Eni finds its largest natural gas field
e mo' chi li ferma più?
Il titolo l'ho rubato a David Grossman. Più precisamente a "Follia". Avrei potuto dire che era un omaggio o una citazione, ma cosa diavolo può fregargliene a David Grossman di essere citato da me? Così gliel'ho rubato ma lo ringrazio comunque: è perfetto per i miei deliri da viaggio (ma è meglio se li leggete dal basso in alto)
21 ottobre 2011
29 settembre 2011
20 agosto 2011 - Di nuovo a Maputo
Maputo sembra bella a rivederla. Sarà perché il confronto con Beira, la seconda città del Mozambico, va a tutto vantaggio della capitale. O sarà perché sono le sei del mattino di un sabato, la luce toglie il respiro e per strada non c’è nessuno.
Però persino la spiaggia sembra bella. A mezzogiorno. Non come nelle foto esposte al Centre culturel franco-mozambicain ma bella comunque.
E la Baixa ci è ormai familiare. Il Jardin Tunduru ci avvolge col suo fascino decadente e Carlito si spinge addirittura a dire che vivrebbe volentieri un anno a Maputo. Io sogno l’Ilha do Moçambique, invece.
In fondo basta chiudere gli occhi: sta tutto lì.
(nella foto: l'alba a Chocas)
Però persino la spiaggia sembra bella. A mezzogiorno. Non come nelle foto esposte al Centre culturel franco-mozambicain ma bella comunque.
E la Baixa ci è ormai familiare. Il Jardin Tunduru ci avvolge col suo fascino decadente e Carlito si spinge addirittura a dire che vivrebbe volentieri un anno a Maputo. Io sogno l’Ilha do Moçambique, invece.
In fondo basta chiudere gli occhi: sta tutto lì.
(nella foto: l'alba a Chocas)
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27 settembre 2011
Ancora 19 agosto 2011 - Ancora Vilankulos. Africa. E il senso del tempo (Ricordo di viaggio numero 3)
Perché mi piace tanto l’Africa? Che sia perché gli africani ridono un sacco? In ogni caso l’Africa è magistra vitae.
E dà il senso del tempo. “Pole pole”, per esempio, l’equivalente swahili del malgascio “mura mura”, piano. Come dire che c’è tempo per tutto, tranquilli.
Ed è vero, almeno in Africa. Il tempo scorre diversamente. Forse perché nessuno se ne occupa e, tanto meno, se ne preoccupa. Il tempo è una delle poche cose di cui in Africa tutti sono ricchi, del resto.
Sui nostri biglietti Tco c’è scritto 20.50. Strano, appena due giorni fa l’autobus Beira-Maputo ci ha lasciato sulla strada, a 20 km da Vilankulos, alle 22.20 (con soli venti minuti di ritardo sull’orario previsto, dunque pressoché perfetto).
Ma sul biglietto Vilankulos-Beira sta scritto 20.50.
C’è scritto anche altro: presentarsi al check-in un’ora prima, alle 19.50. Ma quale check-in? Non c’è nessuna stazione a Vilankulos, l’autobus accosta appena dopo l’incrocio tra la nazionale 1 e la strada che porta al villaggio, davanti a una breve linea di capanne.
La mano pietosa della signora che ci ha venduto i biglietti ha segnato a penna “ore 20”, forse per risparmiarci dieci minuti d’attesa.
Qualcun altro, però, pensa magari che meritiamo una lezione sul tempo e, quando la proprietaria del nostro albergo chiama per informarsi dell’orario, sostiene che il bus Tco passerà alle otto e che noi dovremo essere alla fermata già alle sette e mezza.
È a quell’ora, infatti, che il taxi ci deposita davanti a una capanna. Il taxista spiega per noi alla signora che si scalda a un piccolo fuoco che siamo lì per l’autobus.
La signora non sembra sorpresa, pare al contrario fidare nel fatto che il venerdì - oggi - e il sabato l’autobus passi prima.
Mentre culla un bambino piccolissimo ci invita a sedere su una panca davanti al fuoco. La mamma del bambino, intanto, prepara la cena all’interno della capanna. Nient’altro.
Il piccolo viene messo a letto. Le due signore cenano sedute sulle sedie di fronte a noi, una ragazza viene a sua volta a prendere un piatto di riso e pollo. Nient’altro.
Il bimbo piange. La mamma rientra ad allattarlo e finisce per addormentarsi accanto a lui. La signora più anziana sposta qualche legnetto per dare vigore al fuoco. Poi si assopisce. Nient’altro.
Cinquanta metri più in là, intanto, si ferma qualche camion. La ragazza del pollo viene a comprare dalla nostra ospite un paio di confezioni in polistirolo che serviranno da gamelle ai camionisti. I ragazzi della baracca accanto ridono nel buio. Nient’altro.
Un signore si ferma a chiacchierare. Si siede davanti al fuoco che rintuzza a sua volta. Lo incuriosiamo: vuole sapere dove andiamo, da dove veniamo, etc. E riprende il cammino. Nient’altro.
A parte i fuochi (e qualche lampada a petrolio nelle capanne), è buio pesto. Infatti non ho mai visto un cielo così pieno di stelle in vita mia: il più africano tra tutti i cieli d’Africa. Eppure, anche in questo nero, c’è gente che cammina. Ci sono pure ragazzini che giocano. E la ragazza del pollo che torna ancora e ancora a svegliare la nostra ospite e a comprarle due birre per i suoi clienti. Al terzo viaggio anche lei prende coraggio e si informa sul conto nostro. Ride. Ridiamo. Di niente proprio, ma ridiamo. Nient’altro.
