco.

Appena terminata l’operazione la pioggia si fa più insistente. Ho già il mio cappellino impermeabile in testa, ma sfodero anche il poncho anti-pioggia.
Compiliamo un altro Immigration form (il primo, riempito sul pullman, era evidentemente destinato ai nepalesi) e presentiamo foglietto e passaporto ai due impiegati dietro lo sportello di frontiera.
Qui avviene un’altra cosa strana: l’impiegato ci punta un termometro nello spazio tra gli occhi e comunica alla collega la temperatura di ciascuno, che la signorina, puntualmente, annota. Di nuovo la Sars?

Mentre notiamo una fila di camion colorati in fila su una cresta parallela (a proposito, i camion cinesi sono anche meglio di quelli nepalesi. Se quelli avevano al massimo una collezione di Buddha, questi si sbizzarriscono: ce n’è uno con un enorme Yin e Yang, uno con un grande ritratto di Bob Marley e via enumerando), arriviamo a un imponente arco cinese con giganteschi ideogrammi dorati (“Lasciate ogni speranza voi ch’entrate”?) sotto il quale staziona il funzionario che deve controllare i nostri passaporti e visti.
La pioggia è ormai un diluvio. Tanto che quando estraggo il marsupietto in tela che contiene documenti, soldi, biglietto aereo Lhasa-Katmandu, carta di credito e, in breve, tutto quanto è davvero importante, lo trovo più bagnato che umido. Così decido di tenerlo in mano.

Passato il controllo, si corre sotto la cortina d’acqua fino a raggiungere un riparo sotto una tettoia in plastica. Mentre siamo ammucchiati là in attesa di poter salire sulle jeep, mi accorgo di aver perso gli occhiali (in effetti li avevamo lasciati infilati in testa mentre scrivevo alla frontiera nepalese. Nel frattempo non me ne sono più occupata. In compenso ho infilato il cappello prima e il poncho poi e ho sfilato e rimesso più volte lo zainetto di Carlito che porto sul davanti). Li cerco attorno al collo, più o meno addosso, levo il poncho. Niente, spariti. Mi rompe parecchio, anche perché mi farò il Tibet da ciecata, ma mi rassegno. Sono un’inguaribile imbranata. In più, a quanto pare, sono pericolosamente distratta. E sottolineo: pericolosamente.

Arriva il momento di raggiungere le jeep e la pioggia se n’è quasi andata. Sto per toccare l’auto quando mi accorgo che ho perso il marsupietto. Un genio. Adesso sono un po’ più inquieta: levo il poncho, guardo nello zaino di Carlito, ma lo so che non è lì, non l’ho mai messo dentro, non può esserci, mi sono limitata ad appoggiarlo lì sopra e a tenerlo con le due mani. Fino a quando?

Controllo il pile che ho annodato in vita e ritrovo gli occhiali. Una parte di me ride, sono davvero contenta del ripescaggio in extremis della mia protesi da sole. Ma sono anche in ambasce: in terra di nessuno senza passaporto. Un genio, ripeto, un genio.
Torno sui miei passi. Nell’acqua che mi arriva sopra le caviglie, malgrado gli occhiali ritrovati, non vedo niente.
Ma gli angeli esistono. Io, poi, di angeli custodi devo averne due. E li tengo sempre costantemente occupati. Infatti vedo arrivare verso di me due ragazzi nepalesi che mi porgono il mio inzuppato marsupietto. Non so come ringraziarli: tutti gli yuan li ha Carlo, gli regalo un po’ di euro che non li rendono affatto contenti. Tuttavia continuano a preoccuparsi di me: ma hai controllato di avere il passaporto? Macché. Lo faccio ora. È in condizioni pietose ma quello che sta peggio è decisamente il biglietto aereo, speriamo bene.

Conquisto finalmente il posto sulla jeep e stendo sulle gambe tutti i miei fradici averi. Mauvais timing et mauvaise nouvelle: dobbiamo stringerci e stare in quattro sul sedile posteriore, siamo in 34, autisti esclusi, e abbiamo soltanto sette jeep. Sale Alessandra, costretta, almeno per questo tragitto, a separarsi da Luigi. L’autista ci comunica che abbiamo appena sette chilometri da fare. La strada necessaria a raggiungere Zhangmu, il villaggio di frontiera cinese. Dove, visti i ripetuti ritardi che non ci consentono di raggiungere Nyalam, pernotteremo.

Toh, i cinesi, ora che ci penso all'asciutto e posso permettermi di guardarli dal finestrino, non hanno un’arma. Il che non gli impedisce di essere perentori.

Al villaggio nuova sorpresa, ovvero nuova dogana. La guida ci intima di lasciare i bagagli dove stanno, prendere il necessario per la notte e seguirlo all’albergo. È la guida tibetana, quella nepalese ci ha affidati a lui prima che varcassimo l’arco. Qualcuno protesta e ottiene, proprio come Carlito, di poter portare con sé l’intero bagaglio. Arrivati all’albergo, per il quale, secondo l’esimia guida, il sacco a pelo è inutile, ci smistano nelle stanze a cinque per cinque. Carlito chiede una camera da sei e fonda così la colonna italiana.

