04 ottobre 2007

Ibidem, idem - Burro di nak

Questa giornata di riposo a Lo Manthang è una manna. Non tanto per piedi, caviglie, polpacci, cosce, adduttori e altri muscoli vari che, nel mio caso, sembrano stare inspiegabilmente benissimo, quanto perché ci permette di girare a casaccio in un villaggio (d’accordo è la capitale del Mustang, ma in realtà invece che quattro saranno quindici case e altrettante stalle) come in una vera vacanza. Cioè di avere un sacco di tempo davanti senza l'obbligo di far niente (non è che camminare sia un obbligo, è un piacere, però se non marci non arrivi, quindi non è che tu possa proprio scegliere).
Carlito, Francesca, Roberta la febbricitante e io percorriamo le strade a circuito mettendo il naso ovunque ci sia una porta aperta. Poi seguiamo una bizzarra indicazione verso un negozio di artigianato sperso in un groviglio di vicoli e finiamo per bussare a una casa. Alla finestra la bella ragazza che ci serve a tavola (la figlia del nostro ospite o di un altro notabile del luogo, non ho capito bene alla fine). Ci vede, ci riconosce, ci sorride scoprendo le labbra su denti bianchissimi e perfetti e ci fa entrare. Pare sia la casa di sua cugina, che, come tutti qui, incidentalmente vende collane e statuine, amuleti e coppette. Niente di interessante. Però la bella ragazza ci piace. Parla un inglese piccolo piccolo, ma è intelligente e sa farsi capire. È analfabeta ma (a dispetto di quello che ci ha appena detto il re) spiega che per le ragazze è normale anche oggi: le bimbe non mettono piede nelle aule (anche se il sovrano sostiene che qui tutti vanno a scuola, ma forse parlava solo per i maschietti). Niente di nuovo sotto il sole.
Ancora, racconta che ha 25 anni ma non è sposata perché “i locali non le piacciono”. Come darle torto? le tibetane a volte sono bellissime, ma gli uomini hanno davvero poco dell'Adone. Ride, è contenta della nostra attenzione, e vuole mostrarci il suo piccolo tesoro; così va a prendere un libro fotografico sul Mustang scritto da un tedesco di un’avvenenza rara. E, perché possiamo meglio apprezzare il volume, ci invita nella sala, dove ci sono la cugina, con il figlio poppante in braccio, e la migliore amica di bellaragazza (non mi riesce di ricordarne il nome): hanno in progetto un girls party per la serata e sono già supereccitate.
Le quattro scimmiette occidentali si siedono così a sfogliare il prezioso cimelio e le leggi dell’ospitalità impongono alle tre donne indigene di offrire il temibile tè locale, già zuccherato e, soprattutto, completato con il burro di nak. È una bevanda quasi mitica, di cui parlano tutti quelli che hanno visitato il Tibet e che ha fama di essere simile a una sorta di brodo e, per di più, di avere un sapore terribile.
Carlito affronta la sua tazza con indomito coraggio mentre le due ragazze e io la guardiamo a lungo con diffidenza. Infine intingo appena e mi dico che ce la si può fare. Poi arriva il colpo gobbo: ci propongono un dolcetto (o forse è un salatino, che ne so?, è una specie di nodo di pasta fritto, dall’apparenza innocua). Infrangendo consapevolmente tutte le norme del galateo internazionale tento di rifiutare, forse colpita da una sorta di preveggenza improvvisa. Rischio l’incidente diplomatico, così indietreggio come di fronte al re e finisco col brandire il misterioso stuzzichino.
Sorrido e lo addento; fatico a trattenere un conato, tanto inatteso quanto immediato. Per riprendermi allungo le labbra verso il tè al burro; un nuovo conato mi fa impallidire. Poso tutto sul tavolino e cerco di respirare profondamente. Carlito ha finito di bere ed è pronto per la seconda razione, mentre le ragazze non hanno neppure il coraggio di guardare il liquido beigiolino che sciacquetta davanti a loro né di affrontare il feroce salatino.
Sono affranta: è, ti giuro, la prima volta che mi capita una cosa del genere. Credevo di aver bevuto di tutto, ovunque. Pozioni che non avevo idea da dove venissero e dove andassero, in recipienti risciacquati alla bell’e meglio in fiumi putridi o in acque stagnanti; rischiando forse la salmonella ma mai la maleducazione. Fino a quando ho dovuto lottare con il burro di nak e, come avrai capito, ha vinto lui.


(nella foto: uno yak in Tibet)

03 ottobre 2007

Ibidem, idem

Ancora Lo Manthang. Nima è in fibrillazione da almeno un paio d’ore. Tutto perché alle quattro e mezzo abbiamo appuntamento con il re. Inteso come il re del Mustang, cioè l’unico tra i sette-otto sovrani del Nepal di un tempo, che ha mantenuto il titolo. A parte, naturalmente, quello vero che regna su tutto il paese e se ne sta in quel di Kathmandu. Comunque, questo re qui è una sorta di governatore, ma ciò non toglie che ci sia un preciso protocollo da rispettare in sua presenza. Anche se si paga un biglietto, le solite 100 rupie, per avere udienza. Sia come sia, Nima è irriconoscibile: sarà la millesima volta che ci spiega come presentare al monarca la sciarpa di seta bianca che ciascuno di noi è tenuto a offrirgli e come indietreggiare rinculando davanti a lui.
Alle quattro e venti esplode il panico: Nima non ci trova; o, meglio, non trova me e altre due ragazze, che stiamo bellamente acquistando cartoline e cianfrusaglie proprio nel negozio davanti alla reggia. Ma i nostri uomini ci beccano e, in parte, si scopre la ragione di tanta agitazione da parte della nostra guida: si è sbagliato nello spiegarci il protocollo. Inezie, ma forse non per lui. Tocca perciò al nipote del re, che, tra l’altro, è anche il nostro ospite, farci un rapido riassunto sul comportamento da tenere, mentre già scaliamo i gradini del palazzo reale. Nota bene che tutto questo suona un po’ ridicolo visto che stiamo recandoci all’udienza in calzoncini corti (non io, ma la maggioranza) e sandali da trekking, ma ogni popolo ha le sue usanze.
Superato, bene o male, il dramma della presentazione delle sciarpe, del saluto (bisogna dire “tashi delek”, ovvero l’equivalente tibetano del nepalese “namaste”, qualcosa tipo “saluto il dio che c'è in te”) e del rinculo (anche se quasi tutti finiscono per voltare le spalle al re o, almeno, di sicuro è quanto accade a Carlito ed Emanuele), scopriamo che sua altezza non è altro che un barbogio 75enne poco disponibile al dialogo e annoiatissimo dalla nostra compagnia. Malgrado questo tiriamo un quarto d’ora di conversazione, compreso l’assaggio del tè che ci viene offerto, prima di telare e tornare a una vita priva di protocollo.


(nella foto: il re del Mustang, www.edelweisstreks.com)

02 ottobre 2007

Ibidem, 11 agosto 2000

Lo Manthang. Siamo alloggiati proprio davanti al palazzo reale, anche se continuiamo a dormire in tenda. E abbiamo constatato soltanto ieri sera che basso prezzo possa avere la felicità: quello di una doccia calda, abbondante, vera. Un piacere così intenso che sembra averci lavato e pulito anche l’anima. Così al mattino ripartiamo di buona lena, con camicie e calzoni di bucato (fatto alla bell’e meglio, a una fontana) e capelli che profumano di shampoo e balsamo.
Ci conquistiamo a fatica il monastero di Vattelapesca, oltre il fiume proibito. Il chiostro pseudo-messicano ocra e mattone - con le finestre e le porte circondate di blu e illuminate da cubi bianchi, intervallate da sprazzi turchesi, rossi e verdi - ne valeva la pena, mentre l’interno del monastero è pressoché uguale a tutti quelli, e sono ormai decine, che abbiamo visitato finora. Però qui c’è un unico monaco, orbo da un occhio, che non ha neppure i biglietti d’ingresso ma esige comunque il pagamento di una tariffa di 100 rupie per lasciarci entrare. Seconda variante: per conquistarci il diritto di raggiungere il monastero oltreconfine il nostro “professore” (l’ufficiale di controllo che per legge deve accompagnarci durante tutto il viaggio e che nel nostro caso si rivela essere, invece che una spia al servizio del governo, un povero diavolo davvero di buon cuore) ha lasciato mezza coscia nelle fauci di un mastino tibetano di proprietà del locale commissariato. Terza variante: per varcare la frontiera proibita dobbiamo essere scortati, a pagamento si intende, da un poliziotto scemo che neppure conosce la strada e ci fa semiscalare un dirupo. Quasi a rischio penne. Con il mio solito tempismo e buon carattere, lo insulto in inglese e in italiano ma Nima e “herr professor”, per quanto infortunato, intervengono a calmare le acque.


(nella foto: mulini di preghiera, www.gcbs-japan.com)

01 ottobre 2007

Lo Manthang, 10 agosto 2000

Ultima tappa dell'andata: da Tsarang a Lo Manthang, mitica capitale del Mustang e confine estremo al di là del quale il nostro visto non vale più. Giornata nervosa: ho insultato Carlito davanti a tutti e poi sono stata io a piangere, rimuginare e soffrire. Forse il problema sta altrove: da quanti giorni non facciamo l’amore? da quanto tempo non abbiamo un secondo per noi, a parte le notti in tenda, poco intime e, soprattutto, riempite solo di sonno?
Camminare serve anche a sfoltire i pensieri e poi, da qualche minuto, accanto a me c’è Francesca, solidale e affettuosa, nel suo modo burbero da lombardo-piemontese. E pure il Mustang mi aiuta. Con un nuovo regalo. Francesca e io abbiamo appena superato il passo di Lo e siamo nel canalone che conduce alla capitale. Siamo in silenzio e, d’un tratto, la nostra curiosità viene attirata da un rumore sordo di fonte imprecisa; non so bene perché, puntiamo entrambe gli occhi in alto. Sopra di noi volano due aquile, che sbattono le ali e producono una sorta di sciabordio da vela nel vento. Sembrano lì per noi, tanto che ripetono più volte il loro numero a nostro uso e consumo. Le lacrime bussano alle ciglia, mentre i due rapaci si lasciano planare lontano, dietro una collina. Poi ecco ancora un’aquila-aliante tornare sopra di noi e scomparire di nuovo dal lato opposto. Facciamo fatica ad abbassare il volto; poi ricominciamo piano la discesa, senza fiato e senza parole.