Ma il tempo passa. Tra braci che si spostano da una capanna all’altra per accendere un nuovo fuoco, camion che si arrestano e poi ripartono, stelle e nero, risa e un paio di ubriachi che tutti prendono bonariamente in giro e nel contempo tengono alla larga. Grande lezione di vita: oggi ho imparato il tempo dell’attesa.
E alle 22.15, per premiarmi, il Tco arriva.
(nella foto: resti di barca a Bengueira)
E dà il senso del tempo. “Pole pole”, per esempio, l’equivalente swahili del malgascio “mura mura”, piano. Come dire che c’è tempo per tutto, tranquilli.
Ed è vero, almeno in Africa. Il tempo scorre diversamente. Forse perché nessuno se ne occupa e, tanto meno, se ne preoccupa. Il tempo è una delle poche cose di cui in Africa tutti sono ricchi, del resto.
***
Sui nostri biglietti Tco c’è scritto 20.50. Strano, appena due giorni fa l’autobus Beira-Maputo ci ha lasciato sulla strada, a 20 km da Vilankulos, alle 22.20 (con soli venti minuti di ritardo sull’orario previsto, dunque pressoché perfetto).
Ma sul biglietto Vilankulos-Beira sta scritto 20.50.
C’è scritto anche altro: presentarsi al check-in un’ora prima, alle 19.50. Ma quale check-in? Non c’è nessuna stazione a Vilankulos, l’autobus accosta appena dopo l’incrocio tra la nazionale 1 e la strada che porta al villaggio, davanti a una breve linea di capanne.
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Qualcun altro, però, pensa magari che meritiamo una lezione sul tempo e, quando la proprietaria del nostro albergo chiama per informarsi dell’orario, sostiene che il bus Tco passerà alle otto e che noi dovremo essere alla fermata già alle sette e mezza.
È a quell’ora, infatti, che il taxi ci deposita davanti a una capanna. Il taxista spiega per noi alla signora che si scalda a un piccolo fuoco che siamo lì per l’autobus.
La signora non sembra sorpresa, pare al contrario fidare nel fatto che il venerdì - oggi - e il sabato l’autobus passi prima.
***
Mentre culla un bambino piccolissimo ci invita a sedere su una panca davanti al fuoco. La mamma del bambino, intanto, prepara la cena all’interno della capanna. Nient’altro.
Il piccolo viene messo a letto. Le due signore cenano sedute sulle sedie di fronte a noi, una ragazza viene a sua volta a prendere un piatto di riso e pollo. Nient’altro.
Il bimbo piange. La mamma rientra ad allattarlo e finisce per addormentarsi accanto a lui. La signora più anziana sposta qualche legnetto per dare vigore al fuoco. Poi si assopisce. Nient’altro.
Cinquanta metri più in là, intanto, si ferma qualche camion. La ragazza del pollo viene a comprare dalla nostra ospite un paio di confezioni in polistirolo che serviranno da gamelle ai camionisti. I ragazzi della baracca accanto ridono nel buio. Nient’altro.
Un signore si ferma a chiacchierare. Si siede davanti al fuoco che rintuzza a sua volta. Lo incuriosiamo: vuole sapere dove andiamo, da dove veniamo, etc. E riprende il cammino. Nient’altro.
A parte i fuochi (e qualche lampada a petrolio nelle capanne), è buio pesto. Infatti non ho mai visto un cielo così pieno di stelle in vita mia: il più africano tra tutti i cieli d’Africa. Eppure, anche in questo nero, c’è gente che cammina. Ci sono pure ragazzini che giocano. E la ragazza del pollo che torna ancora e ancora a svegliare la nostra ospite e a comprarle due birre per i suoi clienti. Al terzo viaggio anche lei prende coraggio e si informa sul conto nostro. Ride. Ridiamo. Di niente proprio, ma ridiamo. Nient’altro.
***
Ma il tempo passa. Tra braci che si spostano da una capanna all’altra per accendere un nuovo fuoco, camion che si arrestano e poi ripartono, stelle e nero, risa e un paio di ubriachi che tutti prendono bonariamente in giro e nel contempo tengono alla larga. Grande lezione di vita: oggi ho imparato il tempo dell’attesa.
E alle 22.15, per premiarmi, il Tco arriva.
(nella foto: resti di barca a Bengueira)
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26 settembre 2011
19 agosto 2011 - Vilankulos-Bengueira - Bye bye
Bengueira (nella foto) ripaga di tutto: l’arcipelago di Bazaruto è proprio come nelle foto se non meglio. Solo lo snorkeling è un po’ deludente. Comunque l’isola è uno schianto.
No bier für vier: per una volta rispettiamo la regola tedesca, niente birra prima delle quattro, quando siamo nuovamente in terraferma.
Bye bye Bazaruto.
Bye bye Vilankulos.
Quasi bye bye Africa.
No bier für vier: per una volta rispettiamo la regola tedesca, niente birra prima delle quattro, quando siamo nuovamente in terraferma.
Bye bye Bazaruto.
Bye bye Vilankulos.
Quasi bye bye Africa.
24 settembre 2011
18 agosto 2011 - Vilankulos - Pro e contro. Pole pole
Ieri sera abbiamo preso un passaggio - a pagamento: 300 Mts in quattro - da un camion. Jonas, che dirige lo Smugglers, dove alloggiamo, era in ritardo. Pole pole, come si dice al nord, in swahili: con calma. Finiamo per incontrarlo in cammino.
