Questa giornata di riposo a Lo Manthang è una manna. Non tanto per piedi, caviglie, polpacci, cosce, adduttori e altri muscoli vari che, nel mio caso, sembrano stare inspiegabilmente benissimo, quanto perché ci permette di girare a casaccio in un villaggio (d’accordo è la capitale del Mustang, ma in realtà invece che quattro saranno quindici case e altrettante stalle) come in una vera vacanza. Cioè di avere un sacco di tempo davanti senza l'obbligo di far niente (non è che camminare sia un obbligo, è un piacere, però se non marci non arrivi, quindi non è che tu possa proprio scegliere).
Carlito, Francesca, Roberta la febbricitante e io percorriamo le strade a circuito mettendo il naso ovunque ci sia una porta aperta. Poi seguiamo una bizzarra indicazione verso un negozio di artigianato sperso in un groviglio di vicoli e finiamo per bussare a una casa. Alla finestra la bella ragazza che ci serve a tavola (la figlia del nostro ospite o di un altro notabile del luogo, non ho capito bene alla fine). Ci vede, ci riconosce, ci sorride scoprendo le labbra su denti bianchissimi e perfetti e ci fa entrare. Pare sia la casa di sua cugina, che, come tutti qui, incidentalmente vende collane e statuine, amuleti e coppette. Niente di interessante. Però la bella ragazza ci piace. Parla un inglese piccolo piccolo, ma è intelligente e sa farsi capire. È analfabeta ma (a dispetto di quello che ci ha appena detto il re) spiega che per le ragazze è normale anche oggi: le bimbe non mettono piede nelle aule (anche se il sovrano sostiene che qui tutti vanno a scuola, ma forse parlava solo per i maschietti). Niente di nuovo sotto il sole.
Ancora, racconta che ha 25 anni ma non è sposata perché “i locali non le piacciono”. Come darle torto? le tibetane a volte sono bellissime, ma gli uomini hanno davvero poco dell'Adone. Ride, è contenta della nostra attenzione, e vuole mostrarci il suo piccolo tesoro; così va a prendere un libro fotografico sul Mustang scritto da un tedesco di un’avvenenza rara. E, perché possiamo meglio apprezzare il volume, ci invita nella sala, dove ci sono la cugina, con il figlio poppante in braccio, e la migliore amica di bellaragazza (non mi riesce di ricordarne il nome): hanno in progetto un girls party per la serata e sono già supereccitate.
Le quattro scimmiette occidentali si siedono così a sfogliare il prezioso cimelio e le leggi dell’ospitalità impongono alle tre donne indigene di offrire il temibile tè locale, già zuccherato e, soprattutto, completato con il burro di nak. È una bevanda quasi mitica, di cui parlano tutti quelli che hanno visitato il Tibet e che ha fama di essere simile a una sorta di brodo e, per di più, di avere un sapore terribile.
Carlito affronta la sua tazza con indomito coraggio mentre le due ragazze e io la guardiamo a lungo con diffidenza. Infine intingo appena e mi dico che ce la si può fare. Poi arriva il colpo gobbo: ci propongono un dolcetto (o forse è un salatino, che ne so?, è una specie di nodo di pasta fritto, dall’apparenza innocua). Infrangendo consapevolmente tutte le norme del galateo internazionale tento di rifiutare, forse colpita da una sorta di preveggenza improvvisa. Rischio l’incidente diplomatico, così indietreggio come di fronte al re e finisco col brandire il misterioso stuzzichino.
Sorrido e lo addento; fatico a trattenere un conato, tanto inatteso quanto immediato. Per riprendermi allungo le labbra verso il tè al burro; un nuovo conato mi fa impallidire. Poso tutto sul tavolino e cerco di respirare profondamente. Carlito ha finito di bere ed è pronto per la seconda razione, mentre le ragazze non hanno neppure il coraggio di guardare il liquido beigiolino che sciacquetta davanti a loro né di affrontare il feroce salatino.
Sono affranta: è, ti giuro, la prima volta che mi capita una cosa del genere. Credevo di aver bevuto di tutto, ovunque. Pozioni che non avevo idea da dove venissero e dove andassero, in recipienti risciacquati alla bell’e meglio in fiumi putridi o in acque stagnanti; rischiando forse la salmonella ma mai la maleducazione. Fino a quando ho dovuto lottare con il burro di nak e, come avrai capito, ha vinto lui.
(nella foto: uno yak in Tibet)
5 commenti:
ommioddio. non mi vergogno a dire che avrei ridipinto le scarpe delle belle tibetane...
(bello però "le quattro scimmiette occidentali")
Ma il "TOH" africano lo hai mai assaggiato? E' una polenta solida di miglio, se ti va bene non sa di nulla, se ti va male ha un gusto orribile!
Aah, questi popoli e il loro senso di ospitalità!!!!! :-)
@ bonnie: ridipinto le scarpe?
@ dontyna: il toh manca. per di più confesso che, con mio enorme rammarico, l'Africa la conosco poco. molto poco.
ridipinto col vomito, forse sono stato criptico...e ora troppo esplicito...baci.
giusto cielo ;)
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