20 settembre 2006

11 agosto 2006 - Cienfuegos-Trinidad. On the road again


La strada tra Cienfuegos e Trinidad ci porta ad attraversare la Sierra, quella delle imprese dei barbudos: palme in quantità, campi coltivati a canna da zucchero o a mais, risaie. Si ha l’impressione di attraversare un posto ricchissimo e benedetto da tutti gli dei. Anche le casette lungo la strada sono spesso modeste, mai misere. Ci sono mucche e cavalli e neppure un ronzino. Quanto al carro trascinato dagli equini sembra essere, un po’ come in parte abbiamo già visto a Cienfuegos, il principale mezzo di trasporto in zona.
Dalla Sierra sbuchiamo sul mare per percorrere la strada che non c’è, almeno sulla mia cartina. Sul percorso inesistente scopriamo i granchi attraversatori: parecchi di loro incrociano il nostro cammino, ma la loro temerarietà non è sempre premiata; ne vediamo diversi spiaccicati dalle ruote delle auto, a dispetto del fatto che di vetture non ne passino molte.
Juanita si è prodigata per noi (o ci ha tirato un pacco, non lo sapremo mai) e ha allertato un corrispondente che ci aspetta all’entrata di Trinidad. È un po’ un aiuto non richiesto, che mi fa sentire vagamente incastrata, come se viaggiassimo su binari predisposti da altri. Ma Juanita ha telefonato a questo nuovo zelante senza chiedere la nostra opinione e ora ci prepariamo all’incontro: il tizio in questione si chiama Alexis e i suoi segni distintivi sono un berretto blu e una maglia grigia. All’ingresso della città non troviamo nessuno. Dunque, dopo un tratto di strada percorsa a caso, sollevati, accostiamo la macchina per studiare il da farsi. È allora che ci viene incontro un giovanotto, Alexis appunto, con un enorme sorriso, e un nome, virginie, alle labbra. Come avrà fatto a pescarci? Mistero.
Morale: siamo finiti a casa di Nelson, proprio come previsto da Juanita. Almeno qui l’aria condizionata fa relativamente poco casino e, per soprannumero, abbiamo pure il ventilatore. Insomma: è un po’ meglio e costa meno (dev’essere perché manca l’effetto zelante in bicicletta); per giunta Nelson è pure simpatico e la chica, che per la verità è una signora, tuttofare è una vera perla.


(nella foto: carro a cavallo unico sulla strada principale di Punta Gorda, Cienfuegos)