Quarto piano. Lungo le scale puzza di piscio, che non promette nulla di buono. La camera non è davvero granché: sei letti allineati lungo le pareti, coperte, asciugamani, materassi e cuscini che sembrano gridare "lavatemi". Con pazienza leviamo tutto questo ammasso di zozzerie, materasso escluso, e stendiamo i nostri sacchi a pelo. La stanza è proprio di fianco al bagno comune, che, tutto sommato, è frequentabile e le docce sono al piano di sopra. Anche per la cena restiamo in colonia Bel Paese anche se a noi si aggiungono i due francesi: vivono in Turkmenistan, probabilmente il buco del culo del pianeta, a quanto raccontano. Ma questa è un'altra storia.


(nella foto: prima frontiera nepalo-cinese)

28 novembre 2007

C'era una volta il Tibet

Premessa

Questa storia, proprio come il blog su cui è nata “La turista smarrita”, ha avuto il suo inconsapevole inizio oltre sette anni fa. Con il viaggio di cui racconto in “Mustang lento”. Quelle prime pagine sono nate in rete, man mano che aggiornavo un’amica sulle mie vacanze. Via e-mail. È stata la prima volta che i miei diari di viaggio sono usciti dai miei taccuini. Per il momento non è stata l’ultima.
Nel frattempo qualcosa è successo a me. Non sono stata travolta da una crisi mistica buddhista, né illuminata dal Dalhai Lama, sono solo cambiata. E, forse, almeno un poco, ne sono responsabili anche i miei viaggi.

27 novembre 2007

Parigi, oggi

Da un anno a questa parte sul Nepal non ho più scritto niente. Né un post, né, tanto meno, un articolo. Lo ha fatto Alessandro, però, nel suo blog d'autore e leggerlo a me scalda il cuore (a proposito, la foto l'ho presa dal blog di Gilioli, spero nessuno se ne abbia a male).
Che accade oggi in Nepal? La situazione è instabilmente stabile. Il parlamento provvisorio ha chiesto al governo di preparare la proclamazione di una Repubblica: un compromesso con i maoisti che chiedevano l'abolizione immediata della monarchia. Il Nepal è tuttora un regno ma il suo re fantoccio è esautorato da ogni potere e privilegio. Il governo naviga a vista, in attesa di preparare una grande consultazione popolare, al più presto per l'aprile 2008, che dovrebbe eleggere un'assemblea costituente, decidere le sorti della monarchia e, ça va sans dire, il futuro politico della nazione himalaiana. Che la sorte ci accompagni.

14 novembre 2007

Parigi, 18 maggio-novembre 2006 - Piccoli passi

Il re è un po’ più nudo che nel post precedente: il Parlamento nepalese ha cominciato a togliere all'orrendo Gyanendra parte del suo potere. E, soprattutto, gli ha tolto, con voto all’unanimità, il comando delle forze armate. In attesa di levargli anche il trono, si spera.
Intanto il Gilioli va e viene dal Nepal. Questa intervista (http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2006/11/09/prachanda-on-line) è un gran bel lavoro del caporedattore dell’Espresso. Per quanto mi riguarda, ora e sempre: lunga vita al compagno Prachanda.

13 novembre 2007

Parigi, 24 aprile 2006 - Il re è nudo

Sorellina, nipotina e cognato sono partiti appena in tempo. Hanno lasciato Katmandu e, il giorno dopo, la rivolta era su tutte le bocche. Ci sono voluti una ventina di morti in piazza, ma, improvvisamente, tutto il mondo occidentale si è accorto del Nepal. Sta esplodendo e, per quanto riguarda me, l’evento era atteso da mesi. Quello che sta accadendo ora sarebbe potuto accadere a gennaio. O a febbraio. L’importante è che accada. Negli ultimi tre-quattro giorni persino il “Corriere” e “La Repubblica” hanno ficcato il Nepal in prima pagina. Pazienza se qualche articolo era infarcito di fregnacce e ha chiaramente dimostrato che di Nepal parecchi di quelli che ne stanno scrivendo sentono parlare per la prima volta; pazienza, ripeto, i bravi colleghi imparano in fretta. E oggi qualcuno cerca di capire.
Prachanda, il leader dei maoisti, l’ha dichiarato nell'ultimo discorso: non ci sono che due soluzioni, o la famiglia reale va in esilio o zac. L’Alleanza democratica non lo dice; reclama, comunque, un’assemblea costituente. Il sottinteso è il passaggio dalla monarchia alla repubblica e allora bye bye Gyanendra Shah e bye bye a tutti gli Shah. I nepalesi non credono più che il re sia una divinità; non questo re, almeno.
I nepalesi di Parigi, ma sono pochi, pochissimi, appena un migliaio in tutta la Francia, trattengono il fiato, pieni di speranza. In giorni come questi il futuro sembra comunque rosa. Io incrocio le dita e sogno che il Nepal sappia offrire al mondo la migliore delle lezioni e non conceda spazi alla crudeltà.


(nella foto: arancio a Durbar Square, Katmandu)