Lo Smugglers si rivela una pessima scelta. Le camere sono microscopiche e bruttine. Nella doccia c’è appena un filo d’acqua. Il lavandino è minuscolo. Il bar-ristorante penoso (la peggiore colazione del Mozambico), anche se da film: peccato sia uno Z movie su rugbysti sudafricani e groopies sfigate. Per giunta è in pessima posizione, lontano da tutto e rivolto verso la parte peggiore della spiaggia. Così Vilankulos ci fa una pessima impressione.
E invece la baia (nella foto, la vista da un ventoso caffè di Vilankulos) è mozzafiato. Ma per ricredersi bisogna scarpinare. Domani in dhow. Speriamo bene.
Lo Smugglers si rivela una pessima scelta. Le camere sono microscopiche e bruttine. Nella doccia c’è appena un filo d’acqua. Il lavandino è minuscolo. Il bar-ristorante penoso (la peggiore colazione del Mozambico), anche se da film: peccato sia uno Z movie su rugbysti sudafricani e groopies sfigate. Per giunta è in pessima posizione, lontano da tutto e rivolto verso la parte peggiore della spiaggia. Così Vilankulos ci fa una pessima impressione.
E invece la baia (nella foto, la vista da un ventoso caffè di Vilankulos) è mozzafiato. Ma per ricredersi bisogna scarpinare. Domani in dhow. Speriamo bene.
23 settembre 2011
17 agosto 2011 - Beira-Vilankulos - In viaggio
“Pensa direito, anda com Jeito”. È la pubblicità dei preservativi. Dipinta in nero e verde su un muro bianco a caratteri cubitali. Avevo letto da qualche parte che ce n’erano un mucchio, ma, curiosamente, è la prima che noto.
Si lascia Beira attraversando un paesaggio lussureggiante verde intenso, pieno di palme. Qui c’è un sacco d’acqua. Incrociamo poi il fiume Buzi, mentre il paesaggio e gli alberi cambiano. In ogni caso non c’è più nessuna traccia di sua maestà il baobab, vero re del nord del paese.
Intanto via Sms notizie non ottime da Vilankulos (oddio, relativizziamo; ieri sera abbiamo avuto una vera pessima notizia: è morto Christian Yaya, uomo buono e dolce, matematico e papà della Maison de la Joye. E facciamo fatica a non pensarci): domani niente snorkeling e, soprattutto, niente Bazaruto.
Seguono colline, papaye (albero curioso, con pochissimi rami, pochissime foglie e tantissimi frutti) e banani.
L’autobus Tco ci lascia, alle 10.20 di sera, in the middle of nowhere, al buio. E di Jonas, che sarebbe dovuto venire a prenderci, non c’è traccia.
(nella foto, il baobab di Peter's Place, a Pemba, spiaggia di Wimbe)
Si lascia Beira attraversando un paesaggio lussureggiante verde intenso, pieno di palme. Qui c’è un sacco d’acqua. Incrociamo poi il fiume Buzi, mentre il paesaggio e gli alberi cambiano. In ogni caso non c’è più nessuna traccia di sua maestà il baobab, vero re del nord del paese.
Intanto via Sms notizie non ottime da Vilankulos (oddio, relativizziamo; ieri sera abbiamo avuto una vera pessima notizia: è morto Christian Yaya, uomo buono e dolce, matematico e papà della Maison de la Joye. E facciamo fatica a non pensarci): domani niente snorkeling e, soprattutto, niente Bazaruto.
Seguono colline, papaye (albero curioso, con pochissimi rami, pochissime foglie e tantissimi frutti) e banani.
L’autobus Tco ci lascia, alle 10.20 di sera, in the middle of nowhere, al buio. E di Jonas, che sarebbe dovuto venire a prenderci, non c’è traccia.
(nella foto, il baobab di Peter's Place, a Pemba, spiaggia di Wimbe)
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21 settembre 2011
16 agosto 2011 - Beira - Pausa
A partire oggi non ce la si fa: sull’autobus Tco, che sembra bello e confortevole, non c’è posto. Ergo abbiamo davanti un intero giorno a Beira.
Decidiamo per il mare d’inverno e, al Clube Nautico, restiamo ore seduti su un’altalena a guardare la spiaggia, bella, e a contemplare il mare minaccioso e marrone. Fin quando non ci sorprende la pioggia.
La sera ci concediamo una cena al Tivoli. Non sarà la Panela Africana e non è neppure Sara, solo un asettico ristorante di lusso. E un gran bell’hotel, comunque. Poco distante da noi un tavolo di 8-10 italiani, vestiti come fossero a Milano: ordinano tutti pizza. Ohibò. Vero è che la focaccia all’Escorpião di Maputo, alla Feira Popular, non era niente male. Però.
(la foto non ha nulla a che vedere, però mi piaceva. Pescatore in posa sulla spiaggia di Cabaceira Pequena a Chocas)
Decidiamo per il mare d’inverno e, al Clube Nautico, restiamo ore seduti su un’altalena a guardare la spiaggia, bella, e a contemplare il mare minaccioso e marrone. Fin quando non ci sorprende la pioggia.
La sera ci concediamo una cena al Tivoli. Non sarà la Panela Africana e non è neppure Sara, solo un asettico ristorante di lusso. E un gran bell’hotel, comunque. Poco distante da noi un tavolo di 8-10 italiani, vestiti come fossero a Milano: ordinano tutti pizza. Ohibò. Vero è che la focaccia all’Escorpião di Maputo, alla Feira Popular, non era niente male. Però.