15 settembre 2006

10 agosto - L’Avana-Cienfuegos. No es facil


All’hotel le cameriere ci hanno provato: si vede che, in genere, gli stranieri lasciano la mancia. Noi no, però non è che non abbiamo apprezzato, care Jeni e Tami. Ve lo scrivo qui, dove non lo leggerete mai, ma ve lo scrivo. Il bigliettino era una delizia: “Bienvenidos a nuestro hotel. Les deseamos una feliz estancia y esperamos que se sientan como en su propia casa; es una lastima que se marchen mañana, regresen pronto y que Dios los bendiga. Dulces Sueños”. Ho rispettato tutto, anche le maiuscole. Il bigliettino ci è piaciuto, l’asciugamano piegato a cuore pure, ma siamo partiti lo stesso. Senza neppure lasciarvi un peso. “No es facil”.
Uscire dall’Avana sembra già un’avventura. In realtà Roberto, l’affitta-auto, si è spiegato benissimo, ma Pinocchietto e io siamo in ansia: non c’è stata una sola persona che non si sia raccomandata mille volte di chiedere ripetutamente la strada, “a Cuba i cartelli sono inesistenti”. Vero è che niente indica come uscire dall’Avana, ma, incredibilmente, siamo sulla via giusta. Quasi sempre. E, alla fine, l’Autopista Nacional, l’unica autostrada dell’isola, riusciamo a imboccarla. Così raggiungere Cienfuegos e la decantata Punta Gorda è più o meno uno scherzo.
Peccato che Punta Gorda sia così così. Che la casa particulare che ho selezionato dalla Lonely Planet mi faccia senso al punto che non scendo neppure a visitarla. E che veniamo adottati quasi immediatamente da uno zelante in bicicletta, a suo modo uno jinetero, naturalmente, che ci conduce di casa in casa alla ricerca di una camera. Di botto sembra che Cienfuegos rigurgiti di turisti, non si trova una habitacion decente. È per questo che quando approdiamo da Juanita, la sua stanza ci va benone. Anche se il prezzo, lo scopriremo poi, è decisamente eccessivo. Ma che ci vuoi fare, le/ci tocca pagare lo zelante.
Juanita pronuncia quasi subito la formula magica in vigore a Cuba: “no es facil”. Anche se in bocca sua è sembrato soltanto un modo di dire. Più che altro riferito alla difficoltà di educare delle figlie a Cuba: a partire dai dieci anni, dice lei, bisogna stare molto attenti e vigilare. Marcarle strette, insomma. Poi aggiunge amenità del tipo che chi ha voglia di lavorare lavora, qui come altrove, creando un ponte del tutto inconsapevole con una qualsiasi sua omologa Giovanna della Val Brembana. Intanto, ci informa, lei da Cuba entra ed esce quanto e quando vuole: ha la residenza a Granada, dove vive il fratello. Nella realtà, però, abita a Cienfuegos, Cuba, e qui vuole restare. “A mi me gusta Cuba” chiosa con un’espressione che sottintende che questo è l’unico posto al mondo dove valga la pena vivere.
A me, invece, Zoé Valdés fa schifo. Sobria come al solito, virginie. No, va bene, Zoé Valdés non mi fa schifo, non necessariamente, è solo il suo libro che mi fa schifo. E mi fa schifo perché racconta storie bellissime (“Los Misterios de La Habana”), ma le racconta malissimo. Almeno a mio avviso, ma siccome non vale davvero la pena affrontare un dibattito sulla letteratura tra me e me su un letto madido di sudore è meglio che dia un taglio a tutto e vada a fare una doccia.
Di fronte all’hotel Jagua, un po’ oltre in questa grassa lingua di terra che chiamano Punta Gorda, prendiamo l’aperitivo sul mare. Dopo aver eseguito la doverosa visita alla Cienfuegos coloniale, sotto un acquazzone feroce, che non merita di lasciare tracce sostanziali nella memoria. Quello che beviamo è il miglior mojito che abbiamo assaggiato finora, altro che Bodeguita del Medio. Mentre sto seduta a rimirare il tramonto e a ciucciare beata, vedo passare la versione cubana del panino del muratore meneghino, dove, al posto della cotoletta, c’è un pesciazzo, con tanto di coda, intero, impanato e fritto. Per fortuna Pinocchietto, stagliato sullo sfondo di un oceano acciaio con montagne basse all’orizzonte modello acquarello giapponese, è di una bellezza stupefacente.


(nella foto: uno dei palazzi che si affacciano sul Parque José Marti - gli accenti acuti sulle vocali non sono previsti dalla mia tastiera dunque eliminati d'ufficio - centro della Cienfuegos coloniale)

Sempre 9 agosto 2006, sempre la Avana. Transizione.


Tutto il coacervo di luoghi comuni che Pinocchietto e io abbiamo in testa sembra vero: i cubani sono allegri sorridenti e simpatici. E tutto il resto è musica.
Non so se sia questo che ci spinge all’azione, ma siamo efficientissimi: alle 10.30 de la mañana abbiamo già pseudoprenotato l’auto, confermata nel pomeriggio, e bloccato la camera nella casa particulare di Rafaela e Pepe per il nostro ritorno all’Avana. Così ci perdiamo un po’ indolentemente nella plaza Vieja, poi verso la plaza des Armas e quella de la Catedral. Nella plaza Vieja, oltre a ristoranti, localini e gallerie d’arte c’è un misterioso centro vallone. Ospita una mostra di foto, spiegazioni attorno alla Vallonia, descrizione delle industrie & co. e cartine. A cosa diavolo servirà? A promuovere il turismo certamente no. Sarà un vallone che si è innamorato dell’Avana? Mistero.
Il primo giorno segna anche il primo approccio con la doppia economia cubana. Noi turisti paghiamo in pesos convertibles (1 € = 1,13 pc), mentre i cubani usano il peso cubano, o moneda nacional. Un peso convertible equivale a 25 pesos cubanos e i salari sono in moneda nacional. Ai turisti la moneda nacional è quasi inutile, per loro c’è l’altra moneta, altri prezzi etc. Per esempio, noleggiare un’auto a Cuba costa più che in Europa: per la nostra Hyundai, nuova di pacca con appena 1700 km al suo attivo, paghiamo 85 convertibles al giorno.