(nella foto: la copertina di una videocassetta dedicata a Lo Manthang, www.himalayafilmfestival.nl)

28 settembre 2007

Ibidem, idem


E un’altra volta è notte. Io, a differenza di Guccini, non suono neppure. In ogni caso ho una certezza: le mestruazioni o non mi sono mai arrivate o mi sono già sparite. Sospetto allucinazioni da altitudine.
Per questa quarta serata in trekking, comunque, siamo ospiti in una casa tibetana, dove vive una signora con svariati figli e cinque mariti (ma pare non siano mai presenti tutti insieme). Dal punto di vista di noi otto occidentali, il pernottamento in una casa privata è un modo come un altro per entrare davvero in contatto con le genti di questi monti. Leggi: dormiamo in sei in un’unica stanza-soggiorno su panche di cemento che sbucano dalle pareti (gli altri due hanno diritto a una camera più intima ma sembra che sia l’affumicatoio, perciò non riescono a rallegrarsene più che tanto). Dunque formazione a quadrato, a scelta tra il testa-piedi, il testa-testa e il piedi-piedi.
Ad ammorbidire il duro giaciglio gli stessi materassini che abbiamo già adoperato nelle tende e il nostro sacco a pelo personale. Mi domando a che pro Carlito e io abbiamo acquistato due sacchi accoppiabili, per crearne uno unico e grande, matrimoniale, visto che qui ci si corica in fila indiana. Transeat.
Già mi sono scordata dell’ultima doccia, ma qui pare sia impossibile: chi ha visitato il bagno sconsiglia una seduta superiore ai 10 secondi. In effetti, quando verrà il mio turno farò in modo di mettercene anche meno. Ri-transeat.
Però abbiamo non uno, ma due tavoli, su cui: a) consumiamo il cibo preparato per il tea-time, b) intavoliamo un’interminabile partita di Perudo, c) ceniamo. Bevendo birra. d) veniamo iniziati al Mustang café, una bevanda, che ha allietato la maggior parte delle nostre serate, a base, prevedibile, di caffè e di una specie di rhum prodotto in loco che definire disgustoso è dir poco. Lo scoliamo comunque, malgrado il sospetto che contenga anche il famigerato burro di nak, la femmina dello yak. Resta il fatto che, che tu ci abbia fatto caso o no, c’è un unico liquido realmente introvabile da queste parti: l’acqua potabile. E che Roberta ha ancora la febbre.


(nella foto: un chorten, tempietto diciamo, all'entrata di Tsarang; http://myhimalayas.com)

27 settembre 2007

Tsarang, 9 agosto 2000

«Dicono che se si riuscisse a viaggiare alla velocità della luce, non si invecchierebbe. Si resterebbe uguali a se stessi, mentre l’universo fugge verso il passato. Forse è per questo che viaggiamo». Così Carlos Franz, in “Dove una volta c’era il Paradiso”. Sembrava una frase bellissima. Eppure, ora, c’è qualcosa che mi stona. Non ho mai fatto un viaggio più bello di questo, a piedi, perciò vicino alla minima velocità possibile. Camminare è uno strano sport: invece di farti assaporare più lentamente, dunque con il giusto ritmo, quello che ti passa attorno, ti costringe a un rapporto più stretto con le tue emozioni. Così finisce per diventare un acceleratore di sensazioni. Come se i profumi diventassero più profumati, le felicità più felici e i dolori più dolorosi.
A proposito di dolori, l’influenza di Roberta, il mal di montagna dell’altra Roberta, le scottature e i disturbi intestinali di Emanuele e di Carlo (il bell’architetto) non accennano a migliorare. Così, sulla strada per Tsarang, facciamo una sosta all’ospedale giapponese di Ghemi, attivo da circa un anno. È un edificio carinissimo, un po’ sperso in un’area quasi desertica, se non fosse per il muro mani più lungo del Nepal che comincia poco prima dell’ingresso. Le pareti a calce sembrano quasi urlare “che ci faccio qui?” e il giardino centrale, con le aiuole a disegni e scritte pare uno scherzo della natura. Però i medici ci sono e visitano, uno dopo l’altro, attentamente, i nostri malatini, prescrivendo cure e vendendo loro stessi i medicinali del caso.
Finito il check-up si riprende, costeggiando il muro mani sulla sinistra come s’ha da fare, per una delle passeggiate meno faticose e più lunghe dell’intero trekking. Il deserto tra Ghemi e Tsarang pare non abbia mai fine, se non quando il sentiero comincia a inerpicarsi e, dall’alto dell’ennesimo valico, si scorge la terra promessa: orti, mura, abitazioni e onde rosa di grano saraceno. Ha inizio l’interminabile discesa alla città, irraggiungibile come un miraggio.


(nella foto: onde rosa di grano saraceno, www.nepalhiking.com)

26 settembre 2007

Ibidem, idem, un po’ più tardi

Mal di montagna. Questa stanza è un concentrato di polvere: cade sul tavolo proprio mentre ci stiamo preparando la cioccolata; ha trasformato i cuscini nella versione maxi di un cancellino; ha invaso i muri tanto che è ormai una cosa sola con la calce e la tintura. È opprimente. Così, dopo due sorsi e un biscotto, a turno schizziamo fuori. Programmo l’ammutinamento e con Carlo (non Carlito, proprio Carlo, architetto 33enne di bell’aspetto con due occhi da svenimento) lancio il referendum per l’abrogazione della sala da pranzo. Ovvero: siamo in campeggio, che si mangi in tenda. Roberta, l'imprenditrice non l’advertiser (sì, proprio così, su otto persone ci sono due Carli e due Roberte), non partecipa alle votazioni perché è stesa inerte sul sacco a pelo. Per il resto la proposta degli ammutinati raccoglie l’unanimità e i nostri portatori-guide-angeli custodi montano la tenda living-room, con Carlo e me, improvvisamente catturati dai sensi di colpa, che facciamo patetici tentativi di aiutarli. Intanto scende la sera e il freddo: siamo tutti bardati come Bibendum della Michelin, strati e strati di pile e lane e piume.
Un giro di carte prima di cena ci fornisce la scusa per riunirci tutti insieme sotto la tendarefettorio e sprigionare un po’ di calore. Ultime notizie dalla tendadormitorio dell’angolo: Roberta sta male. Ha la nausea, mal di testa, forse la febbre, capogiri e non so che altro. Nima diagnostica con sicurezza: mal di montagna. E comincia a impartire a Emanuele, avvocato e fidanzato dell’imprenditora, le istruzioni per la cura. Intanto scuote la testa: «Sorella Roberta è troppo impaziente. Sorella Roberta cammina troppo troppo fretta». Poi, perentoriamente richiamato dal suo senso del dovere alla nuova missione di infermiere aggiunge: «Emanuele, siamo andiamo». E per la seconda sera siamo soltanto in sette a dividere la cena.


(nella foto: il percorso nell'Alto Mustang, www.visit-nepal.com/lomangthang/Lomangthang-map-1.jpg)

25 settembre 2007

Tamagaon, 8 agosto 2000

Il terzo giorno. È una specie di mistica del trekking: il terzo giorno è il peggiore. Lo dice la cartina, perché è l’unico giorno in cui dobbiamo sormontare quattro passi, in un saliscendi che così penoso non è ancora stato. Lo ripete Roberta, l’advertiser, perché è il giorno in cui le gambe cominciano a cedere. E, soprattutto, perché, da ieri sera, ha una febbre da cavallo ed è allergica alle medicine (e, per coronare il tutto, a meno di una settimana dal rientro dal Nepal è finita in ospedale con la salmonella tifoidea. Indovina come e dove l’ha presa?). Lo conferma Francesca, alla quale sono appena arrivate le mestruazioni e, mentre procede, soffre. In barba a tutte le mistiche, però, (e forse in barba anche al mestruo, che non ho capito se è arrivato o no) per me il terzo giorno è quello della rivelazione: in un punto imprecisato tra Chele e Tamagaon ho finalmente imparato a camminare. Anzi, il punto lo conosco, solo che non lo so individuare sulla mappa: sarà a mezz’ora al massimo da Chele, quando comincia quella che, in simili frangenti, sembra un’autostrada di sassi. Lì, come illuminata sulla via di Tamagaon, ho cominciato a seguire il ritmo del mio respiro e il fiatone è sparito insieme alla fatica. Mi sono sentita straordinariamente felice e in pace con il mondo. Ho persino incontrato un francese che mi ha trovata “radieuse”. E ho camminato come mai m’era accaduto prima. In stato di grazia e di incoscienza. Così profondo che quando, al ritorno, siamo ripassati per alcuni tratti del medesimo percorso non ci potevo credere: come diavolo avevo potuto arrampicarmi per quelle pietraie ripide e infide?

24 settembre 2007

Ibidem, idem, più tardi

Oggi le comiche. Il nostro bagno non è partico- larmente accoglien- te: un buco circondato da una tenda. Così Francesca, professione musicoterapeuta, e io decidiamo, con il favore delle tenebre, di appartarci alla belle étoile. Saliamo un’erta proprio dietro il nostro accampamento (la stessa che riaffronteremo domattina, ma, appunto, lo sapremo solo la mattina dopo), che ha l’aria di essere stata già scelta come gabinetto da molti. Cammina cammina, troviamo finalmente un luogo che ci appare propizio. Perciò caliamo le braghe e ci mettiamo culo all’aria. È un attimo e sento un ringhio alle spalle; nell’ordine (spero): urlo, mi alzo, afferro i calzoni, mi precipito a valle, incurante delle cacche altrui e convinta che un mastino tibetano (temibilissimo cane che tornerà più avanti nella storia) stia per azzannarmi il fondoschiena. Francesca fa gli stessi movimenti all’unisono con me (anche se lei non si immagina il mastino), mentre il guardiano (uno dei nostri portatori) dà l’allarme. Grandissimo trambusto nel campo: qualcuno sveglia Nima (la solita guida capo, un angelo).
Così il boss, Santa (futuro aiuto-guida, parente di Nima e con un braccio inservibile) e un paio d’altri ragazzi partono armati di pile e grinta verso l’ignoto disturbatore della quiete privatissima. Passano meno di due secondi e sentiamo una risata di quelle che davvero possono seppellire, dopodiché i quattro scendono a braccia e gambe scomposte sghignazzando e imitando le due sorelle fifone (in Nepal, in segno di rispetto, ci si rivolge a donne e uomini chiamandoli, rispettivamente, sorelle e fratelli). Il mio mastino era un tubo dell’acqua gorgogliante a fior di terra. Però è stata, giuro, l’unica volta che ho avuto paura.