(la foto non ha nulla a che vedere, però mi piaceva. Pescatore in posa sulla spiaggia di Cabaceira Pequena a Chocas)
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20 settembre 2011
14 agosto 2011 - Ilha do Moçambique (e Ilha de Goa) - Drammaticamente bella
Sabbia bianca, faro, acqua trasparente. E al ritorno Sara, la nostra cuoca preferita. Questo posto ci mancherà. Anzi, già ci manca.
Anche se mi dico che è la solita storia. Il municipio è una meraviglia. La stazione di polizia la stanno risistemando. Europei, forse americani, forse sudafricani, mi pare persino un australiano, comprano splendide rovine coloniali e le fanno ristrutturare. I locali vengono espulsi dalle loro case appena è necessario. Dal punto di vista del business, naturalmente.
Di fronte al Patio dos Quintalinhos, di fianco alla moschea principale, è pieno di baracche sulla spiaggia. Uno dei pochi posti veramente zozzi che abbiamo visto in Mozambico. Attorno all’Ilha meglio non fare il bagno: tutti i rifiuti finiscono in mare. E in mare, naturalmente, si fa la cacca. Risultato: davanti a casa di Gabriele, là, dove tanta gente vive, il mare è una fogna.
L’Unesco è arrivato (Ilha fa parte del Patrimonio Mondiale dell'Umanità fin dal 1991), ma, dice Gabriele, tutti sono convinti che distribuisca fondi, in realtà fa il contrario: cerca finanziamenti. E finora, sostiene, l’Unesco a Ilha non ha fatto nulla. Eppure è evidente: invece di cacciare la popolazione, di cancellare l’anima dell’antica capitale e di trasformare Ilha do Moçambique in una cartolina colorata, bisognerebbe ristrutturare l’ospedale. È impressionante quanto sia fatiscente. Dall’esterno persino la prigione locale sembra versare in condizioni migliori. Ed è anche sconvolgente metterlo a confronto con la chiesa che sta lì accanto: come tutte le chiese dell’isola, ha l’aria smagliante di calce candida. Chissà se a raccogliere fondi per sistemare l’ospedale si può trovare qualcuno che garantisca che vengano effettivamente usati per quello.
Ilha è bella in maniera drammatica, del resto. Ma c’è almeno una cosa che ride sempre sull’isola: lo sguardo di Sara, la signora che cucina danzando. Gli occhi della meglio cuoca del Mozambico sono bellissimi. E brillano di luce propria.
Poi ci sono gli splendidi figli di Gabriele. E Gabriele stesso.
Such a nice place.
(nella foto: vista dal faro dell'isola di Goa)
Anche se mi dico che è la solita storia. Il municipio è una meraviglia. La stazione di polizia la stanno risistemando. Europei, forse americani, forse sudafricani, mi pare persino un australiano, comprano splendide rovine coloniali e le fanno ristrutturare. I locali vengono espulsi dalle loro case appena è necessario. Dal punto di vista del business, naturalmente.
Di fronte al Patio dos Quintalinhos, di fianco alla moschea principale, è pieno di baracche sulla spiaggia. Uno dei pochi posti veramente zozzi che abbiamo visto in Mozambico. Attorno all’Ilha meglio non fare il bagno: tutti i rifiuti finiscono in mare. E in mare, naturalmente, si fa la cacca. Risultato: davanti a casa di Gabriele, là, dove tanta gente vive, il mare è una fogna.
L’Unesco è arrivato (Ilha fa parte del Patrimonio Mondiale dell'Umanità fin dal 1991), ma, dice Gabriele, tutti sono convinti che distribuisca fondi, in realtà fa il contrario: cerca finanziamenti. E finora, sostiene, l’Unesco a Ilha non ha fatto nulla. Eppure è evidente: invece di cacciare la popolazione, di cancellare l’anima dell’antica capitale e di trasformare Ilha do Moçambique in una cartolina colorata, bisognerebbe ristrutturare l’ospedale. È impressionante quanto sia fatiscente. Dall’esterno persino la prigione locale sembra versare in condizioni migliori. Ed è anche sconvolgente metterlo a confronto con la chiesa che sta lì accanto: come tutte le chiese dell’isola, ha l’aria smagliante di calce candida. Chissà se a raccogliere fondi per sistemare l’ospedale si può trovare qualcuno che garantisca che vengano effettivamente usati per quello.
Ilha è bella in maniera drammatica, del resto. Ma c’è almeno una cosa che ride sempre sull’isola: lo sguardo di Sara, la signora che cucina danzando. Gli occhi della meglio cuoca del Mozambico sono bellissimi. E brillano di luce propria.
Poi ci sono gli splendidi figli di Gabriele. E Gabriele stesso.
Such a nice place.
(nella foto: vista dal faro dell'isola di Goa)
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19 settembre 2011
12-13 agosto 2011 - Ilha do Moçambique-Chocas e ritorno - Traghetto per il paradiso
Simone è un genio e Gabriele un angelo. O magari un arcangelo. Se non altro ha occhi celestiali. Comunque: Simone, nel viaggio aereo che ci ha portato a Nampula da Pemba, ha scovato una spiaggia bianchissima proprio di fronte all’Ilha do Moçambique, Chocas. E Gabriele ci prenota un bungalow e ci organizza il trasporto.