12 novembre 2007

Parigi, 12 febbraio 2006 - Ong

Non vorrei ci si sbagliasse: non è che il Nepal sia un completo scono- sciuto, il suo 129° posto tra i paesi con il più basso Isu, Indice di sviluppo umano, qualcosa gli ha attirato, le Ong. Mi hanno raccontato che ci sono 36.000 Ong che operano in Nepal. 36.000, mica cazzi. Alcune saranno fittizie, certamente, ma 36 mila sono quelle registrate: tra queste ce ne sono di grosse e di microscopiche.
La prima volta che sono stata in Nepal, cinque anni fa, sono andata a visitare qualcuna di queste strutture. Il Wodes, Women Development Society, è un’associazione che si occupa di donne. Avevano allora diversi progetti: organizzavano gruppi di lavoro al femminile e azioni contro i principali problemi, dall’alcolismo al controllo delle nascite. Poi la scuola messa in piedi da Stella Tamang, che, insieme alla la sorella Della, gestisce la Bhrikuti Secondary School. Alcuni degli 11 figli del mio amico Nima cuore di panna studiano lì. È una scuola come non ce ne sono neppure in Occidente, il cui vero scopo è educare, anche attraverso il gioco e le arti, più che istruire. Ci sono corsi regolari e corsi per ragazze “delle montagne”, lavoratrici in erba, analfabete e similia. Una visione trasformata in realtà. E, infine, il Cwin, Child Workers in Nepal, che è appunto un centro per bambini lavoratori, l’unico deludente, malgrado o forse proprio per l’appoggio Onu.
L’estate scorsa, invece, ho conosciuto per caso, in viaggio verso il Tibet, un americano pazzo e giramondo, fervente cristiano, che, dopo aver passato diversi anni in Sudamerica e svariati tra Pakistan e India, si è stabilito con moglie e figli a Katmandu e si è creato la sua bella Ong. Si occupa, a suo dire, di ragazzi vittime della guerriglia, per lo più orfani. È un gran brav’uomo e si vede, anche se è evidentemente imbevuto del furore messianico dei missionari made in Usa, quello che li fa assomigliare tutti a una massa di mormoni o di avventisti del settimo giorno assetati di proselitismo. Anche Mae-Sot, la cittadina tailandese al confine con il Myanmar (ex Birmania) attorno alla quale da una quarantina d’anni sono stati insediati i campi di profughi Karen, perseguitati dal regime di Yangoon, ne era piena. Al di là della predicazione, ritengo comunque probabile che l’amico americano faccia un buon lavoro. E di gente come lui, il Nepal, stando ai numeri e anche a un poco di esperienza personale, è pieno.

P.S. Nel frattempo il principe nepalese si è fatto un giro in Europa


(nella foto: Bollywood a Katmandu, Durbar Square)

09 novembre 2007

Parigi, 27 gennaio 2006 - Raccontavano a Rukum

Il racconto risale all’8-9 gennaio, ai giorni, cioè, in cui ero a Katmandu. Rukum è il nome di un distretto a ovest di Katmandu, una delle aree controllate dai maoisti. Secondo quanto mi è stato riferito, da fonti estremamente attendibili, l’esercito maoista stava riunendo circa 7000 uomini, pronti a spostarsi verso est, cioè in direzione della capitale. Attentati e scontri tra le due armate (quella comunista e quella reale) erano ricominciati e la situazione si stava surriscaldando, soprattutto in vista delle elezioni municipali dell’8 febbraio. Elezioni-farsa alle quali, si diceva allora, parteciperebbero qualcosa come 72 partitini, ma nessuno dei sette partiti che compongono l’Alleanza democratica. Come dire che si presentano soltanto i galoppini del re. Quanto ai maoisti, sempre secondo le mie fonti, pare abbiano minacciato gli elettori: chi si reca a votare pagherà le conseguenze dell’atto, sulla propria pelle ed eventualmente pure su quella dei suoi familiari. Il risultato previsto da chi mi ha riportato queste informazioni è che nessuno, o quasi, andrà a votare, soprattutto nelle regioni controllate dai guerriglieri e che i monarchici voteranno al posto degli elettori che non si presenteranno: sono loro che hanno in mano le liste elettorali, dopotutto.

Se interessa approfondire qui c'è quello che ho raccontato sul blog dell'Espresso


(nella foto: preghiere nel vento)

08 novembre 2007

Parigi, 25 gennaio 2006

Un signore che neppure conosco, Andrea Pergola, si è inventato i Blog for Nepal e mi invita a scrivere qualcosa, visto che sono tornata da Katmandu appena una decina di giorni fa. Provo a raccogliere. Per ora qualche idea in ordine molto sparso.

La prima cosa che mi viene in mente è che, nel 2000, tutte le persone con cui ho avuto modo di parlare della guerriglia, si sono dichiarate maoiste o comunque vicine ai maoisti. Compreso un poliziotto. Cinque anni dopo, la scorsa estate, cioè, non trovo affatto una simile unanimità. Per una persona che si è illuminata di un enorme sorriso nel sentirmi citare alcune regioni nepalesi e che ha commentato “Good maoists”, ne ho trovate decine che non avevano alcuna voglia di parlare e una che mi ha tenuto un comizio che potrei definire filonazista (e che detestava, o piuttosto detesta, tanto il re quanto i maoisti). Invece, ho conosciuto un ragazzo, un guardiano, che, in un attentato a un pullman in cui sono morte 88 persone, ha perso la moglie e il figlio neonato. L’ho rivisto a gennaio e mi ha presentato la nuova moglie.
Quest’estate ho assistito anche a qualche manifestazione, di militanti per i diritti umani, per lo più, a partecipazione piuttosto scarsa, tanto che i poliziotti presenti mi sono sembrati altrettanto se non più numerosi dei dimostranti. Niente di sorprendente: si vive sotto dittatura e quasi a ogni dimostrazione c’è qualche ferito, o, almeno, è quanto ho letto sull’”Himalayan Times”, quotidiano abbastanza filogovernativo.
Come ho scritto qualche post fa, comunque, anche se vuoi far finta di niente, non puoi non vedere i poliziotti in giro, o i posti di blocco la sera, lungo gli assi principali della città. Vero è che la maggior parte dei turisti quando è a Katmandu, resta per lo più a Thamel, il centro, dove ci sono ristoranti e locali, e che a Thamel anche di poliziotti se ne vedono meno.
I nepalesi, intanto, vanno a lavorare altrove. Un nostro amico nepali vive ormai negli Usa, dove sta cercando di far arrivare anche il resto della famiglia, un altro lavora per un americano in città, tanti vanno in India (con l’India c’è una frontiera aperta, una specie di Schengen subhimalayana) o in Qatar. Un commerciante indiano che ha trovato l’America a Katmandu, ci spiega che la prima fonte di reddito del Nepal sono i soldi inviati dagli emigrati che lavorano altrove. Non ho modo di controllare l’informazione ma sembra verosimile a tutti gli indigeni e a tutti i residenti cui la riporto. Viceversa, l’unica risposta a una microindagine sulle condizioni di vita del proletariato nepalese arriva da un taxista che parla piuttosto bene l’inglese: il fisso del taxista è bassissimo, 2000 rupie al mese (1 € allora valeva tra le 80 e le 83 rupie, oggi, al cambio ufficiale, siamo attorno alle 87) e con le percentuali (tipo bonus e mance) raggiunge al massimo le 4-5 mila rupie. Lavora cinque giorni la settimana, ma la sua giornata comincia alle 6 del mattino e termina alle 8 di sera: un bel 14 ore tonde tonde. E sta a Katmandu, dunque fa parte della crema della popolazione. Nelle regioni più povere di uno dei Paesi più poveri del mondo, più che vivere si sopravvive. Male.