(nella foto: un mastino tibetano, www.imolossideltibet.com)

21 settembre 2007

Chele, 7 agosto 2000

Prima notte in tenda. Mi sembra di non avere chiuso occhio. L’incredibile è che, quando arriva il tè del buon risveglio, non mi sento stanca. Neanche un po’. Sarà, forse, per il sorriso dei più giovani tra i portatori, Passan e Kumar, che, al mattino, a un’ora compresa tra le cinque e le sei e trenta, arrivano a darci il buongiorno e a versare nelle tazze l’infusione calda. Sorseggio il tè incredula, avvolta dal sacco a pelo che è stato sverginato solo da poche ore. Sbatto gli occhi, attenta a non scottarmi la lingua. Carlito, il mio amore, monosillaba qualcosa mentre comincio a realizzare che sta per avere inizio il secondo giorno, la fatica, l’avventura e che, forse, cinque ore di cammino mineranno l’entusiasmo, il fiato e le gambe. Si spera che minino anche la ciccia.
Le riflessioni sono interrotte da un secondo passaggio di Passan e Kumar con due bacinelle d’acqua calda: sono il nostro lavandino, la nostra doccia e anche il nostro bidet quotidiani. Esco in reggiseno e pantaloni, saluto i compagni di viaggio e dò il via alle abluzioni mentre due o tre dei nostri uomini si rasano.
Oggi dobbiamo spingerci fino a Chele. È esattamente dal punto in cui siamo, Kagbeni, che si entra nel regno proibito dell’alto Mustang, quello che ci costa 70 dollari al giorno solo per il visto e che accoglie la maggior parte dei rifugiati tibetani in Nepal. A questa sorta di porta d’ingresso, un cartello detta il comportamento da tenere: “Prendi solo foto, lascia solo orme”. Va da sé che obbediremo.
C’è il sole, la colazione è abbondante e i veri zaini li portano i muli. Così mi spalmo la protezione, mi infilo il cappello e affronto la prima salita autentica. Per ora con grinta.
Dalle nuvole il Nilgiri (che supera i 7000 metri) gioca a bau-cetti, ma è sempre meglio che un calcio nel sedere.
Si parla poco e si sale, fino a quando il Khali Ghandaki diventa un nastro e le rocce assumono un bel colore rosso. Aggiriamo la cresta del canyon e ridiscendiamo verso il fiume, muti per lo stupore più che per la fatica, con gli occhi che guardano buchi come grotte, alti sulla roccia. Cento, duecento anni fa erano villaggi. Nessuno di noi riesce a capacitarsi del fatto che i Mustanghesi (ma certamente non si chiamano così) abitassero lassù. Che razza di idee.
Ci fermiamo per il pranzo a Tangbe, vicoli stretti e preghiere nel vento. Sventolano come stendardi, si imprimono sui rulli girevoli dei muri mani, ti vengono alle labbra perché si disperdano nell’aria anche se non sei credente. E riparti con lo sguardo sciolto.
Il passo, però, mi si fa pesante, perciò, quando avvisto la salita finale (c’è sempre una salita finale per darti la mazzata da stramazzo) vorrei tanto un mulo sotto il sedere. Chele è arrampicata su una rocca e non ho tempo di rendermi conto di quanto sia bella: arranco e mi fermo, sosto e arranco, chiacchiero con Nima, la nostra guida nepalese, e riarranco. Però ce la faccio e, arrivata alla meta, mi getto su una seggiola e sorseggio una coca-cola. Già: niente telefono, niente elettricità, niente auto, niente acqua corrente, ma coca cola a go-go.


(nella foto: un muro mani nell'Alto Mustang. www.sunita.nl)

20 settembre 2007

Mustang lento

Premessa: questo è il diario di un viaggio lontano nel tempo, un viaggio che Pinocchietto e io abbiamo fatto nel 2000, il più bel viaggio che abbiamo mai fatto. È tutto fuorché inedito, è stato pubblicato su Internet non so quante volte, persino in e-book. Ma, visto che è roba mia, il suo posto naturale è qui, in mezzo agli altri racconti di viaggio della turista smarrita. E ora si comincia.

Kagbeni, 6 agosto 2000

Chiudi gli occhi. Poi, prova a immaginare il letto pietroso di un fiume grigio (si chiama Khali Ghandaki, che in nepalese vuol dire, per la verità, fiume nero), insinuato in una gola dominata da alte rocce tra il perla e il sabbia. E ora prova a immaginare me, che sgambetto come un cerbiatto (siamo soltanto al primo giorno, sia chiaro), in alto, su un sentiero che scende fino a far guadare le acque e poi risale inerpicandosi sull'argilla. Su e giù, giù e su, con il vento (per fortuna a favore) che fischia attraverso i miei giganteschi orecchini.
Poco dopo (il primo giorno abbiamo camminato solo tre ore), il miracolo: dietro una curva compare, in lontananza ma non troppo, una macchia verde di coltivazioni, in mezzo alla quale spicca una costruzione rosso mattone (il gompa, ovvero il tempio, di Kagbeni). Non resta che prendere un sospiro profondo, sopraffatti dalla cartolina da brivido dell'imprevisto, e riprendere il cammino. Ormai si canta a squarciagola e si vola sul sentiero, mentre l'entusiasmo aumenta l'appetito.
A proposito, in dodici giorni di trekking dodici, ho perso soltanto un chilo; sia detto a demerito, onta e ignominia dei nostri fantastici cuochi che ci viziavano e rimpinzavano come oche da foie gras.


(nella foto: Kagbeni e il Khali Ghandaki. Foto: www.dkohnstudios.com)

19 settembre 2007

14 agosto 2007 - Il Guatemala su "Le Monde"

Casa. Parigi. Incredulità. L'aereo è un mezzo di trasporto delirante. Ormai uso quasi più l'aereo dell'auto, ma resta delirante. Non si può passare in una manciata di ore dai Tropici a questo merdoso clima continentale, dai volti maya dei chapin al melting pot del X arrondissement, dal languore del Centroamerica alla geometria di Parigi. Non si può. Ma è quello che faccio sempre: niente di strano se crescendo mi sento sempre più aliena.
Tutto è come sempre e, come sempre accade, ho lasciato un brandello di cuore pure laggiù, così da oggi in poi ci sarà un altro paese da seguire con partecipazione, un altro luogo del mondo le cui sorti mi saranno un po' più care. Anche questo succede sempre.
E, stamane, quando, come sempre, accendo Berenice e sfoglio le pagine informatiche dei giornali francesi, "Le Monde" parla di Guatemala. Una notizia di quelle dolorose. Eccola: "In Guatemala le autorità tentano di frenare il traffico di bambini. La giustizia guatemalteca ritiene che il traffico di bambini a scopo adozione renda ogni anno alla mafia circa 200 milioni di dollari. Dopo la Cina il Guatemala è il principale paese d'origine dei bambini adottati nei paesi ricchi". Mi avrebbe fatto male anche un mese fa. Oggi un po' di più.


(nell'immagine: la bandiera del Guatemala)

18 settembre 2007

13 agosto 2007 - Antigua-Atlanta. virginie non abita più qui

It’s over. Terminado. Finito. Con i ritardi della mattina (mezz’ora per lo shuttle, il più sfigato che abbiamo preso in tutto il Guatemala e mezz’ora da prevedere per l’imbarco, visto che il nostro aereo è appena arrivato, sono le 12.25 e la partenza doveva essere alle 12.35), il mio nervosismo che sale, il tentativo, riuscito per una volta, di restare zen, gli americani che mi saturano le orecchie sul pullmino, i sogni di stanotte che già si svolgevano al rientro. I’m coming back, Paris. Estoy volvendo, Paris. Sto tornando, Parigi.

(il primo giorno a Città del Guatemala piove, l’ultimo giorno ad Antigua pure. Gioie e dolori del Centroamerica)

Ultima nota a margine sul volo Città del Guatemala-Atlanta (Delta Airlines): equipaggio di streghe, ma pazienza. In compenso il comandante, made in the Usa a giudicare dall’accento (garantisce Pinocchietto), manco si degna di tradurre in spagnolo i messaggi che continua a lanciare ai passeggeri. Entonces: que viva America. Pero Latina.


(nella foto: il mio diario di viaggio)

17 settembre 2007

Rigoberta perché

Ecco l'analisi del Manifesto

12 agosto 2007 - Copan-Antigua. Quasi fine

Quasi partita. E pure quasi tornata ormai. Seduta ad aspettare i sandwich per il viaggio in uno dei due quartieri generali eletti a Copan da Pinocchietto e me: il Qg per la colazione, Casa Villamil, uno dei rari posti dove le cameriere sorridono e sono gentili a Copan. Oltre al fatto che il locale è una delizia: un piccolo patio con fontana, pareti in pietra e muro arancio, un primo balcone dai muri turchesi e una terrazza sui tetti di Copan. Dovessi fermarmi a Copan trascinerei le mie ossa da Casa Villamil al Via Via. Y nada mas.

Nota a margine numero quattro: 5 incidenti automobilistici andando a Panajachel, 3 tra Copan e Antigua, 1 tra Antigua e l’aeroporto. Evidentemente i guatemaltechi sono adorabili ma non sanno guidare. A meno che, come suggeriscono i vari autisti dei mezzi che abbiamo preso attraverso il Guatemala, non siano semplicemente un po’ troppo bevuti. In questo caso Honduras batte Guatemala 1 a 0: l’unico punto di ritrovo di Alcolisti Anonimi da noi avvistato si trova a Copan, nel Parque Central.


(nella foto: Antigua, lavatoio)

13 settembre 2007

11 agosto 2007 - Sempre Copan

e sempre maledetti gringos. Questa mattina alle 6 un amabile duo composto da padre e figlia ha cominciato a berciare come Donald e Daisy Duck (alias Paperino e Paperina) e ha svegliato, probabilmente, l’intero albergo e, certamente, Pinocchietto e me. Il dialogo urlato fa montare su tutte le furie mi amor che sta per sfoderare l’arma del suo temibile inglese. Lo blocco con un polso che non sapevo di avere così fermo perché sospetto abbia già in canna uno “Shut up” fulminante ma forse ho torto. E il sonno fatica a tornare.
Per gli hondureñi, viceversa, la domanda chiave sembra essere: che farne di tutti gli stranieri che vengono a rompere a Copan? Pelarli. Per entrare al sito archeologico e fare la totale (cioè anche la visita nei tunnel, due, che non meritano assolutamente la spesa, ma nessuno, neppure la Lonely Planet e la Rough Guide di cui siamo dotati, te lo dice, nonché quella al museo delle sculture, che, invece, non è male) abbiamo sborsato la bellezza di 37 dollari. Più o meno tre volte il prezzo del biglietto di ingresso al Louvre. Poco male: il sito, per quanto ampiamente restaurato, merita senz’altro il viaggio. La storia non ha prezzo, giusto?
I turisti hondureñi che seguono la nostra stessa guida, un po’ si vergognano. A loro sembra anormale che noi paghiamo così tanto. Per fortuna, loro, giustamente, hanno un prezzo tutto diverso (un decimo? meno? non riusciamo a saperlo con certezza). Altrimenti Copan sarebbe di fatto proibita a tutti i locali. Del resto fino a qualche tempo fa il prezzo ridotto valeva solo per gli hondureñi, poi hanno dovuto ricredersi ed estendere lo sconto a tutti i centramericani: il sito di Copan si era improvvisamente svuotato, bello e impossibile.