(nella foto: una delle splendide cinquantenni americane di cui è ricca Cuba, ritratta in una viuzza di Trinidad. Niente a che vedere con l'auto che c'è toccata a nolo)

09 settembre 2006

9 agosto 2006 - L’Avana-Neapolis


L’Avana sembra Napoli. Una Napoli pre-bassoliniana, magari. Con i palazzi cadenti della Habana Vieja a far pendant a quelli dei Quartieri spagnoli. La stessa biancheria stesa ai balconi, le stesse facce, o quasi, a sorridere dietro le finestre, lo stesso grigio topo a ricoprire della patina del tempo ogni pietra, ogni inferriata, ogni infisso. La somiglianza è più evidente se si riesce a vedere L’Avana in bianco e nero, cancellando la pletora di colori pastello che dilaga come una muffa su quanto è già stato restaurato.
Tra dieci anni, probabilmente, tutto questo non ci sarà più: la Habana Vieja si sarà trasformata in una cartolina, con facciate verde acqua, giallo sole o rosa confetto e la consueta sfilata di ristorantini, gallerie d’arte, baretti, alberghi, boutique, ri-gallerie, ri-ristorantini, ri-baretti, ri-boutique e ri-alberghi. Bella senz’anima com’è, ora, il Pelourinho a Bahia. Per il momento è in fase di transizione, bellissima e bruttissima insieme. Ancora non operata, dunque ancora viva.
Secondo la Lonely Planet, del resto, la Habana Vieja è la città coloniale “più bella d’America”. Perciò probabilmente del mondo, penso io.


(nella foto: l'ultimo palazzo non restaurato della plaza Vieja all'Avana)

08 settembre 2006

MIRACOLO CUBANO

Io vi racconto lo squallore


Madrid-La Habana. A bordo dell’aereo, a parte i normali vacanzieri in coppia o doppia coppia, ci sono i gruppi di vitelloni sfigati, i single improponibili, i branchi di ragazzotti burini. Non credo di sbagliarmi se penso che siano tutti in cerca di figa facile. E docile. Almeno in apparenza. Dovrebbero farmi ribrezzo, suppongo. Ma, non so perché, mi fanno soprattutto pena.
Visto il panorama di cui ho goduto finora, comunque, mi attendo di trovare all’aeroporto dell'Avana branchi di jineteras e jineteros all’assalto del turista. È quello che mi hanno raccontato. Più fonti e più voci: “guarda, è incredibile. Quando i grulli partono le ragazze vanno ad accompagnarli all'aeroporto. E piangono. Poi passano in bagno a rifarsi il trucco e si presentano agli arrivi. Pronte per i nuovi venuti”. Oppure: “ti giuro, non ci si può credere. Hai presente le jineteras? No? Beh, non ti preoccupare: le prime le troverai, a mazzi, già all'aeroporto”. Qualcosa, nel frattempo, deve essere cambiato. O, magari, Pinocchietto e io siamo sbarcati il giorno del santo patrono degli jineteros. Resta il fatto che all'aeroporto dell’Avana di questa presunta folla al nostro arrivo, l’8 agosto 2006, non c’è traccia.

07 settembre 2006

A terra. Il giorno dopo


Se il tempo non fosse così contato avremmo potuto essere ancora su un’isola, magari a Santa Cruz, in cerca di Galapagos. Ma, bisogna ammetterlo, la “crocierina” è stata fantastica. A parte la mancanza di tartarughe. Abbiamo incontrato solo Pepe, cinquantenne in cattività nella missione di Puerto Baquerizo Moreno: è un maschio, rimasto a quanto pare unico membro della sua specie, trovato dai francescani quando si sono stabiliti sull’isola di San Cristòbal. Si paga un dollaro (o 5000 sucres) per vederlo: il costo del biglietto d’ingresso a un museo pieno di animali imbalsamati. Ancora più orribili, dopo che li si è visti vivi e vegeti.
In autobus, ormai diretti verso l’avenida dei vulcani, Daniele, Roberta, Pinocchietto e io veniamo assaliti da un atroce dubbio: non è che saremo gli unici quattro pirla al mondo a essere andati fin là e a non avere visto le Galapagos? Ai posteri.