Partiamo con Husseini e Raimundo: due maghi della vela. Tendono, spostano e arrotolano quella tela rappezzata con una agilità e una maestria di cui non sarei mai capace. E il guscio di noce scivola silenzioso e leggero su un mare color smeraldo alla volta dell’Ilha do Seite Pals (nella foto). Sono attimi perfetti. Concentrati di felicità tali da rendere la mia prosa melensa.
Al primo attracco ci attende un banco di sabbia o, piuttosto, una lingua bianchissima, immersa in un’acqua trasparente. E sulla spiaggia ci aspetta pure una grande stella marina. Tutto è semplicemente magnifico.
Ma i superlativi non sono finiti. Ripartiamo e, dopo diverse manovre di aggiramento, raggiungiamo Chocas e i bungalow del Carrusca Mar e Sol. Forse Gabriele è davvero un arcangelo: grazie a lui siamo stati traghettati in paradiso.
Carlito, il terrore delle stelle marine, ha appena tirato fuori dall’acqua una meraviglia con le estremità rosso ceralacca. Bizzarramente ha quattro gambe, magari abbiamo scoperto una nuova specie, chissà.
Visto che Chocas ci vizia all’esagerazione questa sera, per noi, la luna è quasi piena. E siamo così entusiasti che l’indomani ci svegliamo all’alba per vedere il sole sorgere dal mare.
Infine, on the way back: tramonto con muezzin in stereo dalla terrazza di Gabriele al Patio.
Partiamo con Husseini e Raimundo: due maghi della vela. Tendono, spostano e arrotolano quella tela rappezzata con una agilità e una maestria di cui non sarei mai capace. E il guscio di noce scivola silenzioso e leggero su un mare color smeraldo alla volta dell’Ilha do Seite Pals (nella foto). Sono attimi perfetti. Concentrati di felicità tali da rendere la mia prosa melensa.
Al primo attracco ci attende un banco di sabbia o, piuttosto, una lingua bianchissima, immersa in un’acqua trasparente. E sulla spiaggia ci aspetta pure una grande stella marina. Tutto è semplicemente magnifico.
Ma i superlativi non sono finiti. Ripartiamo e, dopo diverse manovre di aggiramento, raggiungiamo Chocas e i bungalow del Carrusca Mar e Sol. Forse Gabriele è davvero un arcangelo: grazie a lui siamo stati traghettati in paradiso.
Carlito, il terrore delle stelle marine, ha appena tirato fuori dall’acqua una meraviglia con le estremità rosso ceralacca. Bizzarramente ha quattro gambe, magari abbiamo scoperto una nuova specie, chissà.
Visto che Chocas ci vizia all’esagerazione questa sera, per noi, la luna è quasi piena. E siamo così entusiasti che l’indomani ci svegliamo all’alba per vedere il sole sorgere dal mare.
Infine, on the way back: tramonto con muezzin in stereo dalla terrazza di Gabriele al Patio.
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18 settembre 2011
11 agosto 2011 - Ilha do Moçambique - Siamo ormai stregati
E sì, ci piace qui. L'antica capitale del Mozambico (lo è stata fino al 1898) è magica, Gabriele (il padrone del Patio dos Quintalinhos, vedere sotto) fantastico e Sara, la cuoca del chioschetto dove abbiamo pranzato in questi due giorni, la seconda migliore chef del Mozambico dopo Stéphane di Ibo, è un portento e l’anno scorso ha partecipato a “Terra Madre” a Torino (se cliccate sappiate che la foto non le rende giustizia. Sara è bellissima. In inglese, senza foto di Sara, qui).
Qui la vacanza ha un autentico sapore di vacanza. Qui ci si ferma volentieri.
Gabriele, milanese, architetto, gestore di bed&breakfast, padre di quattro figli e chissà che altro, è del resto fermo qui da 11 anni.
Si sta proprio bene.
La sera, a cena, siamo in undici (che sia il numero magico dell’isola?): oltre ai soliti noti Simone, Markus, Valérie, Philippe e Alex, ci sono Antonio, Lorena e pure altri due francesi che avevamo incrociato a Pemba e che hanno una scuola di immersione a Zanzibar, Muriel e Jean-Marc. Il gruppo vacanze Piemonte è al completo e io, qui e ora alle 20.30, proprio come alle 13.40 oggi da Sara, sono felice.
Qui la vacanza ha un autentico sapore di vacanza. Qui ci si ferma volentieri.
Gabriele, milanese, architetto, gestore di bed&breakfast, padre di quattro figli e chissà che altro, è del resto fermo qui da 11 anni.
Si sta proprio bene.
La sera, a cena, siamo in undici (che sia il numero magico dell’isola?): oltre ai soliti noti Simone, Markus, Valérie, Philippe e Alex, ci sono Antonio, Lorena e pure altri due francesi che avevamo incrociato a Pemba e che hanno una scuola di immersione a Zanzibar, Muriel e Jean-Marc. Il gruppo vacanze Piemonte è al completo e io, qui e ora alle 20.30, proprio come alle 13.40 oggi da Sara, sono felice.
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17 settembre 2011
10 agosto 2011 - Pemba-Nampula-Ilha do Moçambique - Magie
Nampula non varrà granché (che poi non ne ho idea, perché non ci fermiamo neppure un secondo in città), ma tutt’attorno è una meraviglia di pani di zucchero uno dopo l’altro. Anche solo guardarli dal finestrino dell’auto è un piacere.