(nella foto: una delle sculture che provengono dai templi di Copan)

12 settembre 2007

10 agosto 2007 - Rio Dulce-Copan (Honduras). Virginie Torquemada


Ieri alle 14.30, come da programma del nostro impre- scindibile lanchero siamo rientrati a Livingston dove già ci attendeva la barca che doveva portarci al Catamaran, appena oltre Rio Dulce (ma 50 quetzales in più a testa. Mi sa che il lanchero, sentendo il nome dell’albergo ha capito quel che prima non sapeva, che possiamo. Dunque, giustamente, carica. Almeno penso. Perché il Catamaran è sì un po’ più lontano di Rio Dulce, ma appena appena). Comunque l’hotel è un po’ l’oasi che cercavamo. Magari un filo troppo da gringos, ma la piscina è perfetta, il bungalow Tango, su palafitte, un sogno, il ristorante il migliore che abbiamo provato finora in Guatemala. Per giunta, questa mattina alla reception c’è un mito di ragazzo, Vinicio Guevara, che, in quattro e quattr’otto, ci trova un taxi che ci porta fino a Copan. Y aqui estamos.
Mica tanto compiaciuti. Al punto che credo calerò il machete della mia ignoranza su un intero popolo. Prima impressione dell’Honduras (meglio di Copan): paese pieno di puttane, magnaccia e narcotrafficanti. Copan sembra ricca, piena di macchinoni e motoni, e tranquilla. Ma gli hondureñi, a parte il cameriere e il padrone o gerente che sia del nostro hotel, sembrano decisamente meno simpatici dei guatemaltechi. Vamos ver. Antipatici pure nel bar figo Via Via. Niente, la seconda impressione è uguale identica alla prima. Burini indifferenti quando va bene, come i motociclisti in Harley Davidson e le ragazze del negozio di souvenir che abbiamo svaligiato nel pomeriggio, similmafiosi repellenti quando va male. Bah, certo che come Torquemada non scherzo un cazzo: in mezza giornata ho liquidato e bollato un intero paese. Mica male.


(nella foto: il Parque Central, a Copan)

11 settembre 2007

9 agosto 2007 - Livingston-Rio Dulce. Tutti in lancia

Sorpresa: questa mattina all’imbar- cadero di Livingston scoviamo Thierry e Flo a bordo di una lancia. Peccato che stiano per lasciare Livingston alla volta di Flores. E, comunque, noi siamo in partenza per il tour in lancia organizzato dal lanchero che ci ha portato fin qui. Il giro comprende Los Siete Altares, un passaggio più veloce della luce al Rio Cocoli (nel senso che il lanchero ci dice dalla barca “questa è playa Cocoli, ma è chiusa”) e l’approdo alla Playa Blanca, dove la playa è in effetti bastante blanca, ma dove il mare è un po’ verde marcio (e visto che trattasi di Mar dei Caraibi la cosa è quanto meno sorprendente). Bah, ci dicono che sarebbe stato meglio raggiungere a piedi Los Siete Altares e ne siamo coscienti perché la parte più interessante sta nella strada che è anche l’area in cui abitano i Garifuna, discendenti di neri ribellatisi alla schiavitù (e poi: anche no, visto che, unica al mondo in un gruppo alquanto misto, riesco a sudare siete camicie per guadare l’acquetta che porta alla cascata), ma in ogni modo i nostri stretti tempi non ce lo permettono: Pinocchietto e io stasera dormiamo a Rio Dulce e non possiamo tardare troppo a imbarcarci sulla lancia di ritorno.


(nella foto: la Playa Blanca, Livingston)

10 settembre 2007

8 agosto 2008 - Flores-Rio Dulce-Livingston. Profumo di Caraibi

Flores resta nel Petén e i Caraibi non sono proprio attaccati, eppure qui già si respira quell’indolenza caraibica che a volte fa arrabbiare la parte peggiore (e più milanese) di me e a volte tanto mi incanta. Qui i Tropici mi hanno riacchiappato, stregandomi come sempre. Come la prima volta, ormai quasi 20 anni fa, che ho messo il primo piede fuori dall’Europa, in un paese che, ancora oggi, al solo evocarlo, mi fa battere un po’ più forte il cuore: il Kenya.
Qui sono l’indolenza, il caldo umido, gli sguardi degli uomini e le forme delle donne, quasi prima dei colori e degli odori, delle palme attorno, del sudore che gocciola lungo il collo e imperla il labbro superiore. Tutte cose che amo, chissà poi perché. E che sono più presenti qui a Flores e specialmente ora, già a Sant’Elena per la verità, visto che per la prima volta da quando siamo arrivati in Guatemala ci troviamo infine nel luogo in cui di solito tutti i viaggi in America Latina cominciano e finiscono: una stazione degli autobus.
L’elastico tempo guatemalteco fa sì che il nostro bus Linea Dorada, 1° classe e aria condizionata per quattro ore di viaggio previste e 170 quetzales a testa, conti di partire con mezz’ora di ritardo sull’orario ufficiale. Del resto ho già esplorato l’intero parcheggio e l’autobus neppure c’è.
Ho appena sorriso al primo nero guatemalteco che incontro. Di sicuro va a Livingston, dove siamo diretti anche noi, enclave caraibica in terra maya, dove la marimba incontra il reggae. Il tizio in questione ha il più incredibile cappello che abbia mai visto, una sorta di cilindro rasta con visiera alto almeno 25 cm e in cuoio nero.
La fauna umana in attesa del bus per Rio Dulce è assolutamente fantastica: c’è un italiano superlativo (Fabrizio) che spiega in un inglese rappezzato la ricetta delle crêpes (la mamma è francese, spiega) e ammetto che la ricetta è superba: tre cucchiai colmi di farina per ogni uovo. Farina a fontana, uova al centro e poi si cominciano a mescolare le uova e a incorporare pian piano la farina. Quando è fatto si aggiunge il latte; la quantità di latte è giusta quando il liquido comincia a filtrare tra le dita.

h. 11 - a bordo, finalmente. Pronti al decollo. Incredibile quant’è verde questo paese: solo attraversando il Petén si capisce davvero che quanto ci hanno raccontato, cioè che questo è il secondo più importante e più esteso polmone verde del pianeta, ha ottime probabilità di essere vero.
Lungo la strada, poco prima di Rio Dulce, un cartello che annuncia la vendita di armi e munizioni mi fa tornare in mente gli avvisi, quanto meno curiosi, che ho visto in tutte le banche: “non si entra armati”. A Rio Dulce, ormai ben più che in odore di Caraibi (con ragazze incantevoli) tutto questo acquista un senso diverso e assai più preciso: tutti girano armati. C’è un tizio che passeggia con un fucile a pompa nella mano e una signora dall’apparenza paciosa con la sua brava pistola nella fondina attaccata alla cintura. Piuttosto inquietante. E poi, come dice il messicano che sta per imbarcarsi con noi e con un’altra coppia di italiani (il già citato Fabrizio e Valentina), tutti sono armati tranne noi.

Livingston
Livingston è una vera e propria enclave reggae in terra guatemalteca. Bienvenidos a Livingston ci accoglie un cartello stradale blu di fianco al molo. E poco oltre uno striscione dice “Bienvenidos! A Livingston declarado Municipio Amigo de la Paz”. Rasta men vibrations ovunque. Con dreadlocks di contorno. E, naturalmente, Fabrizio non è ancora sbarcato che già gli offrono da fumare.
Paese povero e semplice ma colorato e musicale. Ci si sente bene, insomma. Superrilassati. Il tapado, zuppa di pesce locale con banane e latte di cocco, è come la compagnia: ottimo e abbondante.


(nella foto: autobus alla stazione di Sant'Elena)

09 settembre 2007

7 agosto 2007 - Tikal-Flores. Romanticherie

Margarita al tramonto dietro l’isola al centro del bellissimo lago di Petén Itza, sull’isola di Flores, incante- vole. Unico problema (ma, in fondo, marginale) il margarita è pessimo (dolce, per giunta, ma che è?). Ho l’impressione che Flores sia una destinazione privilegiata per le vacanze dei guatemaltechi, magari i chapin (termine che designa appunto i locali) amano il margarita dolce, quien sabe?
Attorno a me c’è una frenetica corsa a fare le foto usando il tramonto come sfondo: il movimento attorno a noi si moltiplica. Resta che, come ho scritto nella maggior parte delle cartoline appena compilate, lo spettacolo toglie il respiro: l’acqua è ormai diventata oro rosa e il verde degli alberi si fa più scuro istante dopo istante. Un miracolo che si ripete ogni giorno e che Pinocchietto e io abbiamo la fortuna di poter raccogliere insieme in questo qui e in questo ora.
Grazie a questa banalità del sublime (o sublimità del banale?) Flores mi rimarrà negli occhi per sempre. E poi c’è la gita in canoa a due di oggi pomeriggio e la decina di volte in cui abbiamo rischiato di ribaltarci. Ma ce l’abbiamo fatta: siamo una squadra fortissimi.


(nella foto: tramonto a Flores)

08 settembre 2007

6 agosto 2007 - Tikal e Uaxactun. Maya platonici?