(nella foto, presa su Google patoczka.net/Galapagos1/ images/: Pepe)

06 settembre 2006

Quinto giorno


Ultima mattinata. Con escursione all’isola Lobos dove facciamo una camminata e incontriamo un mucchio di sule piediazzurri (pare siano gli uccelli più noti delle isole e hanno straordinarie zampe color cielo intenso), che si corteggiano e covano le uova. Sembra quasi che noi quindici non abbiamo mai visto un uovo, vista la quantità di foto che riusciamo a scattare a questi nidi nel bel mezzo del sentiero.
In ogni modo: al termine del giro si arriva a una spiaggetta microscopica, che a volte c’è e a volte non c’è, con la sabbia bianca e l’acqua trasparente. Naturalmente, proprio per questo, vista la fortuna che ci perseguita, non c’è nulla da vedere, ma, spingendoci dove il mare si fa più torbido, Carlito e io riusciamo a scorgere una manta sotto la sabbia.
Dulcis in principio, comunque: il meglio della giornata, infatti, ce lo siamo presi subito. Roberta è venuta a chiamarci poco prima dell’alba per farci vedere il sorgere del sole (una rarità alle Galapagos in questa stagione, visto che, di norma, il cielo al mattino è sempre stato coperto) e le tartarughe marine che nuotavano proprio vicino al Darwin. Un’autentica emozione: sembra che volino nel mare con quelle loro zampe-ali. Ce n’erano di grandissime e qua e là, ogni tanto, spuntava un capino. Il migliore addio alle isole che potessimo avere.


(nella foto: una sula delle Galapagos, www.travel-pictures-gallery.com)

05 settembre 2006

Quarto giorno


South Plaza, dove ci sono le iguane di terra. Vediamo pure un supposto incrocio tra iguane di terra e di mare. Secondo Willy questo ibrido bianco e nero e un suo coetaneo (hanno tre anni) sarebbero gli unici e i primi esemplari di una nuova specie. Verosimile? Mah.
Saliamo poi sulla collina degli scapoli dove si rifugiano i leoni marini che non sono re e quelli che sono ormai troppo vecchi per soddisfare le loro mogli. Questi ultimi a volte non reggono la decadenza e si suicidano gettandosi sugli scogli. Le femmine vivono circa 20 anni mentre i re 14-15 e verso gli 11 vanno in pensione sulla collina. Ma, appunto, non sembrano tanto soddisfatti di questo ritiro forzato.
Pomeriggio all’isola di Santa Fé dove, finalmente, si vedono un po’ di pesci colorati. Dal dinguy, la barchetta d’appoggio che ci porta in giro quando il Darwin non può avvicinarsi troppo alla costa, vediamo anche qualche squaletto pinna bianca. Dopo il bagno in questa bella insenatura si sbarca per una passeggiata: sull’isola crescono cactus molto alti, anche se il cactus-record, 12 metri, è stato abbattuto dal Niño. La passeggiata termina su un viale di cactus (qui hanno una specie di tronco molto spugnoso, destinato a immagazzinare acqua) a strapiombo sul mare.
Su uno scoglio dormicchiano un leone marino e un fur seal, probabilmente disperso, visto che su quest’isola, di norma, pare non ce ne siano (fonte: l’infallibile Willy).


(nella foto: un'iguana marina sulla spiaggia dell'Isla Santa Cruz, www.4cornersclub.com)