A Ilha do Moçambique la casa di Gabriele, Patio dos Quintalinhos (nella foto), che poi è la sua ex casa, incredibilmente (tutti, a cominciare dalle ragazze del Kaskazini, ci avevano scoraggiato: “mmmmh, difficile che troviate posto”) ci accoglie. E a cena, altrettanto se non più inaspettatamente, ritroviamo Alex, che credevamo perso sulla via del lago Niassa (e becchiamo altri due italiani: Antonio e Lorena). La sera, rientrando, la luna, quasi piena, rende questa sgarrupata e bellissima città coloniale davvero magica.
A Ilha do Moçambique la casa di Gabriele, Patio dos Quintalinhos (nella foto), che poi è la sua ex casa, incredibilmente (tutti, a cominciare dalle ragazze del Kaskazini, ci avevano scoraggiato: “mmmmh, difficile che troviate posto”) ci accoglie. E a cena, altrettanto se non più inaspettatamente, ritroviamo Alex, che credevamo perso sulla via del lago Niassa (e becchiamo altri due italiani: Antonio e Lorena). La sera, rientrando, la luna, quasi piena, rende questa sgarrupata e bellissima città coloniale davvero magica.
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16 settembre 2011
9 agosto 2011 - Ilha do Ibo-Pemba - Si riflette (pole pole)
On the way back. Le Kazkazini girls (“la migliore agenzia di viaggi del Mozambico”, si ribadisce) ci avevano prenotato il transfert per domani anziché per oggi, ma un incontro fortuito con gli architetti senza frontiere Clara e Iñacio rimette a posto le cose.
Così partiamo con loro, che rientrano a Mekufi. Non so spiegare perché lasciare il Miti Miwiri mi spiace. Forse è solo che siamo arrivati fin quassù e che del paradiso di spiaggia bianca, coralli e fauna tropicale delle Quirimbas non abbiamo avuto neppure un assaggio. O forse è per tutta la bella gente che abbiamo incontrato tra Pemba e qui, anche se, in effetti, con Simone, Markus, Valérie e Philippe ci ritroveremo già stasera sulla Wimbe Beach (nella foto).
Comunque mi spiace. Anche se, ancora, il profondo fascino del Mozambico o anche solo la sua eclatante bellezza fatico a scovarli. Domani chissà.
Così partiamo con loro, che rientrano a Mekufi. Non so spiegare perché lasciare il Miti Miwiri mi spiace. Forse è solo che siamo arrivati fin quassù e che del paradiso di spiaggia bianca, coralli e fauna tropicale delle Quirimbas non abbiamo avuto neppure un assaggio. O forse è per tutta la bella gente che abbiamo incontrato tra Pemba e qui, anche se, in effetti, con Simone, Markus, Valérie e Philippe ci ritroveremo già stasera sulla Wimbe Beach (nella foto).
Comunque mi spiace. Anche se, ancora, il profondo fascino del Mozambico o anche solo la sua eclatante bellezza fatico a scovarli. Domani chissà.
8 agosto 2011 - Ilha do Ibo - Far niente
Se non altro oggi il tempo è splendido: il sole brilla e c’è un vento fantastico. Appunto. Mentre pregustiamo la colazione e lo snorkeling che ci attende al banco di sabbia, Elder ci disillude: se il vento non cala, ed è improbabile, non si può andare al banco di sabbia.
Carlito è quasi contento: Valérie e Philippe ci hanno decantato la cucina e, soprattutto, il granchio al latte di cocco e zenzero, della Panela Africana. A officiare il rito gastronomico è un francese, Stéphane.
Ci incamminiamo un po’ a caso, ma nella direzione decisamente sbagliata e finiamo per tirare l’ora di pranzo senza far nulla. Stéphane, effettivamente, ci delizia. In più è una persona davvero squisita.
Riciondoliamo fin quasi al tramonto, rosa, viola e azzurro, ma con foschia, dall’Ibo Island Lodge (è il tramonto nella foto, ma i colori sembran tutti diversi. E vabbè, son quelli dell'iPhone).
Carlito è quasi contento: Valérie e Philippe ci hanno decantato la cucina e, soprattutto, il granchio al latte di cocco e zenzero, della Panela Africana. A officiare il rito gastronomico è un francese, Stéphane.
Ci incamminiamo un po’ a caso, ma nella direzione decisamente sbagliata e finiamo per tirare l’ora di pranzo senza far nulla. Stéphane, effettivamente, ci delizia. In più è una persona davvero squisita.
Riciondoliamo fin quasi al tramonto, rosa, viola e azzurro, ma con foschia, dall’Ibo Island Lodge (è il tramonto nella foto, ma i colori sembran tutti diversi. E vabbè, son quelli dell'iPhone).
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tramonto
15 settembre 2011
Cammina cammina (Ricordo di viaggio numero quattro)
Gli africani camminano. Sempre. Vanno a piedi. Ovunque. Attraversano persino il mare, a volte. Ed è quello che ci apprestiamo a fare anche noi oggi.
Le premesse non sono delle migliori. Veniamo svegliati dalla pioggia, una vera pioggia tropicale, intensa e persistente. A colazione piovicchia appena e noi siamo disposti a rinunciare alla gita a Quirimba.
La nostra giovane guida, tuttavia, insiste sul fatto che si possa andare e anche Elder, il francese socio di Jörg ovvero l’altro volto del Miti Miwiri, ci rassicura. A quanto pare tutti pensano che si tratti di un temporale passeggero, anche se il cielo continua ad avere un’aria alquanto minacciosa.