(nella foto: il vero re del Nepal, sua maestà l'Everest)

06 novembre 2007

Parigi, 21 gennaio 2006

I giornali italiani tacciono. Ho provato a cercare notizie anche sull'Ansa. Inutil- mente. Katmandu è deserta, c'è scritto sul Figaro, i turisti sono vivamente sconsigliati di mettervi piede, ieri 120 arresti, l'altro ieri 100. Il coprifuoco è in vigore almeno da lunedì scorso, le comunicazioni via cellulare difficili per non dire impossibili. Più tardi proverò a chiamare mia sorella. Da qui all'8 febbraio, giorno in cui si svolgeranno le elezioni municipali-farsa, la situazione non può che peggiorare. Vorrei essere ancora là. La distanza è un dolore incolmabile, oggi.


(nella foto: nubi minacciose si addensano sullo stupa di Bouddanath)

31 ottobre 2007

Ultimo giorno a Katmandu (12 gennaio 2006)

Mi cola il naso perché mi sono buscata il raffreddore o perché sono sull’orlo delle lacrime? Mi strappa il cuore andarmene. E non è perché lascio mia sorella o mia nipote. Piuttosto perché, probabilmente, non vedrò mai più Katmandu. Ho appena fatto colazione, come quasi ogni giorno in questa breve vacanza di gennaio e pure la scorsa estate, al New Orleans Café. Casa mia, praticamente: un posto che non c’è bisogno di fissare nella memoria perché ha lasciato da tempo una traccia indelebile dietro i miei occhi, mi basta chiuderli per vedere ogni tavolo, ogni mattone, ogni finestra e, soprattutto, ogni volto. Qui tutti mi conoscono, dal padrone ai gestori ai camerieri (pure qualche altro avventore abituale, ma quello non conta), tutti ricambiano i miei sorrisi, persino il cameriere triste, quello che una volta ci ha mostrato le foto dei suoi figli, e ho la presunzione che quando dopo il namaste lanciano il consueto “how are you” non sia solo buona educazione. Mi sono mancati in questi mesi, da agosto a ora e, ormai, è probabile, continueranno a mancarmi per sempre.
Io sono pazza di Katmandu, mi è piaciuta la prima volta che l’ho vista cinque anni fa, quando non avrei mai potuto immaginare che venisse a viverci, seppure solo per un anno, la sorellina. E mi piace ancora più ora, che ho imparato a lasciarmi andare al suo ritmo lento che forse è proprio degli indù e forse è solo relax personale. Mi piace tutto, Thamel, che ormai conosco bene, ma anche Maharajgunj e la via delle ambasciate che non ricordo come si chiama. Per non parlare della valle, che è una collana di perle patrimonio dell'umanità. O di Bouddanath, l’enclave tibetana con il più noto stupa del Nepal. Ormai, dopo aver amato Bouddanath, mi commuovo alla vista di uno stupa qualsiasi. Questa è la vecchiaia, però, non la nostalgia.
Non sono ancora partita e già la rimpiango. Forse perché ho paura che questo sia davvero un addio.
Namaste e donnebat, Katmandu.


(nella foto: l'immagine del grande stupa di Bouddanath che, da allora, vive nel mio cellulare)

30 ottobre 2007

Di nuovo a Katmandu (9 gennaio 2006)