04 settembre 2006

Terzo giorno


Sempre intorno a Santiago. Al mattino si approda (con sbarco asciutto, ovvero senza appoggiare neppure uno dei nostri sacri piedini in acqua) sulla costa orientale, a Sullivan Bay. Qui ci accoglie un magnifico paesaggio lunare di lava nera (pa-hoe-hoe, che, potenza dell’onomatopea, indica in un linguaggio locale il grido di chi poggia un lembo di pelle sopra una colata ancora calda. Almeno, questa è la teoria di Willy…). Ci sono aree che sembrano aver ospitato enormi cesti di vimini intrecciati, altre lisce come piastrelle d’ardesia, altre ancora che si presentano come bolle esplose.
In seguito ci trasferiamo sull’isola Bartolomé (con una strana protuberanza a punta che svetta verso il cielo chiamata Pinnacle Rock) e saliamo fino al faro (a 114 metri d’altezza), da cui si gode una superba vista su Santiago, sul suo vulcano e sulle baie delle due isole. Mai “meditation time” fu meglio scelto.
Al ritorno in barca per il pranzo ci attende lo spettacolo della pulizia del pesce. I nostri eroi dell’equipaggio hanno appena pescato un tonno. Tutto normale, apparentemente, ma noi, rientrando così nelle migliori tradizioni dei turisti alle Galapagos, ci siamo entusiasmati di fronte a quella sorta di comunione pagana. Mentre un uomo si occupa di squartarlo, pellicani, fregate e pesci in quantità hanno circondato la barca in attesa dei resti. Le fregate, incapaci di tuffarsi per pescare per via della scarsa impermeabilità delle loro piume, di solito rubano il pesce di bocca agli altri uccelli. In questo caso, però, hanno acchiappato al volo i brandelli lanciati in aria, proprio per loro, dal nostro marinaio.
Il pomeriggio trascorre tranquillo a San Bartolomé su una spiaggetta arancione. Con Roberta e Daniele facciamo una camminata fino a una seconda spiaggia che si trova sul lato opposto dell’isola. Non c’è quasi nulla tranne un po’ di rifiuti portati dalla marea (ahimé, sì), un pugno di granchi, un uccellino giallo molto carino (la dendroica) e qualche curiosa formazione in sabbia incrostata che potrebbe essere un incrocio tra un formicaio e una madrepora. In realtà sono le case dei vermi tubolari, che preferisco non incontrare (non so perché mi evocano i mostri di Arrakis di “Dune”, saga di Frank Herbert, nonché film di David Lynch). Torniamo a fare il bagno per uno snorkelling deludente, ma, dietro Pinnacle Rock, ci aspetta un pinguino delle Galapagos (è vero, è vero: qui tutti gli animali, o quasi, sono “delle Galapagos”; ma che ci possiamo fare noi se qui, quasi tutte le specie sono endemiche?), dunque bilancio ultrapositivo. Tornando al Darwin in barca, ne vediamo pure un secondo. La giornata migliore?


(nella foto: lava pa hoe hoe, da www.terragalleria.com

Secondo giorno


Si approda a Rábida, isoletta rossa vicino a Santiago. Vediamo un bel numero di otarie delle Galapagos (leoni marini) e cinque, dico cinque di numero, fenicotteri molto, molto rosa (gli è che ci devono essere tanti gamberetti, lì, e loro, si sa, ne sono ghiotti) nei pressi di una laguna interna.
Nel pomeriggio sbarchiamo invece sull’isola principale (c’est à dire Santiago, detta anche San Salvador), a James Bay, dove, incontriamo di nuovo gruppi di otarie. I cuccioli sono strepitosi ed, evidentemente, amano, o almeno apprezzano, gli umani perché sono felicissimi di esibirsi in tuffi e piroette davanti a noi. Esattamente come dei cuccioli d’uomo.
Dopo una breve camminata, arriviamo a una sorta di piscina naturale tra le rocce nere. Qui ci sono sei o sette esemplari di fur seals, o arctocefali delle Galapagos, chiamati così per la loro testa d’orso, coperta, of course, di una folta pelliccia. Poi ci capitano: una coppia di beccacce di mare americane dal lungo becco rosso, con il cucciolo; diversi aironi delle G. (lava heron in inglese); un mucchio di granchi rossi con la pancia azzurra e le solite, immancabili, iguane.


(nella foto: cucciolo di arctocefalo)