Ogni giorno a Tikal un centinaio di turisti provenienti da tutto il mondo celebra una sorta di rito mistico collettivo: dai gradini della piramide n° IV, la più alta di Tikal, con i suoi 64 metri, si assiste al risveglio della foresta e del sito archeologico. Il sole non si vede, ogni cosa è avvolta nella bruma che lentamente scopre la selva e fa apparire e scomparire i templi in lontananza. Tutti gli animali salutano il giorno gridando o, forse, chissà, cantando a modo loro (a meno che non stiano semplicemente sbadigliando, ma, in questo caso,alla faccia degli sbadigli). L’insieme dei suoni produce uno strano fenomeno: la cacofonia apparente diventa musica e rende tutti i presenti muti. Sarà che siamo partiti alle 4.30 e che abbiamo marciato 40 minuti nella giungla, anche se mi piace pensare che sia semplicemente, e, per una volta, meno cinicamente, la maestà dello spettacolo, fatto sta che il rito zittisce tutti per almeno mezz’ora. E, probabilmente, questa è, in un certo senso, la più grande delle magie.
Solo dopo che piramidi e templi si sono fatti completamente visibili, arrivano le guide a dividerci in gruppo, secondo l’agenzia e/o la lingua. Così seguiamo Neftali alla scoperta di un’altra parte di Tikal, il bellissimo Mondo Perdido e la piazza dei Sette Templi.
Nel pomeriggio, sempre insieme a Neftali, siamo gli unici turisti a visitare Uaxactun. A quanto ci dice la nostra guida, la cittadina, che vanta 4000 anni di storia, era un po’ “la Nasa dei Maya”, il luogo dove risiedevano scienziati e astronomi e il più preciso, se non il più importante, osservatorio astronomico del mondo maya. Preferisco pensare che alcune monarchie maya abbiano in qualche modo saputo anticipare in epoca preclassica qualcuno dei concetti della “Repubblica” di Platone. Chissà.
Il complesso delle rovine è meno imponente di Tikal ma possiede una sorta di aura mistica, come un po’ tutti i centri religiosi, a qualsiasi civiltà appartengano e in qualsiasi latitudine si trovino. Anche solo la calzada, la strada che conduceva alla piazza principale, nella quale non resta alcuna vestigia, e che oggi è solo una sorta di radura longilinea con qualche maestoso albero che crea una volta protettiva, emana un fascino sovrannaturale.


(nella foto: vestigia maya a Uaxactun)

07 settembre 2007

5 agosto 2007 - Antigua-Flores-Tikal. Sulle tracce dei Maya

Cominciamo subito con un primo giro pomeridiano delle rovine, accompagnati da Neftali, un bravo figlio, meticcio di origine kekchi, un po’ furbetto, leggermente esoso e non particolarmente colto, ma, insomma, dopo aver visto il suo “palazzo” (la definizione è sua, faceva un ironico riferimento ai palazzi maya) a Uaxactun, penso che i suoi extradollari se li strameriti.
Il sito è molto bello, le rovine immerse nella giungla, con le scimmie-ragno, i tucani e i procioni che accompagnano la scoperta. Neftali ci mostra le cisterne costruite dai Maya che, a suo dire, avrebbero scelto di insediarsi in questa zona per l’abbondanza di pietre (da costruzione). Viceversa, l’acqua non c’è sempre e ci sono tre mesi di secco totale. Tuttavia il Petén, che è il più grande dipartimento di tutto il Guatemala (più esteso dell’intero Belize), ha l’aria più che fertile e ospita il biotopo maya protetto, che si estende a Tikal e dintorni per quasi due milioni di ettari.
L’unico neo di questo bel percorso indietro nel tempo e avanti nella natura è una conversazione che ci è sembrato di captare tra due tizi nel bar del parco: l’antica Ruta Maya sarebbe uno dei percorsi privilegiati del narcotraffico internazionale. Passerà anche di qui?

Nota a margine numero tre: ! A Tikal, giustamente, i cellulari non prendono (a parte che sulla cima della Piramide IV). Così imparate, Pinocchietto compreso, a portarveli in vacanza.


(nella foto: Tikal, piramide numero boh, la turista ha smarrito pure la memoria)

06 settembre 2007

4 agosto 2007 - Panajachel-Antigua. Tempo di elezioni

Devo ricominciare? Antigua è come l’abbiamo lasciata e il viaggio ininte- ressante, perciò meglio parlare (e scrivere) d’altro. Per esempio di Rigoberta Menchu, citata nel capitoletto precedente. La sua biografia, “Me llamo Rigoberta Menchu, y asi me nacio la conciencia” la sto leggendo soltanto ora. Rigoberta, però, il premio Nobel per la pace l’ha già vinto nel 1992. Attualmente è candidata alla presidenza del Guatemala, le elezioni sono il 9 settembre e oggi, proprio mentre scrivo sul blog, oggi 6 settembre intendo, i sondaggi (sempre loro, maledetti) la danno indietro. Sergio diceva che non vuol dire, che è difficile, se non impossibile, entrare nella testa de los indigenas.
Mentre viaggio mi guardo attorno: dal primo giorno ho visto un sacco di manifesti dell’Une, un partito di centrosinistra con un programma quasi di destra, del Gana, il partito dell’attuale presidente che più di destra è raro, e, cosa ancor più spaventosa, una quantità di propaganda per i fascisti del partito di Otto Perez Molina, il Partido Patriota. Il sorriso di Rigoberta è assente. Lo scorgo solo tre volte in tutta la vacanza e sempre nei pressi di Guatemala City. Intanto continuo a leggere che la violenza politica cresce in Guatemala e il 16 agosto “Le Monde” scrive: “La campagna per le elezioni generali del 9 settembre è la più sanguinaria dal ritorno della democrazia nel 1985. Una quarantina di candidati e di militanti sono già stati assassinati”. Ahi, que pena. In bocca al lupo, señora Menchu e buona fortuna Guatemala.


Altre informazioni qui


(nella foto: Rigoberta Menchu)

05 settembre 2007

3 agosto 2007 - lago di Atitlan (Santiago, San Pedro e Tzununa, cioè colibrì in maya). Yo soy americano

“Mi tierra es casi un paraiso de todo lo lindo que es la naturaleza en esos lugares ya que no hay carreteras, no hay vehiculos. Solo entran personas” da “Me llamo Rigoberta Menchu y asi me nacio la conciencia”, prima edizione 1985.
Ed ecco la giornata del lago: appuntamento alle 8 meno un quarto all’hotel di Sergio. In realtà troviamo il nostro ad aspettarci già lungo la Calle Embarcadero (anche perché siamo leggermente in ritardo). Arriviamo alle lance al momento più opportuno per imbarcarci verso Santiago, la prima tappa, turistica, come dice Sergio. “Avete capito alla perfezione il concetto di tempo guatemalteco”, aggiunge, “elastico”. Poi comincia a raccontare di sé, pecora nera figlio di una pecora nera. La madre, quiché, rimase incinta di un mam (aveva altri due figli da un precedente marito, quiché). Bisogna sapere che i quiché ebbero la meglio sui mam a Xela, dunque, i mam sono gli sconfitti e i quiché i fieri conquistatori. In base a questa presunta superiorità quiché, i genitori della madre le offrirono solo due possibilità, entrambe terribili: scegliere di stare con il suo nuovo uomo mam e con il bambino, ma spogliarsi della sua appartenenza quiché e con questo rinunciare per sempre anche solo a vedere la sua famiglia oppure lasciare che fossero i nonni ad allevare il bambino nella più pura tradizione quiché. Furono la disgrazia e la fortuna di Sergio: non conobbe mai suo padre ma apprese dal nonno tutta la cultura e la mitologia maya. Quel sapere che oggi può dividere con noi.
Comincia così il suo racconto, anche per dirci che non approva la retorica attorno al povero maya, vittima dei Conquistadores e del razzismo da parte dei bianchi. Non che non siano verità, dice lui, ma anche tra maya e maya ci sono state lotte fratricide e c’è tuttora razzismo. La prova è la sua storia personale. Reietto fin prima di nascere e disprezzato all’interno della sua stessa famiglia perché al 50% mam. Subito dopo, però, ci tiene a precisare che ama la sua gente, soprattutto per via di quel celebre sorriso che, a dispetto di tutte le disgrazie che l’hanno colpita, continua a illuminarne il volto.
Sbarcati a Santiago Sergio comincia a spiegarci la concezione maya del mondo e il perché della facilità con cui i maya hanno accettato la religione cattolica. Per esempio la croce: per i maya il mondo stesso è una croce, una x per essere più esatti, nella quale i punti cardinali giocano un ruolo fondamentale. Al nord corrisponde il colore bianco, al sud, regno dei morti, il giallo, all’est, dove si leva il sole, il rosso, e all’ovest, dove il sole muore, il nero. Al centro il verde, simbolo della vita. Ci mostra alcune stoffe ricamate a mano e ci fa riconoscere alcuni elementi importanti nella cultura maya: il sole (cioè il maschio) e la luna (la donna), la piramide, il quetzal (uccello mitico, simbolo del Guatemala, oggi quasi estinto), gli zigzag orizzontali, ossia le montagne, quelli verticali, la pioggia, il fulmine. Poi ci fa vedere una sauna maya, un tuj, che affianca sempre un’abitazione. Qui, al momento del travaglio, entravano la luna sul punto di partorire, il suo sole e la levatrice. Alla madre la levatrice dava in braccio il bambino, mentre al padre toccava la placenta. Se il neonato era maschio il padre seppelliva la placenta all’interno della sauna, in modo che, quando a sua volta il figlio sarebbe diventato padre all’interno dello stesso tuj parte della sua anima si fondesse con quella del nuovo nato.
A Santiago, di etnia tzutuhil, le donne portano huipil (le casacche tradizionali delle donne guatemalteche) su cui sono riccamente ricamati un mucchio di uccelli (ogni etnia e ogni villaggio ha motivi e colori propri che ne caratterizzano il ricamo). Santiago è l’ultimo villaggio che si affaccia sul lago di Atitlan nel quale gli uomini portino ancora il costume tradizionale (si vede ancora qualche vecchio anche a San Pedro della Laguna).
Attraversiamo il mercato dove, come a Chichi, si vedono donne preparare le tortillas usando anche la calce viva. L’uso della calce era indispensabile prima dell’arrivo dei Conquistadores, cioè prima dell’arrivo delle mucche e del loro latte: attraverso la calce le tortillas assorbivano il calcio necessario al nostro organismo. Sergio ci mostra erbe, spezie e pil-pil (che non è, come pensiamo in Europa, peperoncino, quello viene aggiunto al preparato; il pil-pil di suo non è piccante), le varietà di fagioli e di mais (di quattro colori, gli stessi dei punti cardinali, bianco, rosso, giallo e nero) e poi saliamo alla chiesa.
All’interno un miscuglio di simboli cattolici e maya (le spighe sull’altare, per esempio, che già abbiamo visto riprodotte sulla facciata della chiesa della Merced ad Antigua. Il mais per i maya è un dio e gli uomini discendono dal mais. Cfr. “Hombres de mais” di Miguel Angel Asturias). Ci sono santi vestiti con veri abiti e un Gesù a cavallo che calza dei Santiago. La Chiesa è piena, quasi esclusivamente di donne e donne sono pure quante officiano il rito. All’interno della chiesa una targa ricorda padre Stanley Francis Rother, scomodo missionario dell’Oklahoma, che aveva fondato una scuola per gli indigeni e che, perciò, venne considerato, evidentemente, un pericolosissimo rivoluzionario e trucidato, in chiesa, nel 1981, dagli squadroni della morte. L’educazione (o piuttosto la mancanza di istruzione) è una delle chiavi di volta dell’oppressione in Guatemala. Al termine della giornata, a Tzununa, abbiamo incontrato un poeta militante della causa dei popoli indigeni che si batte, tra le altre cose ma quasi in primo luogo, per il diritto a un’istruzione pubblica, gratuita e laica per tutti. Come del resto, ci dice, sta scritto nella Costituzione guatemalteca. Analfabetismo, alcolismo, machismo, oblio dei costumi e del sapere tradizionali: i maya sono affetti dalle stesse malattie che distruggono tutte le culture e i popoli del mondo. Il nonno di Sergio faceva un buco nella terra con un bastone e vi piantava nove semi: tre di mais, tre di fagioli e tre di zucca. Questo semplice gesto garantiva tre raccolti e la protezione del terreno al tempo stesso. Oggi tutti tagliano alberi e nessuno ne pianta. La montagna vive dove ci sono le piantagioni di caffè e muore dove si fa terra bruciata per piantare altro mais. Si vedono qua e là le pendici del vulcano, San Pedro o Atitlan che sia, spelacchiate: senza gli alberi a fare da argine le inondazioni sono devastanti e distruggono case e raccolti. È successo a Tzununa, l’ultimo villaggio che visitiamo, dove ancora si vedono i segni lasciati dall’acqua. A Santiago, però, ci sono 30 diverse chiese per altrettante confessioni religiose; sempre meno cattolici, sempre più protestanti, sempre più fanatici. È uno dei nuovi volti del colonialismo americano (“non dite americano, per favore. Io sono americano. Dite statunitense” continua, a ragione, a riprenderci Sergio), insieme ai MacDonald’s e alla Coca Cola (“gli indios la danno anche ai neonati, nei biberon”, ci dice), apparentemente meno violento dell’intervento Cia che costò ai guatemaltechi 40 anni di guerra e che continua a costargli una classe dirigente dispotica (“il Guatemala è sempre dominato da una ventina di famiglie, Sinibaldi e Co. e Sinibaldi”). Probabilmente altrettanto pericoloso.
San Pedro de la Laguna, intanto, villaggio incantevole deturpato da costruzioni mostruose e dominato da un’orribile chiesa a torta nuziale che appartiene a chissà quale congregazione, è diventato nei detti popolari San Pedro de la locura: che attiri fricchettoni da tutto il mondo può sembrare pure simpatico, ma lo diventa un po’ meno se si constata una sospetta forma di nuova ricchezza locale, che potrebbe essere legata al narcotraffico.
D'altra parte il lago, grazie a una brillante idea della Pan American World Airlines, con enormi interessi in Guatemala nel passato, e con l'appoggio dei governanti locali, ora è popolato solo da tre tipi di fauna: un delizioso pesciolino autoctono, per ora sopravvissuto all’invasione dei black bass, i granchi, che grazie al guscio non sono preda dei black bass, e i black bass stessi, introdotti appunto su proposta della Pan American, carnivori che hanno distrutto quasi tutte le altre forme di vita nell’Atitlan. C’è di che avercela con i gringos, no? Hasta la victoria, compañero Sergio.