Da qui tutto sembra così diverso e le mie piccole preoccupa- zioni quotidiane così meschine che mi domando che ci faccio lì (quando ci sono), ma questa è una storia troppo lunga. Nella mia assoluta incongruenza sto ascoltando Dave Brubeck e Keith Jarrett a ripetizione, che c’entrano come i cavoli a merenda, grazie al mio nuovissimo e fantasmagorico iPod nano nero (piccolo stacco pubblicitario?).
Per essere seri, qui si è quasi in guerra. I guerriglieri maoisti all’inizio di gennaio hanno interrotto la tregua da loro proclamata e mai troppo rispettata dal governo, proprio perché unilaterale: l’esercito ha compiuto una strage sparando sulla folla riunita per una manifestazione religiosa a Nagarkot circa un mese fa. Risultato: gli attentati sono ricominciati. A Katmandu non si nota tanto, a essere molto attenti si rileva un briciolo di fibrillazione in più tra i poliziotti ai posti di blocco, ma, forse, dopotutto, non è altro che autosuggestione. Mi dicono tuttavia fonti superattendibili, attualmente in una delle zone controllate dai guerriglieri, quella di Rukum, a ovest di Katmandu, che l’esercito maoista si sta preparando per spostarsi verso est. Nei prossimi giorni i black out, di per sé non rari, potrebbero farsi più frequenti, visto che le centrali elettriche sono spesso nel mirino dei guerriglieri e, chissà, si potrebbe persino arrivare alla chiusura degli aeroporti internazionali. Insomma, la situazione è critica. Sul serio.


(nella foto: Durbar Square, Patan, nella valle di Katmandu)

28 ottobre 2007

Eh, sì, sempre da Katmandu (29 luglio 2005)

Giornata strike, oggi. Stamane a Pashupati, posto denso di magia, dove gli indù cremano i loro morti lungo le rive del fiume Bagmati, affluente del Gange. Carlito e io abbiamo assistito a una cremazione: la preparazione del cadavere, l’incenso bruciato a mazzetti, le corone di fiori gialli e arancioni, soprattutto arancioni, posate sul corpo. Poi l’uomo che fu (sono certa che si tratti di un uomo, non so perché) viene trasportato su una pira già pronta (nella foto). I fiori vengono gettati nel fiume, così come parte dei teli, ancora una volta arancioni, che lo ricoprono. Fasci di paglia vengono bagnati nel Bagmati e poi collocati sopra il cadavere. Il fuoco viene appiccato sotto la pira e, in parte, anche alla paglia che copre il corpo.
Un denso fumo scuro si alza dalla pira e si dirige verso destra, cioè verso il ponte. Venendo dal tempio d’oro riservato agli indù, a sinistra del ponte, ci sono le cremazioni dei ricchi e delle celebrità, a destra quelle della gente comune. Quella cui abbiamo appena assistito era senza dubbio una cremazione ricca.
Scendiamo verso il tempio di Batchhla Dev, con le sue sculture erotiche intagliate, ma fuggo presto e riattraverso il fiume: sono sottovento e mi arrivano addosso i fumi della pira. Sul lato opposto del Bagmati decine, o forse centinaia, di tempietti. Ciascuno di essi contiene un lingam in pietra, ovvero un pene, di Shiva (Pashupati è uno dei tanti nomi di questa divinità). Davanti a ciascuno di essi giace una statuetta del toro Nandi, cavalcatura del dio in questione, accovacciato; e pazienza se tutti questi animaletti più che tori sembrano tapiri. Davanti o di fianco a ciascuno di essi, o quasi, è seduto o sdraiato un saddhu, un santone rosso-arancio vestito che in genere passa il tempo a tirare sui chilum e a farsi fotografare dai turisti, scarsi, in cambio di qualche rupia. Per una volta i saddhu non sono particolarmente insistenti, forse sono stremati dal caldo.
Più tardi approdiamo a Bouddhanath, sorta di enclave tibetana nella valle di Katmandu. Il sito è dominato da un grandioso stupa, il più grande del Nepal (V sec. a. C., almeno secondo la leggenda), con gli occhi di Buddha che ti osservano da ogni lato. Attorno belle case e palazzi a volte bellissimi accolgono ogni sorta di commercio. L’artigianato in vendita è tipicamente tibetano, dunque non mi lascio incantare più di tanto: tra poco passeremo in Tibet un’intera settimana. Comunque Bouddanath ha una sua curiosa magia e, malgrado i commerci imperanti, anche un suo fascino mistico. Ed è uno dei luoghi che preferisco al mondo, sa dio perché.

27 ottobre 2007

Sempre Katmandu (27 luglio 2005)

Siamo riusciti finalmente a prenotare il nostro Tibet Tour. Preciso identico a ogni altro Tibet Tour, solo un po’ più economico grazie all’assistente di mio cognato che ha lavorato a lungo nel turismo. Ho un po’ fifa, manco a dirlo abbiamo lasciato i sacchi a pelo a Parigi e ieri ne abbiamo comprati di nuovi. Indispensabili, dicono tutti, visto dove dormiremo. Si ricomincia con la ricerca della doccia perduta, vedi “Mustang lento”, insomma.
Intanto stamane ulteriore déjà vu, reale, non sognato. Passeggiata allo stupa di Swoyambhu, pare il più antico stupa al mondo (ha più o meno 2500 anni). Festa di preghiere sventolanti e ministupa attorno al monumento maggiore e incongruenze asiatiche: gruppi di sedie di plastica tipo metropolitana di Parigi (ma rigorosamente color buddico arancione) in un praticello a fianco di una sorta di monastero. Che sia l’area di meditazione? Mah, ci si arriva attraversando un bel boschetto tranquillo sotto lo stupa principale.
Ce soir arriva la sorellina (almeno si spera). Non vedo l’ora.


(nella foto: ministupa e bandiere nel vento a Swoyambhu)

25 ottobre 2007

Cuore di Nepal

Cuore di Nepal è nato stamattina. Non è nuovo, però, ho solo deciso di continuare a scrivere di Nepal, perciò di trasferire qui vecchi post che ho scritto da laggiù su un blog ormai morto. E, magari, di continuare con nuovi post scritti da quaggiù. Chissà. Intanto comincio.

