Ahi ahi ahi. Nima ha confessato: da Chhucksang a Muktinath ci attende un percorso “un po’ duro”. E se Nima dice “un po’ duro” per me significa ai limiti dell’impossibile. Sono preoccupata, inutile nasconderlo, vorrei che Carlito restasse con me, mi accompagnasse durante la salita. Non che mi attenda aiuto, è solo che vorrei che fosse accanto a me. Un supporto psicologico e, al tempo stesso, l’occasione di vivere un momento insieme.
Fisime. Il Carlito ingrana la quarta e diventa un puntino dallo zaino rosso due o tre creste avanti a me. Sono furibonda, gliene voglio da morire ma, intanto, non ho il tempo di occuparmene. Posso solo digrignare i denti e guardare bene dove metto i piedi. Se non fossi così nera potrei anche accorgermi del fatto che intorno a me si dispiega, lì, proprio sotto e sopra la costa che sto percorrendo, un paesaggio fortissimo. Rocce e torrenti come al solito, ma di una tale prepotenza che ne hai quasi paura. Cammino, attenta a dove poso le zampe e penso che un mulo avrebbe parecchia difficoltà a percorrere questo sentiero. In molti punti c’è appena lo spazio per un piede; sotto: lo strapiombo. Continuo, un respiro dopo l’altro.
Scelgo di restare dietro Ambrogio. Mi dà la carica. E poi non sono sola. Perché questa gola, questa strada, queste pietre, questi monti e questo fiumiciattolo potrebbero cominciare a odiarmi. Come io, da qualche parte, li odio; anche se sono bellissimi. Vado e mi mordo dentro. Non è stanchezza, è rabbia. E il contorno è troppo crudo per lenirla. Ambrogio tace. Poi incontriamo Roberta, ferma ad assaporare il vuoto e il pieno che la circondano. Decide di proseguire con noi. A volte ci attende, a volte ci segue. Comunque è lì. E insieme, in tre, arriviamo all’alpeggio. Dove ci aspetta uno degli ultimi pranzi.
Doccia fredda. Carlito mi viene incontro con la macchina da presa; sarà che sono incazzata, sarà che ha un tono sarcastico-superiore, fatto sta che alla videodomanda: “ci dica, ci dica, come si sente?” rispondo con un bel dito medio teso. Creo tensione, ma non me ne importa.
Mangio un po’ in disparte, vicino a Roberta, e osservo il gran casino attorno a me: a qualche centinaio di metri dal passo si è concentrata una varietà faunistica straordinaria. Ci sono uomini e donne che vengono dalla festa di Muktinath, con muli, cavalli, bambini, capre e, udite udite, due yak. Uno schianto: pelosi pelosi, con quel muso lungo, le cornone. Il sorriso si spegne: qualcuno ci spiega che vanno al macello.
Finisco di mangiare. Ambrogio è già pronto a ripartire. Così il gruppo degli atleti si mette in movimento. Carlito neppure mi saluta. Roberta mi chiede di aspettarla: vuole riposare ancora un attimo; che donna: mi fa regali su regali, oggi.
Quando decidiamo di riprendere il cammino abbiamo una piacevole sorpresa: il passo è vicinissimo. Ancora pochi metri di fatica e poi sarà tutta una scivolata a valle. L’ottimismo ritorna sulle nostre facce e ci sembra di raggiungere Muktinath in un attimo.
All’arrivo ci sono birra, tavoli sporchi e una specie di catapecchia in costruzione che pretenderà di qui a qualche mese di chiamarsi albergo. Siamo usciti dall’alto Mustang e si vede: una miriade di lodge, di ristorantini, campi da pallavolo, turisti. È il primo distacco anche se, forse, ancora non lo abbiamo realizzato. Del resto, la civiltà ha i suoi vantaggi: almeno venti pannelli annunciano doccia calda in venti posti diversi, compresa la nostra baracca appoggio.
Da noi, però, neanche a parlarne. La padrona trattiene a stento una risata all’ingenua domanda delle quattro coglione occidentali. Comunque non c’è modo, neppure facendo bollire l’acqua. Così, spinte dal desiderio di toglierci di dosso almeno un poco di polvere, Francesca, le due Roberte e io, ci armiamo di saponi e asciugamani e uno dopo l’altro, li facciamo tutti. Non c’è pannello che ci sfugga, anfratto, per quanto buio, che si sottragga alla nostra inchiesta. L’acqua calda è un acchiappacoglioni, non ce n’è l'ombra; e, nel frattempo, sono calati la sera e il freddo e lavarsi alla fontana gelata ci sembra un’ingiusta punizione.
(nella foto: Chumig Gyatsa a Muktinath, foto di David L. Snellgrove presa nel 1956 e pubblicata nel libro "Himalayan Pilgrimage", Shambhala Publishers, Boston, 1989 (ormai esaurito; www.muktinath.org/album/muktinath_site).
2 commenti:
come un romanzo, diceva quello scrittore francese...non so, la semplicità e fors'anche l'umanità di questi racconti nepalesi...mi sembra di conoscerti meglio, forse era l'atmosfera ad aprirti così. bonaventura.
oppure è che le sensazioni fisiche e psicologiche sono parte attiva in questo viaggio, come un antagonista sulla scena. negli altri diari virginie c'è meno perché conta meno. boh, l'ho buttata lì, magari è una stronzata
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