Nota a margine numero due: ! Aerosol Spiritual de Tapa Boca per aspergere le foto e fare un incantesimo che renda muti. Visto nella casa di una confreria (due unite, a dire il vero: San Gregorio e San Giuseppe) a Santiago sul lago di Atitlan.


(nella foto: interno della chiesa di Santiago Atitlan)

04 settembre 2007

2-4 agosto 2007 - Attorno a Panajachel. Gente

Tempo di incontri. E di eventi. Il che spiega perché non sono riuscita a scrivere una sola riga in tre giorni. L’incontro fondamentale è quello con Sergio Manuel Garcia, guida 45enne che parla un francese quasi perfetto ed è un autentico maya, 50% quiché e 50% mam. Peccato averlo incontrato dopo la visita a Chichicastenango.
Visto che non sapevamo di doverci andare, infatti (e che nessuna delle nostre due guide ci indicava la dritta), ci siamo persi il cimitero di Chichi. Avremmo visto un luogo pieno di tombe coloratissime (un po’ come ne avevo visti nello Yucatan o nel Quintana Roo durante il mio primo viaggio in Messico), pieno di gente che portava offerte ai morti. Secondo Sergio si porta in offerta quello che i defunti amavano mangiare e bere quando erano vivi, dunque tortillas, fagioli e magari birra. Tra un po’, sempre secondo Sergio, si vedranno hamburger MacDonald e Coca Cola, anzi, quest’ultima già si comincia a vedere. Se devo (devo?) procedere con ordine, comunque, il primo incontro è quello con due belgi (Dorothée lei, lui chissà) incrociati sul minibus che ci ha portato da Antigua a Panajachel. Si sono fermati al nostro stesso hotel, l’Utz Jay, cioè Casa Buena in maya. Di primo acchito non abbiamo granché simpatizzato, ma poi li abbiamo incontrati al termine del loro giro sul lago Atitlan con Sergio ed è grazie a loro che abbiamo effettivamente fatto lo stesso tour: ne erano entusiasti.
Il giorno seguente ci siamo imbarcati nuovamente sullo stesso minibus dei belgi alla volta di Chichi. Abbiamo trovato un equipaggio quasi interamente francofono (con l’eccezione di uno spagnolo in viaggio da solo che già era con noi nel viaggio da Antigua a Pana). Tra i passeggeri ce n’erano due particolarmente simpatici: Flo e Thierry, da Lione, con i quali abbiamo passato tutto il nostro tempo a Chichi.

Chichicastenango
Seguendo le istruzioni dei due preziosissimi belgi ci siamo svegliati prima dell’alba e alle 5.30 siamo scesi, con Flo e Thierry e senza colazione nello stomaco, al mercato. Secondo i belgi era indispensabile muoversi presto perché la cosa più interessante era vedere la preparazione del mercato e la cerimonia mayo-cattolica della Chiesa Santo Tomas. In effetti ho il sospetto che ormai anche i riti dipendano dai turisti che arrivano, in massa relativa, ma comunque in maggioranza, direttamente da Pana, in giornata, attorno alle 9.
Perciò, a parte qualche sciamano (che Sergio sostiene essere termine dispregiativo) che agitava turiboli di incenso davanti al portone chiuso della chiesa attorno alle 6 del mattino, non c’era granché altro da vedere. I maya preparavano i loro banchi ma confesso che l’allestimento non aveva granché di emozionante. Solo attorno alle 7, quando Thierry aveva accompagnato una Flo gelata a fare colazione all’Hotel Chalet, che di Chalet ha giusto il nome, abbiamo assistito a una sorta di benedizione. Le candele e il fuoco hanno un ruolo importante, come ci ha spiegato Sergio: il prete (che prete non è) parla sul fuoco perché il fumo porti le sue parole a dio o a chi è già trapassato.
Dopo la benedizione abbiamo raggiunto i nostri nuovi amici e diviso con loro qualche eccellente panino fatto in casa dai nostri ospiti, squisiti (tanto più che alle 5.30, al momento di uscire, li abbiamo svegliati facendo suonare l’allarme, che è doverosamente scattato non appena abbiamo aperto la porta). Una volta rifocillati, ci siamo rituffati nel mercato, fatto qualche acquisto di rito, ammirato qualche bel tessuto antico e assolutamente carissimo di cui abbiamo deciso di privarci, cazzeggiato attorno al mercato alimentare, assistito a una sorta di messa tra il pagano e il cattolico, non officiata da un prete, dunque, in una qualche lingua maya che non so più.
Poi Pana ancora, senza Flo e Thierry questa volta, che partivano per un altro villaggio sul lago, San Marco, dove c’è un centro di meditazione yoga (al quale però loro non hanno accennato), a prendere accordi con Sergio per l’indomani e a ritrovare la nostra tana, il Sunset Café.


(nella foto: sui gradini di Santo Tomas a Chichicastenango)

03 settembre 2007

1 agosto 2007 - Panajachel. Rimembranze

Panajachel sembra Pokara, cittadina di passaggio, piena di negozietti, con il suo bravo mercato dell’ artigianato, affacciata su un lago, in questo caso quello di Atitlan, incastonato tra le montagne (i tre vulcani Toliman, 3158 m, Atitlan, 3537, e San Pedro, 3020, sempre in questo caso). Una caldera riempita d’acqua azzurra, tanto azzurra da sembrare acqua di mare.
Abbiamo già trovato il nostro “New Orleans Café”, il luogo favorito dove oziare, la terrazza del Sunset Café, proprio sul lago.
Turisti molti, soprattutto nordamericani, a pacchi, e francesi. Italiani, già scarsi ad Antigua, nessuno.
Mi sembra di essere partita da un secolo, anche se non è che mi senta ancora impregnata di Guatemala. Si vedrà.


(nella foto: scorcio del Sunset Café di Panajachel, dietro il bancone)

01 settembre 2007

31 luglio 2007 - Antigua-Panajachel. Delle impossibili bellezze e di dio

“Lake Como, it seems to me, touches the limit of the permissibly picturesque but Atitlan is Como with the addictional embellishments of several immense volcanoes. It is really too much of a good thing” così Aldous Huxley in “Beyond the Mexique Bay”, 1934.

È quasi un’ossessione: Regalo de Dios. La scritta compare su un numero spropositato di tuc tuc, veicolo indiano trapiantato in terra maya che ha l’aspetto di un’Ape Piaggio e che è il mezzo di trasporto più diffuso in Guatemala all’interno delle cittadine. Regalo di dio. Il concetto è semplice: sono un buon credente ed è per questo che dio mi concede i mezzi per comprarmi un tuc tuc o addirittura un’auto o un camion. I commenti fateli voi.