In diretta da Katmandu (25 luglio 2005)

Piove. Caldo umido da tropici. Katmandu è com’era e al tempo stesso completa- mente diversa. Come sempre e come tutti i turisti, passiamo la maggior parte del nostro tempo nel quartiere di Thamel. Assomiglia al Thamel di cinque anni fa: ci sono nuovi locali, nuovi alberghi, nuove guest house, ma molti molti meno turisti e molti molti più poliziotti. Fa effetto. Per non dire che, in fondo, fa paura. In compenso rimane intatto l’indiscutibile fascino di Katmandu, un fascino di cui mi è impossibile, anche ora, cinque anni dopo la mia prima volta, spiegare l’origine. Un misto di Oriente, rassegnazione induista, filosofia buddista, voglia di essere, dolcezza, impotenza, mattoni rossi, finestre in legno magnificamente intarsiate, preghiere nel vento (ma non tante), sciarpe di seta, pashmine, strade putride, oasi di paradiso, paradisi da turista, puzze e profumi. Ho certamente dimenticato molto, magari pure l’essenziale, ma sto bene. E poi so che ho davanti un’intera settimana per impregnarmi di questa città che già amo tanto.

18 ottobre 2007

Pokhara, 19 agosto 2000

Aeroporti. Prima tappa, all’aero- porto di Jomsom, ore 7.55. Siamo qui dalle sei. Dunque sveglia alle cinque. Da appena un paio di minuti è suonata una sirena, salutata con entusiasmo da tutti i presenti. I magnifici otto sperano voglia dire che l’aereo (ma quale? sarà il nostro? ci sono almeno 40/50 persone che attendono e il nostro bimotore Cosmic Air carica al massimo 16 passeggeri) è in arrivo. Trasporti a parte, ora è evidente: l’avventura è finita. Già da ieri, forse: al nostro arrivo a Jomsom il Tilicho Hotel ci è sembrato una specie di 5 stelle. Un po’ perché abbiamo avuto vere camere a disposizione, un po’ perché siamo finalmente riusciti a lavarci i capelli e a fare una doccia calda. Molto perché il Royal Mustang di Muktinath, nel cui cortile avevamo piantato le tende la notte precedente, era tutto fuorché Royal. E ieri sera festa, ma già intrisa di malinconia: le canzoni, i tamburi, gli strumenti improvvisati e le danze.
Sono come in trance fino alla seconda tappa: aeroporto di Pokhara. Incredibile déjà-vu. Eppure, la prima volta che siamo passati di qui risale almeno a un secolo fa.
Da qualche istante appena abbiamo salutato i portatori: capocuoco e aiutocuoco; Kalu il bello; Passan il tenerissimo; Kumar, la sua ombra, e Santa, futuro aiuto-guida del grande fratello che in questo viaggio ci ha fatto da papà, mamma e capo, Nima-Dawa (un nome un programma. Nima-Dawa, infatti, in nepalese significa sole-luna o, anche, domenica-lunedì). È il primo addio e già mi si stringe il cuore.
Roberta, la pubblicitaria bergamasca, mi ha confessato che stanotte non riusciva a dormire dalla pena: già le manca il Mustang. Ma credo che nessuno di noi, malgrado le dichiarazioni dei grandissimi lavoratori, alias Emanuele e Carlito, abbia veramente voglia di partire. Per giunta, e per fortuna, Pokhara questa mattina ci ha portato con l’alba uno splendido dono: la collezione completa dei 7-8000 del complesso dell'Annapurna. Ultima immagine che toglie a tutti noi, almeno momentaneamente, la facoltà di parola. E tutto si mescola in un unico, confuso sentimento: silenzio e rispetto, lacrime e nostalgia. Credimi: meglio, molto meglio, calare il sipario.
Ehi, puoi riaprire gli occhi.


(nella foto: l'Annapurna, sontuoso sfondo al lago di Pokhara; www.pokharalodge.com)

17 ottobre 2007

Jomsom, 17 agosto 2000

Jomsom, lontana e sola. La discesa da Muktinath è cominciata tardi. Anzi, tardissimo, visti i ritmi che sono ormai un’abitudine per noi: alle 10 passate. Dopo, cioè, che abbiamo visitato quella specie di santuario, sacro agli induisti come ai buddisti, che sovrasta il villaggio e che fa di questo borgo semisperduto un’importantissima meta di pellegrinaggi. Ci sono persone che partono dall’India profonda, a piedi, naturalmente, per salire lassù a pregare. Terminato il doveroso giro dei gompa (i templi) si inizia a scendere dolcemente. Dopo una mezz’oretta di cammino ci imbattiamo, nell’ordine: 1. in una troupe cinematografica (o televisiva) di tedeschi, 2. in una comitiva di bergamaschi tra cui si cela il libraio di Roberta. I segni del nostro ritorno alla civiltà sono ormai tanto preoccupanti quanto evidenti. Ma proseguiamo, il cuore leggero.
A un certo punto del percorso, tra la via Emilia e il bar grossomodo, Francesca, Carlito e io siamo adottati da tre bambine. Impossibile per noi memorizzare i loro nomi. Quanto alle età che hanno dichiarato, in un inglese scheletrico, ci sembrano improbabili: 10, 12 e 13 anni. Sembrano molto, molto più giovani. Comunque è stato uno dei momenti più belli del viaggio. Quella che ha scelto di prendere per mano me è la piccola, una teppa superintelligente e simpaticissima. Ha cominciato a intendersi con Francesca a fonemi e dai “mamama”, “papapa” e “tatata” è nata una prima musica a sei, destinata a trasformarsi poi in vera e propria corale. Oltre al solito similinno nazionale nepalese, “Resham Phiriri”, siamo riusciti a esibirci in un “Fra’ martino” bilingue: “Cin cion bell, cin cion bell”.
Arrivati alla tappa intermedia, le bimbe si fermano a pranzare con la mamma e noi tre proseguiamo. Arranchiamo per arrivare a Kagbeni, ma il premio è dietro l’angolo: Jomsom è là, a portata di vista. Malediciamo il Khali Gandhaki, inguadabile perché ha troppa acqua e riaffrontiamo i saliscendi tra le rocce. A ogni altura, controlliamo. E Jomsom è sempre là, sempre alla stessa distanza, sempre lontana e sola.