03 settembre 2006

Diario di bordo













Primo giorno
Già all’aeroporto di Quito, il 1° agosto, alle 7.30 del mattino, abbiamo conosciuto i primi due compagni di viaggio: Roberta e Daniele, una coppia di romani quasi coetanei (si fa per dire: lei ha 31 anni e lui 40) con la quale abbiamo poi proseguito il viaggio attraverso tutto l’Ecuador. E sempre a Baltra, ovvero sempre all’aeroporto, si sono aggiunti due svizzeri circa settantenni. Ma è solo una volta sbarcati sulle isole che incontriamo uno dei principali protagonisti del nostro microviaggio: Willy, la guida (di secondo grado, dunque decisamente buona, sostiene Daniele), alias “meditation time” per la sua mania di accordarci tempi morti, non richiesti, per la meditazione, soprattutto nelle situazioni più improbabili. Prima di farci salire a bordo Willy ci ha fatto un riassunto di “Istruzioni per il comportamento da tenere alle Galapagos” (in inglese, con grande disperazione del succitato Daniele, che della lingua di Albione, dice, “non capisce una mazza”) e, durante questo breve briefing, si è scoperto che: uno, nelle isole è severamente vietato fumare, lasciare o prendere alcunché; due, che è ancor più proibito (o quasi) toccare gli animali e, infine tre, che Pinocchietto, pur avendo pagato i regolamentari 100 dollari per l’ingresso nelle isole, ha tagliandini solo per 90. Così gli tocca sborsare dieci dollari in più.
Deuteragonista di Willy è il Darwin. Ovvero la barca, il rifugio, la cuccia. A motore, ma in legno (della serie: un colpo al cerchio e uno alla botte). E, naturalmente, il suo equipaggio. Cioè sette uomini che hanno fatto di tutto per coccolare i loro 15 passeggeri. Lupo, il cuoco, ci ha veramente viziato (anche se Pinocchietto è riuscito a lamentarsi perché non ci hanno mai servito né aragoste né gamberi. Ma si sa: ci sono quelli a cui manca sempre un soldo per fare una lira). A completare il gruppo si aggiungono poi il capitano, l’aiuto, il marinaio, il macchinista e il cameriere, Luìs (il mio preferito, soprattutto in virtù del fatto che io, pur essendo nettamente la più cicciona tra le ragazze a bordo – a proposito, ma ho ancora il diritto di chiamarmi ragazza? – sono la sua preferita, come la bionda israeliana, pazienza, pazienza, tra poco arriva anche lei, lo è del capitano e Roberta di Willy e, suppongo, di tutti gli altri).
Durante il tragitto da Baltra a Santa Cruz, ci dà il benvenuto a bordo una simpatica signora statunitense, Peggy, che viaggia con il marito (Paul), le tre figlie (Meggy, 22 anni circa, Hellen, 10-11 anni, bellissima e con l’apparecchio, e Ann o Anita, 6-7, dai meravigliosi capelli rosso tiziano) e la sorella, di cui ho scordato il nome. Si rivelerà una supermamma, davvero in gamba.
Restano invece in ombra gli orsi, tre giovani israeliani, una coppia più un amico, che se ne stanno molto per i fatti loro.
Comunque, una volta che i nuovi arrivati (alias le coppie di svizzeri, di romani, Pinocchietto e io) sono saliti a bordo, si salpa, per approdare, dopo una breve navigazione, sulla spiaggia di Las Bachas, sull’isola di Santa Cruz. È bianca, d’accordo, ma non presenta attrattive particolari. Si chiama Las Bachas a indicare i molteplici buchi sparsi qua e là e traccia dei nidi delle testuggini marine: lì sotto hanno deposto le uova. Più probabilmente, in verità, l’hanno fatto lì accanto, ci spiega Willy: neppure le tartine rughe sono così stupide da indicare esattamente a eventuali predatori dove trovare le ambite prede. A Las Bachas, intanto, vediamo i primi animali: qualche iguana marina (bestie nerissime ed estremamente diffuse sull’arcipelago), qualche fregata (nere anch’esse. Per chi non se ne intendesse, trattasi di uccelli. I maschi hanno una “tasca golare” rossa che gonfiano durante la stagione degli amori per attirare le femmine. Va da sé che noi l’abbiamo sempre vista floscia, visto che il periodo dell’accoppiamento è quanto mai lontano) e qualche bel cactus peloso.
Solo a posteriori abbiamo scoperto che un pomeriggio di benvenuto su questa spiaggia era un tantino sprecato, visto che avrebbero potuto portarci al Centro Darwin nell’interno dell’isola per farci vedere un po’ di Galapagos (sia pure in osservazione e in cattività). Ma che ci vuoi fare, gli altri c’erano stati la mattina.


(nella foto: fregata in amore)

02 settembre 2006

PRIMA DELL'ONDA NERA


Cinque giorni. Soltanto cinque giorni. Cioè neppure una settimana per scoprire il paradiso, meglio noto sotto il nome di Galapagos, le isole di Darwin.

È tutto quello che siamo riusciti a trovare a Quito: una minicrociera a bordo di una barca non troppo grande, a spasso per un arcipelago il cui nome fa rima con mito. Con la speranza di incontrare le enormi tartarughe, le Galapagos appunto e, al tempo stesso, con il desiderio che la nostra presenza non sia troppo devastante per quest’Eden già duramente provato lo scorso inverno, quello del 1998, dal Niño (e ora, mentre scrivo, a tre anni di distanza, ancor più ferocemente battuto dal naufragio di una petroliera nelle secche davanti a San Cristobal).


(nella foto: Sir Charles Darwin)
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