16 agosto 2007

30 luglio 2007 - Guatemala City-Antigua. Cartoline d’altrove

Stiamo lasciando la capitale, della quale, a dire il vero, non abbiamo visto quasi nulla. Ieri, una volta lavati, mangiati e ben insediati, abbiamo fatto un patetico tentativo di lasciare il lusso opulento del nostro 5 stelle per esplorare la zona 1, ovvero il centro storico della capitale. Secondo la “Lonely Planet”, tutto quel che c’è da vedere a Ciudad de Guatemala (a parte due musei dedicati ai Maya in zona 10) si trova attorno alla Plaza Mayor. Con mio sommo stupore nessuno dei due ragazzi alla porta del Quinta Real conosce la Plaza Mayor. E lo stesso vale per il taxista. A lui, comunque, basta dire di portarci alla Catedral e ci si arriva.
Peccato che, proprio in coincidenza con il nostro ingresso nella piazza a bordo dell’auto, cominci a piovere a dirotto. La cattedrale è chiusa, il Palacio Nacional pure (del resto è domenica e sono le sei di sera passate), la cosa più bella della piazza è la fontana centrale che, però, sotto le cateratte, ha un fascino relativo, perciò non ci resta che rifugiarci sotto i portici come il centinaio abbondante di cittadini guatemaltechi che fino a un istante prima affollavano la piazza. Qui ci sono un complesso che si sta preparando per un concertino, un gruppo d’archi, formato da ragazzini, che strazia Bach, una serie di tavoli sui quali si insegnano i rudimenti degli scacchi, un gruppo di clown intrattenitori. Aspettiamo, aspettiamo, aspettiamo. E poi aspettiamo ancora. La pioggia finge di calare, ma ci prende in giro. Davanti a noi si stende un muro d’acqua e la strada si è trasformata in un fiume. L’acqua trasporta cartacce e bottiglie vuote.
Non che ci resti molto da fare. Così tento, senza successo e per ben due volte, di fermare un taxi. Poi Pinocchietto mette fuori, in maniera nobile e discreta come lui sa fare, appena un dito e un’auto si ferma di fronte a me.
Si torna in hotel, la gita nella zona 1 è terminata. Per fortuna il primo taxista ci ha fatto un po’ da Cicerone, mostrandoci, per esempio, una piccola chiesa coloniale rossa e nera che è un gioiellino. Un po’ kitch, magari, ma se non altro meno anonima delle classiche chiese coloniali.

E veniamo a stamane. Sulla soglia dell’albergo abbiamo chiesto un taxi che ci portasse alla stazione degli autobus per Antigua e abbiamo gettato lo sconcerto tra i doormen: ovviamente, a loro avviso, è un taxi per l’aeroporto che vogliamo. Dall’aeroporto si può prendere uno shuttle per Antigua, ci spiegano. Perché dalla stazione ci sono solo “chicken bus” a 2 $, insistono. Se no il taxi ci può portare per 40. E voilà, ‘sto giro si sciala: porta a porta in taxi.
Ad Antigua il nostro lussuoso b&b, The Cloister, è stupendo, ma, in definitiva, a 90 $ a notte è un po’ caro. By the way, Antigua è la versione guatemalteca di Trinidad (vedere qui): bella, coloniale, leccata, a pianta romana, dunque squadrata e, irrimediabilmente, americana. Già, il Guatemala è America todavia e, come tutta l’America aspira a los Estados Unidos. Dunque, anche qui, McDo trionfa, manco a dirlo.
Comunque, se ci si allontana dall’arco di Santa Catalina e dalla piazza centrale, si scopre che Antigua esiste e non è solo una cartolina. Bellissima. Quasi come Oaxaca.

Nota a margine numero 1: i guatemaltechi sono adorabili, sorridenti e di una gentilezza assoluta. E piccini picciò.


(nella foto "Ma piove?": la fontana nel cortile della chiesa della Merced ad Antigua)

14 agosto 2007

Intermezzo centramericano

Lo so che è una vigliaccata interrompere "Miracolo cubano", ma ho il sospetto che non finirà mai e non voglio decretare la morte di questo blog. Perciò temo che ora vi cuccherete una parentesi guatemalteca. Che comincia qui:

28 luglio 2007 - h. 14.17 - Paris-Miami
Siamo partiti. Da non molto, meno di una mezz'ora. Con tre ore di ritardo. Ma siamo partiti. La coincidenza per Ciudad de Guatemala è persa. Ma siamo partiti. E fino a Miami arriviamo per certo. Poi si vedrà.

h. 19.18 - Miami (of course. E, of course, con il fuso corretto, dunque in Italia sono passate le due del mattino)
La turista smarrita stavolta si è persa davvero. O, almeno, ha perso l'aereo.
Si parte domani alle 12.05. Una notte a Miami, perciò. In un albergo abbastanza di merda (Wyndham, nel caso qualcuno dovesse passare per la Florida, giusto per evitarlo), praticamente attaccato all'aeroporto. Niente valigie, e vabbè, ma niente kit di sopravvivenza e questo va decisamente meno bene. Anche perché, per colpa di questi deficienti di americani del nord col cazzo che puoi portarti un nécessaire in aereo: troppi liquidi, babe, sai che bomba ci fabbrichi con un deodorante e un bagnoschiuma. 'fanculo. Ho giusto lo spazzolino e il dentifricio, un rossetto, un burro di cacao e un po' di profumo. Rigorosamente infilati nella merdosa busta trasparente che è la sola a passare i controlli. Anche quando il liquido che ti stai portando dietro è un pericolosissimo spray antiasma. Ri'fanculo. Quello che ho deve bastarmi. Anche perché nel merdoso negozio dell'hotel col cavolo che vendano qualcosa di utile. A meno che non sia io a essere cieca e a non voler capire che per tutti noi un mug con scritto Miami è assai più indispensabile di un deodorante. Per fortuna il cambio di slip viaggia sempre con me. Strano, potrei arrotolarli al collo di una hostess dopotutto. Bah. (Toh,in questo albergo manco stirano le lenzuola. Che sono uscite ultrastropicciate dal maledetto essicatore. Una favola. E chi si prova a dire che sono una principessa del pisello lo strafulmino con una saetta di sola andata Panajachel-Europa).
Bon: per entrare negli stramaledetti Usa (dove dovevamo essere solo in transito, mica che me ne freghi qualcosa di entrare in 'sto paese di merda a me) abbiamo impiegato un tempo interminabile: fila, controllo passaporti, impronta indice mano sinistra, impronta indice mano destra e foto. Pinocchietto, per giunta, è stato bloccato e sottoposto a qualche domanda, completamente insulsa, supplementare. Dopo un'attesa di almeno un quarto d'ora nel limbo di chi è passato per la frontiera ma non l'ha ancora veramente oltrepassata. Con Pinocchietto (e me) ci sono pure tutti quelli che, come lui, hanno il nuovo, mega, super, ologrammatico passaporto dell'Unione Europea. Quello che per averlo devi fare i patti col diavolo. Quello che noi idioti unioneuropeisti abbiamo cambiato/creato apposta per far piacere ai furbissimi americani e rispettare tutte le idiote norme di sicurezza che si sono sognati. Ecco, quello. Con quello hai qualche difficoltà in più a entrare negli Usa. Degli dei pure noi, no? Cornuti e mazziati. Paese di merda, paese di merda, paese di merda. Se lo scrivo abbastanza volte qualcuno ci crede? Paese di merda, paese di merda, paese di merda.

P.S. Mi ero dimenticata la gentilezza. Quando gli europei arrivano, dopo otto ore di volo intercontinentale, all'aeroporto trovano un mentecatto biondo che li apostrofa: "foreigners? this way". Una ventina di tizi avanti a me c'è un poveretto che non capisce il suo floridino stretto e si infila nel corridoio per gli US citizens. E sapete come lo apostrofa il biondo 65enne? "Hello?... Hello?..., this way". Mancava che gli battesse il pugnetto sulla testa. (Ah sì, tra l'altro negli Usa, evidentemente, la pensione se la sognano, hostess e steward hanno un'età media di 60 anni, sia sul volo American Airilines che su quello Delta. E anche tra il personale in aeroporto gli ultrasessantenni sono tutt'altro che rari. Devo ripetere il ritornello di cui sopra?)

09 marzo 2007

14 agosto 2006 - Nuestra señora Floriselda de Holguin


Per Holguin mi sono preparata. In questi primi otto giorni a Cuba ho maturato la convinzione, alquanto balzana e non precisamente fondata, che la GéoGuide che mi porto appresso sia meglio della Lonely per la scelta di casas particulares e luoghi dove mangiare (ma, accidenti a me, ora che rifletto, possibile che mi sia già scordata che la Fabrica de Tabacos consigliata per andare a vedere la fabbricazione dei sigari, era chiusa da anni? Svariati anni. E la guida è datata 2006, ça va sans dire). Dunque, sulla base della GéoGuide ho una meta precisa: Villa Flori.
Tra cuadras, arriba e abajo ci mettiamo un mucchio di tempo a trovare Villa Flori. Anche perché non è che sia proprio in centro. Stanchi, felici e arditi suoniamo a una porta che appare chiusa chiusa. Sentiamo l’eco del campanello nella casa e aspettiamo. Nessun altro suono. Io, timida, refrattaria e codarda come sono, me ne andrei. Ma, per fortuna, il mio uomo è SuperPinocchietto. E lui, sicuro, risuona.
È un quasi niente, un lontano fruscio, forse. Poi un rumore appena più intenso. E passi felpati che scendono scale. In un effluvio odoroso si materializza Flori, Floriselda Concepcion H., come dice il suo biglietto da visita.
“Scusate, stavo facendo il bagno”. Ci fa entrare, accomodare in poltrona e dice che, purtroppo, le sue due camere sono già affittate. Mi chiama “mi amor” e quando sente che siamo italiani si illumina d’immenso. Prosegue spiegandoci che una sua amica ha certamente una stanza per noi. Le telefona ed è fatta. Poi aggiunge: “la prima persona cui ho affittato una camera è stato un ragazzo italiano. E ora è mio genero”. Racconta che è stata in Europa. A Praga, per esempio, ma non in Italia. Anche se “mi invitano sempre e potrei andarci quando voglio. Ma non mi piace viaggiare”. Dice che è in pensione ma ha fatto per tutta la vita l’infermiera. E in qualità di infermiera è andata in Angola, ai tempi della guerra di liberazione (Mpla, qualcuno ricorda?). Al di là delle ragioni politiche dell’appoggio all’Angola, i medici cubani impegnati in operazioni umanitarie in giro per il mondo erano 25 mila nel 2006. Un po’ come se fosse la più grande pseudo-Emergency del pianeta. Con iniziative come l’Operacion Milagro (sì, sì, Operazione Miracolo): un programma cubano-venezuelano che offre assistenza oftalmica e interventi chirurgici gratuiti agli occhi ai più poveri tra i boliviani (Nei primi sei mesi del 2006 1.240 medici e infermieri cubani sono andati in Bolivia per partecipare alle “Brigate di attenzione gratuita” attive nelle zone rurali. Stando alle cifre del ministero della Sanità di La Paz, negli ultimi mesi i medici cubani avrebbero curato circa 600 mila boliviani, il 6,6% della popolazione. I primi medici cubani sono arrivati in Bolivia a gennaio, per soccorrere le migliaia di persone danneggiate da un’alluvione).
Nel frattempo è arrivato il marito di Tamara, da cui dormiremo questa notte. Così Flori ci chiede dove abbiamo intenzione di andare dopo aver visitato Holguin e, saputo che la meta è Baracoa, ci organizza il viaggio: “fate così, fermatevi una notte a Playa Guardalavaca, che è magnifica, e poi diretti a Baracoa. Ah Baracoa, bellissima, a mi me encanta. E a Baracoa andate da Eugenio, ora lo chiamo”. Detto fatto, siamo già quasi proiettati a casa di Eugenio. Poi Flori evapora in una nuvola di borotalco.