(nella foto: l'immenso rullo di preghiera all'entrata del tempio di Muktinath. Contiene 100 milioni di mantra; www.muktinath.org)

16 ottobre 2007

Muktinath, 16 agosto 2000

Ahi ahi ahi. Nima ha confessato: da Chhucksang a Muktinath ci attende un percorso “un po’ duro”. E se Nima dice “un po’ duro” per me significa ai limiti dell’impossibile. Sono preoccupata, inutile nasconderlo, vorrei che Carlito restasse con me, mi accompagnasse durante la salita. Non che mi attenda aiuto, è solo che vorrei che fosse accanto a me. Un supporto psicologico e, al tempo stesso, l’occasione di vivere un momento insieme.
Fisime. Il Carlito ingrana la quarta e diventa un puntino dallo zaino rosso due o tre creste avanti a me. Sono furibonda, gliene voglio da morire ma, intanto, non ho il tempo di occuparmene. Posso solo digrignare i denti e guardare bene dove metto i piedi. Se non fossi così nera potrei anche accorgermi del fatto che intorno a me si dispiega, lì, proprio sotto e sopra la costa che sto percorrendo, un paesaggio fortissimo. Rocce e torrenti come al solito, ma di una tale prepotenza che ne hai quasi paura. Cammino, attenta a dove poso le zampe e penso che un mulo avrebbe parecchia difficoltà a percorrere questo sentiero. In molti punti c’è appena lo spazio per un piede; sotto: lo strapiombo. Continuo, un respiro dopo l’altro.
Scelgo di restare dietro Ambrogio. Mi dà la carica. E poi non sono sola. Perché questa gola, questa strada, queste pietre, questi monti e questo fiumiciattolo potrebbero cominciare a odiarmi. Come io, da qualche parte, li odio; anche se sono bellissimi. Vado e mi mordo dentro. Non è stanchezza, è rabbia. E il contorno è troppo crudo per lenirla. Ambrogio tace. Poi incontriamo Roberta, ferma ad assaporare il vuoto e il pieno che la circondano. Decide di proseguire con noi. A volte ci attende, a volte ci segue. Comunque è lì. E insieme, in tre, arriviamo all’alpeggio. Dove ci aspetta uno degli ultimi pranzi.
Doccia fredda. Carlito mi viene incontro con la macchina da presa; sarà che sono incazzata, sarà che ha un tono sarcastico-superiore, fatto sta che alla videodomanda: “ci dica, ci dica, come si sente?” rispondo con un bel dito medio teso. Creo tensione, ma non me ne importa.
Mangio un po’ in disparte, vicino a Roberta, e osservo il gran casino attorno a me: a qualche centinaio di metri dal passo si è concentrata una varietà faunistica straordinaria. Ci sono uomini e donne che vengono dalla festa di Muktinath, con muli, cavalli, bambini, capre e, udite udite, due yak. Uno schianto: pelosi pelosi, con quel muso lungo, le cornone. Il sorriso si spegne: qualcuno ci spiega che vanno al macello.
Finisco di mangiare. Ambrogio è già pronto a ripartire. Così il gruppo degli atleti si mette in movimento. Carlito neppure mi saluta. Roberta mi chiede di aspettarla: vuole riposare ancora un attimo; che donna: mi fa regali su regali, oggi.
Quando decidiamo di riprendere il cammino abbiamo una piacevole sorpresa: il passo è vicinissimo. Ancora pochi metri di fatica e poi sarà tutta una scivolata a valle. L’ottimismo ritorna sulle nostre facce e ci sembra di raggiungere Muktinath in un attimo.
All’arrivo ci sono birra, tavoli sporchi e una specie di catapecchia in costruzione che pretenderà di qui a qualche mese di chiamarsi albergo. Siamo usciti dall’alto Mustang e si vede: una miriade di lodge, di ristorantini, campi da pallavolo, turisti. È il primo distacco anche se, forse, ancora non lo abbiamo realizzato. Del resto, la civiltà ha i suoi vantaggi: almeno venti pannelli annunciano doccia calda in venti posti diversi, compresa la nostra baracca appoggio.
Da noi, però, neanche a parlarne. La padrona trattiene a stento una risata all’ingenua domanda delle quattro coglione occidentali. Comunque non c’è modo, neppure facendo bollire l’acqua. Così, spinte dal desiderio di toglierci di dosso almeno un poco di polvere, Francesca, le due Roberte e io, ci armiamo di saponi e asciugamani e uno dopo l’altro, li facciamo tutti. Non c’è pannello che ci sfugga, anfratto, per quanto buio, che si sottragga alla nostra inchiesta. L’acqua calda è un acchiappacoglioni, non ce n’è l'ombra; e, nel frattempo, sono calati la sera e il freddo e lavarsi alla fontana gelata ci sembra un’ingiusta punizione.