Comunque sia, Alex, Carlito e io finiamo per salire a bordo di una barchetta sulla quale già siede una signora locale. Veniamo raggiunti da una spagnola e dalla sua guida. Salpiamo e a breve ricomincia a piovere. Ridiamo, ma, insomma, per tre quarti del viaggio sono raggomitolata addosso alla mia borsa, per fortuna impermeabile, nel tentativo di proteggere tutto quello che contiene.
Quando sollevo lo sguardo non vedo quasi nulla: gli occhiali si rigano immediatamente d’acqua. Avrei bisogno di tergicristalli, ma non li ho. Così rido.
Approdiamo a Quirimba completamente fradici. Ci ripariamo sotto la tettoia di una casa - la stessa dove poi pranzeremo: pesce in umido con patate.
Ci accendono un piccolo fuoco mentre io estraggo dalla borsa di Mary Poppins una salvietta, con la quale ci asciughiamo tutti, e un golf, che mi consente di cambiarmi.
Non appena la pioggia dà un po’ di tregua, partiamo per visitare il villaggio, ma siamo costretti a fare un paio di lunghe soste sotto altrettante tettoie perché, a quanto pare, oggi il tempo ha deciso di essere inclemente.
Cosa che, assicurano tutti, prima, durante e dopo la gita, è assolutamente inusuale per la stagione.
Il villaggio non ha nulla di interessante.
Nel XVI secolo Quirimba era una città importante e Rainer, il signore dell’isola, con cui tra breve faremo conoscenza, mi assicura che fino a pochi anni fa era un centro vivace, con qualche negozio e, persino, un ristorante.
Ora ci sono solo case (la struttura è bellissima: sono rette da tronchi di mangrovia, attraversati orizzontalmente da canne di bambù - o qualcosa del genere - e il reticolo formato dai due legni è riempito di pietre), una moschea, priva di qualsiasi allure, 11 pozzi (di cui ne vediamo due), un vecchio cimitero abbandonato e un altro, microscopico, più recente, un vecchio rudere coloniale (1600 e qualche, forse 32), una reliquia della casa del “tedesco” (misterioso personaggio di cui la nostra guida continua a parlare con un misto di reverenza e? timore? e di cui tra breve sapremo qualcosa di più) e un'enorme piantagione di cocco, anche questa del “tedesco”.
La cosa più fantastica del villaggio sono i ragazzini che giocano con camioncini e auto modellati con il fango. E pressoché perfetti. Ma anche qui, come altrove in Mozambico, se dobbiamo giudicare da quel che si vede per le strade, per adulti e bambini, il gioco nazionale sembra essere il “Non t’arrabbiare”.
Cammina cammina la pioggia finisce e ci ritroviamo in Europa: imbocchiamo un viale circondato da casuarinas, alberi che sembrano parenti dei pini ma non lo sono, mentre una mandria di vacche, pasciute ed evidentemente in buona salute, attraversa la strada poco più avanti.
Sul lato destro un primo edificio bianco, curatissimo, e poi un secondo, più grande e più bello.
Sul fondale bouganvillee, piante verdissime, fiori colorati e palme da cocco a perdifiato: siamo a casa del tedesco.
Non ho il tempo di terminare il pensiero quando un gigante biondo e abbronzato si precipita fuori dalla grande casa e apostrofa la nostra guida: “Che ci fai qui? Quante volte ti ho detto che non devi venire qui? Questa è casa mia”. Anche se non so il portoghese sono in grado di capire frasi semplici come queste e intervengo subito a proteggere la guida e a rassicurare il gigante: “Ci scusi, ce ne andiamo. Tanto piacere”. Il mio intervento sembra placarlo, dice cose tipo non ce l’ho con voi, ma lui deve capire che non può portare qui la gente in questo modo, dovrebbero almeno avvertirci eccetera. Poi ringhia ancora un po’ all’attenzione della guida, infine sorride, si presenta e ci invita a bere qualcosa a casa sua.
È così che facciamo conoscenza con il padrone dell’isola, ugualmente noto come “il tedesco”, alias Rainer, nonché di sua sorella, Coralia, se capisco bene, e del meccanico venuto dal Sudafrica a riparare la loro barca e altri motori, di cui ricordo solo il cognome, Veroni (la famiglia viene, appunto, da Verona: gli italiani hanno davvero popolato il mondo. Almeno fino a 50/60 anni fa).
Il nonno di Rainer arrivò a Quirimba nel 1926, vi si installò e diede il via alla piantagione. “Il tedesco”, quello vero, in un certo senso era lui; lui il capostipite, lui quello della casa in paese. Oggi però, senza dubbio, “il tedesco” è Rainer. Lo rivendica del resto (“I’m German, yes”, ci dice, mentre non posso fare a meno di notare che su una mensola dietro di lui, poco lontano da quella che immagino essere una foto delle nipoti, c’è una piccola asta che inalbera un’altrettanto piccola bandiera tedesca).
In pochi istanti sono tornata in Africa. Quella modello Karen Blixen, tuttavia. Rainer è un personaggio da film. Tra l’altro dell’attore ha tutto: una bella faccia (a mio avviso. I due uomini che mi accompagnano non sono d’accordo, ma fidatevi di una donna eterosessuale in questi casi, per cortesia), forse anche il fisico. Se non altro è alto più di un metro e 90. E magro. Per giunta ha le più belle mani che abbia visto in vita mia. Un perfetto Afrikaneer, però.