(nella foto: il patio del Salon 1720, bar-ristorante di Holguin)

23 gennaio 2007

14 agosto 2006 - Camagüey-Holguin: que viva la medicina cubana


Sesto giorno a Cuba. Impressioni forti, ma ancora confuse. Il tratto in auto tra Camagüey e Holguin ci regala, comunque, uno degli incontri più interessanti dell’intero viaggio: quello con l’autostoppista infermiera. La ragazza è la prima persona alla quale diamo un passaggio che, oltre ad avere cose da raccontare, ha anche una gran voglia di parlare con noi. Ha 22 anni e un figlio di sei mesi, avuto da un 54enne, ed è in congedo maternità pagato per un anno. Lavora come paramedico e guadagna 500 pesos cubani (circa 20 convertibles) al mese. È molto fidelista, dice che a Cuba tutto funziona, soprattutto sotto il profilo sanitario: ci sono le strutture e i mezzi. Anche se dove vive lei una sala parto non c’è e le donne devono andare fino a Camagüey per partorire.
L’unico problema di Cuba, a suo dire, sono i prezzi di abiti e scarpe: altissimi. Scopriremo poi che è una delle lamentele principali dei cubani con i turisti: la litania si ripete quasi a ogni incontro. Quasi. Probabilmente ne parlano solo quelli che sperano di ricevere in regalo, se non sandali, almeno una T-shirt. Un paio di scarpe, in effetti, costa 20 dollari, vale a dire all’incirca lo stipendio di un mese dell’infermierina. Lo Stato, a suo avviso, dà molto, ma certo non soldi. A dire il vero non sembra granché soddisfatta della quantità di latte fornita ai bambini di un anno (e fino al compimento del settimo): un litro al giorno. Che, a me, non sembra affatto male, ma, si sa, non ho figli, dunque, forse, non so valutare. A meno che non ci si sia capite, il che è sempre possibile. La solita Lonely Planet, che mi sono bell’e stufata di citare, parla, per esempio, di una scatola di latte in polvere, ma dimentica di specificare ogni quanto venga fornita (una volta al mese?) e quanto sia grande. A occhio, il mio naturalmente, questo mi sembra poco. Saranno aumentate le dosi? Attendo lumi da eventuali lettori.
La ragazza, comunque, sembra molto positiva. Sarà che adora il suo lavoro. Vorrebbe pure andare in missione all’estero e conta di avere il permesso per farlo. Non è una speranza vana, visto che il paese dove la nostra amica ha chiesto di andare è il Venezuela. E, si sa, il presidente Hugo e il comandante Fidel sono in ottimi rapporti. Dunque la bella si sente già in partenza. Per ora l’unico luogo che lascia è la nostra auto. E confesso che quando la giovane infermiera arriva a destinazione si insinua nell’abitacolo un piccolo vuoto. Da riempire con il prossimo incontro.


(nella foto: la farmacia-museo Taquechel a La Habana Vieja, calle Obispo, XVIII secolo)

22 gennaio 2007

13-14 agosto 2006 - Camagüey: il bene e il male


A Camagüey, flanellando per le strade più carine del centro, siamo stati attratti da un’esposizione di disegni di bambini all’Uneac, Union de Escritores y Artistas de Cuba (organizzazione governativa - e sottolineo governativa con tutto il male ma anche il bene, se riflettete un poco, che tutto questo significa - che supervisiona - male -, sostiene - bene -, controlla - male -, finanzia -bene. Oppure viceversa. Dove finisce il bene e dove cominicia il male? O anche viceversa), a poca distanza dal Parque Agramonte. Scopriamo piccoli tesori, in parte da soli, in parte grazie al direttore dell’Uneac, gentilissimo, che ci fa da cicerone e la cosa più impressionante è l’età degli autori: ci sono artisti di cinque-sei anni che hanno realizzato autentiche magie di colore.


(nella foto: uno dei palazzi che si affacciano sul Parque Agramonte, a Camagüey)

16 gennaio 2007

13 agosto 2006 - 80° compleanno di Fidel - Trinidad - Sancti Spiritus - Camagüey


Lo sanno tutti: Fidel sta male (e oggi, mentre infilo queste note sul web, sta pure peggio, almeno secondo “El Pais”). Dunque, i previsti festeggiamenti per il suo 80° compleanno sono saltati. Rimandati, a dire il vero, al 2 dicembre, giorno in cui a Cuba si commemora il 50esimo anniversario dell'approdo del Granma e dello sbarco del suo carico di rivoluzionari nella provincia orientale dell’isola. Ora sappiamo che Castro non festeggerà il suo genetliaco neppure in quella seconda occasione.
Riguardo al comandante, confesso che mi aspettavo ben altro; forse è colpa mia. O forse sono solo distratta. Però ero convinta che a Cuba fosse peggio, che il culto della personalità di Fidel fosse simile a quello di Ceausescu in Romania. Credevo che, come accade in Marocco e Thailandia, per esempio, con i ritratti dei rispettivi reali, il viso di Fidel fosse replicato ovunque, negli uffici pubblici come nei ristoranti, negli hotel come nei cortili degli edifici privati. Invece no.
Senza esagerare in senso inverso, naturalmente: in un’isola in cui non c’è pubblicità nelle strade, tutti i cartelloni, i manifesti e similia inneggiano alla rivoluzione e/o al lider maximo. E, tanto per dire, lungo il bellissimo percorso che si snoda da Trinidad a Sancti Spiritus, spiccano le scritte preparate per il compleanno, come un “Viva Fidel Castro” composto di pietre bianche sul ciglio della strada. Per il genetliaco del comandante, tra l’altro, è arrivato anche Hugo Chavez, accolto all’aeroporto da Raul. Sentiamo la cronaca della sua visita alla radio. Dicono, per esempio, che Chavez ha appena annunciato che si ripresenterà alle elezioni presidenziali venezuelane a dicembre (fatto. E le ha vinte). E, più tardi, ci ribecchiamo l’incontro Fidel-Hugo alla televisione e assistiamo così alla consegna dei regali e alla più volte menzionata “frugal merenda” che i due capi di Stato avrebbero diviso.


Sancti Spiritus: un viaggio nel tempo


Non c’è niente di speciale, d’accordo, ma l’atmosfera è rilassata, le case colorate, il fiume tranquillo. Non penso sia un posto dove valga la pena passare una notte, ma la pausa pranzo alla Quinta Santa Elena, in riva al fiume e vicinissima al Puente Yayabo, è una sosta piacevolissima. Alla Quinta, nel giardino, sotto gli alberi, si sta d’incanto e, caso rarissimo a Cuba al di fuori delle casas particulares, si mangia pure bene. Per giunta a un certo momento arriva un adorabile vecchietto con una macchina fotografica del 1910 e ci dà una dimostrazione di come funzioni una Polaroid per viaggiare nel tempo: “Esta foto fue hecha en Sancti Spiritus, Cuba, el 13 de agosto 2006. Firma”. Non fosse per gli abiti, Pinocchietto e io potremmo essere i nostri nonni: la foto è seppia, con i bordi zigrinati e una squisita aria d’antan.
Si riparte. E si continua a perlustrare Cuba dai finestrini dell’auto. Tra Ciego de Avila e Camagüey su un grande cartello-propaganda leggo “No hay bloquéo para las ideas”, che, in fondo, mi sembra uno slogan mica male. Quando abbiamo quasi raggiunto la nostra ultima tappa della giornata, Camagüey appunto, compaiono lungo il nostro cammino magnifici alberi a ombrello. Peccato non avere autostoppisti a bordo, mi sarebbe tanto piaciuto sapere il loro nome.

15 gennaio 2007

12 agosto 2006 - Secondo giorno a Trinidad: que viva musica


Replay. Ciondoliamo pigri per le strade di Trinidad. Perla di Cuba, prediletta dall’Unesco e decantata da tutti. Carina, decisamente carina, “pero nada mas” secondo Pinocchietto e la sottoscritta. In Plaza Mayor l’effetto cartolina è garantito da una bella sposa biancovestita che posa per le foto, sola o accompagnata, dentro, sopra, accanto a una Chevrolet rossa. Liberarsi della piccola si rivela missione impossibile, mentre visitiamo uno dopo l’altro i palazzi della piazza, lei, inesorabile, staziona ora qui ora là e continua a farsi fotografare, al sole, all’ombra, nei giardini.
Più tardi Pinocchietto e io decidiamo di partire in esplorazione della valle de Los Ingenios, che altro non sono che gli antichi zuccherifici. Seguiamo i cartelli e ci ritroviamo a fine giornata in una sorta di bar, sfornito e quasi chiuso, in posizione belvedere, da cui si vede benissimo tutta la valle ma non si intuisce neppure uno zuccherificio d’epoca. In compenso la nostra bella è ancora là, con l’abito del dopo cerimonia ora, a farsi fotografare con il panorama sullo sfondo.
Rientrando ci fermiamo a chiacchierare con i vicini di casa, intenti come sempre a fabbricare materassi (sì, sì, a mano). Si parla da strada a finestra, con la disinvoltura relativa che ci permette il nostro spagnolo. Il fatto che siamo italiani suscita entusiasmo, quando poi Pinocchietto rivela la sua nascita sarda, la signora materassaia si abbandona a entusiasmo puro: suo figlio vive a Sassari. E, di colpo, superando confini fisici, culturali, sociali, mentali, babelici e chissà quanti altri, sembra che facciamo tutti parte di un’unica famiglia.
Nel frattempo scende la sera e comincia la nostra quasi quotidiana ricerca di note. Dal punto di vista socio-musicale, la Casa de la Musica di Trinidad è stata, probabilmente, la migliore esperienza. Sulle Escalinadas il sabato sera si mescolano turisti (anzi, a dire il vero, soprattutto turiste) e cubani. Certo, c’è sempre qualche nota falsa, come quando il cantante ha dato il benvenuto a “los amigos italianos de la Francorosso” (e te pareva) o, più in generale, per il sospetto che tutti i cubani e le cubane presenti, così solerti nel far danzare gli stranieri, altro non fossero che altrettanti jineteros. Ma, visto che Pinocchietto e io ci siamo limitati a fare da spettatori, confesso che quella che ci rimane appiccicata addosso è soltanto allegra aria di festa.
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