(nella foto: Chumig Gyatsa a Muktinath, foto di David L. Snellgrove presa nel 1956 e pubblicata nel libro "Himalayan Pilgrimage", Shambhala Publishers, Boston, 1989 (ormai esaurito; www.muktinath.org/album/muktinath_site).

15 ottobre 2007

Ibidem, idem, più tardi

Doccia a secchiate. Una fetta di paradiso. A Ghemi abbiamo vere stanze, affacciate sul grande terrazzo di una casa-albergo con monaco incluso. Peccato non avere bagagli. Almeno per ora. I cuochi preparano comunque il tè delle cinque e mentre ci scottiamo la lingua, annunciati da un campanellino che sembra musica d’Eden, arrivano i muli. Così parte la corsa al lavaggio: i nostri eroi, nessuno escluso, si danno al bucato e ottengono un paio di secchi d’acqua calda a testa per la più bella doccia della vacanza. Poi mutande e capelli restano ad asciugarsi al sole calante. Fino a quando non partono i cimbali del monastero accanto e non scende la sera.


(nella foto: i buchi-caverne dove vivevano un tempo gli abitanti dell'Alto Mustang. www.historum.com)

12 ottobre 2007

Ghemi, 13 agosto 2000

Ma dove vai se un mulo non ce l’hai? Siamo sempre a Lo Ghekar, posto strano ma denso di emozioni. Così accade che, all’alba, Kumar e Passan (gli omini del tè, te li ricordi?) appaiano pervasi da una strana inquietudine. Portano le tazze, la bevanda calda e, poco dopo, l’acqua per le abluzioni, ma qualcosa non gira. È lampante. In effetti, se non fossimo perdutamente addormentati (e ne abbiamo qualche ragione visto che ancora non sono le sei e mezzo), ci accorgeremmo subito dell’assenza. Invece niente. Manco un plissé. Devono dircelo perché ce ne rendiamo coscienti: i muli sono scomparsi. Non so bene chi racconta la storia a Carlo (l’architetto, non il mio): Ganesh e Kalu, responsabili delle some, la scorsa notte hanno deciso di darsi alla bella vita. Così sono andati, con un paio di ragazze, a Marang (il buco del culo del Nepal, per intenderci). Non so cosa ci abbiano trovato, fatto sta che ci sono restati a lungo. Morale: al loro ritorno dei muli non restava neppure l’ombra (anche perché era notte fonda). E pure perché in Nepal non si usa legare le bestie: restano libere come quest’aria purissima.
Nima l’infallibile, svegliato dai due dongiovanni, non ha dubbi e alle tre del mattino fa ripartire i due lungo sentieri opposti alla ricerca degli animali. Alle sei e trenta nessuna nuova. Né Ganesh, né Kalu (il bellissimo), né, tantomeno, i muli. Partiamo comunque. Senza sapere se tende, sacchi a pelo e zaini ci raggiungeranno mai. Ci avviamo all’ennesimo tempio (uno dei pochi che valgano davvero la visita, è del VII secolo e ha dipinti antichi fatti direttamente sulla roccia) ignari di quanto ci riserverà il futuro. Poi, ripartiamo alla volta di Ghemi, dove dormiremo. Muli permettendo. Attraversiamo Dakmar e i suoi dintorni. Forse il luogo più bello che ci sia dato di vedere durante il trekking. Paesaggi da Gran canyon, coste arancioni e carminio e concrezioni a canne d’organo in tutte le sfumature dell’argilla. E, dentro, sempre, quel flauto che suona melodie d'infinito.


(nella foto: Dakmar. www.earthboundexp.com/media/images/Mustang/Dakcliff.jpg)

11 ottobre 2007

Ibidem, idem

Di nuovo a Lo Ghekar. Fa quasi freddo ed è quasi sera. Sul recinto di pietre che circonda quella specie di stalla più aia nella quale sono montate le tende si è installata una capretta; è così carina, bianca e nera, con un musetto così dolce che nessuno, nemmeno la più cruda Roberta, l’imprenditrice, le resiste. Lentamente ci avviciniamo e, incredibile, quella non scappa. L’arcano si svela subito dopo: è legata. A questo punto avrai capito come finisce la storia. Non sapevo se risparmiartela.
Però all’inizio non ci credo. Penso mi prendano in giro. No, davvero, non può essere la nostra cena. Poi vedo il cuoco che affila il coltello (ma non erano quasi tutti buddisti? mah). Pietismo ipocrita, il mio come quello di qualche altro; sgozzata in diretta (nascosta alla nostra vista, per fortuna, ma pur sempre a pochi passi da noi) o no, la capretta, a sera, ce la siamo mangiata (tranne Francesca, che è vegetariana) e anche con sommo gusto. Poi Mustang café a go-go, con il “professore” ubriaco che si esibisce sulla musica di percussioni e fiati, suonati dai portatori, come una danzatrice del ventre.
Finale in coro: Nepal e Italia uniti in un unico inno, la canzone più popolare del paese, “Resham Phiriri”. E, malgrado il sacrificio dell’innocente, quella notte tutti noi, italiani e nepalesi confusi, abbiamo dormito come bébé. Quasi il nostro fosse il sonno dei giusti.


(nella foto: una capretta tibetana, www.inseparabile.com/capretta_tibetana.htm)
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