La conferma, che arriva: “sono cresciuto in Sudafrica”, non era neppure necessaria. Tutto in lui trasuda il colono. Il tono con cui ha parlato alla nostra guida e quello con cui parla a noi, il maschilismo che rivela quando racconta la sua storia (“prima ci fu mio nonno, poi ci fu mio padre. Mio padre è morto. Ora ci sono io”. E sua sorella? Sua madre? Sua nonna?), il suo disprezzo per il governo, i funzionari, le Ong (“tutta questa gente. Riceve soldi per aiutare l’Africa e cosa fa? La prima cosa che fa quando arriva è comprare una Land Rover”. Qui persino Coralia sfuma: “beh, ma come altrimenti potrebbero muoversi?” E Rainer cambia direzione: “oh, potrebbero comprare una Ma... Va altrettanto bene. Ma no, loro vogliono la Land Rover”) e, sembra, in generale, i neri. E persino il suo amore per il Mozambico, dove del resto vive e dove è nato, e per l’Africa.
Lo ascolto. E non posso negare di subire il suo, a mio avviso indiscutibile, fascino. Avrei parecchie obiezioni ma sono una sciocca europea in vacanza (quanto sciocca anche agli occhi di Rainer si vedrà tra poco) e sono sua ospite, perciò taccio. Carlito, intanto, incalza con le domande e, alla fine, un tema su cui concordiamo tutti si trova. Rainer ci racconta infatti che gli Americani (ma non solo, dice, pure altri. Per esempio gli svedesi) hanno cominciato a sondare il nord del Mozambico alla ricerca di petrolio. Un po’ ne hanno trovato, ma non tanto. In compenso, nel frattempo, hanno scovato un mucchio di gas. E quello, intanto che continuano a cercare il petrolio, intendono sfruttarlo subito. Così sono pronti a installare i loro impianti e a rovinare ancora un po’ l’Africa. “Poor Africa”.
Tra le vittime degli strali di Rainer ci sono pure i cinesi, che sono ormai intervenuti massicciamente a banchettare con quel che resta dell’Africa. I cinesi hanno costruito l’aeroporto internazionale di Maputo e si stanno ora occupando degli imbarchi nazionali. A quanto pare hanno imposto solo manovali cinesi e Carlito e io ci ricordiamo in effetti di esserci stupiti vedendo solo cinesi sulle impalcature all’aeroporto di Maputo.
In sostanza gli unici due mozambicani con i quali abbiamo parlato finora, le due R, Raul e Rainer, differenti per ceto sociale, cultura, background e un mucchio di altre cose, hanno senz’altro in comune l’odio verso i cinesi e il disprezzo verso la classe politica mozambicana. Argomenti che travagliano entrambi a un punto tale che costituiscono se non i loro unici, senz’altro i loro principali argomenti di conversazione.
Visto che, per quanto “signore dell’isola”, Rainer è educato, si interessa ai nostri progetti per la giornata. Quando gli spieghiamo che rientreremo a piedi a Ibo si mette a ridere.
È chiaro che non capisce cosa ci spinga a fare una simile stronzata. In effetti sostiene che quando un turista fa la traversata a piedi, pure se gli fa schifo, poi non osa dire che non ne valeva la pena. Perciò vende a tutti che è una figata. (Gli chiediamo pure del lago Niassa. Non c’è mai stato. Ma sostiene che nessuno gli ha mai detto che è una favola: “qualcuno dice che è una cagata, qualcun altro che è carino. Ma nessuno ha mai detto che è fantastico”. Difficile darsi del pirla da solo è, insomma, la tesi di Rainer).
Poi prende il libro delle maree e ricomincia a ridere. Pure sua sorella butta un occhio e anche lei sembra, per così dire, imbarazzata. Lei ci dice che, senza ombra di dubbio, l’acqua sarà alta (la marea è 1.40 metri) e ci toccherà camminare con il mare fino al petto. A dire il vero ce l’ha annunciato pure la nostra guida stamane, naturalmente dopo che siamo partiti e altrettanto naturalmente minimizzando (“solo cinque minuti, il resto no”), ma Coralia e Rainer hanno l’aria di dire che non è proprio la migliore idea del mondo.
Rainer soprattutto ci prende un po’ in giro e non capisce probabilmente come si possa pagare per fare una cosa del genere. In ogni caso entrambi ci dicono che non dobbiamo partire prima delle tre meno un quarto.
Arriva il momento di congedarsi e Rainer si offre di accompagnarci con la camionetta al villaggio. Salgo davanti di fianco a lui. Un fucile ci separa. Veroni dice che serve per i babbuini. Chissà. In ogni caso il fucile nell’abitacolo non mi sorprende affatto. Se questo fosse un film, del resto, il fucile ci sarebbe. Quindi c’è.
Al villaggio ribadiamo alle due guide le tesi dei tedeschi. Carlito fa persino un po’ il bullo: no, noi non partiamo prima delle tre meno un quarto. Alex e io ci fidiamo delle guide e quando ci intimano di partire si parte. Sono le due e un quarto più o meno. La nostra guida se l’è anche leggermente presa, mi dice che il tedesco non sa un tubo, che lui conosce benissimo le maree e che partendo più tardi ci saremmo trovati nella merda.
Non saprò mai chi aveva ragione. Quello che so è che sto camminando nel mare e che è bellissimo.
In effetti il mare non c’è; si è ritirato lontano. Al suo posto una distesa di sabbia bagnata, con qualche pozza d’argento; una cicogna, bianca, con le estremità delle ali nere, una vera bellezza, in equilibrio su una sola zampa; uno straordinario paesaggio lunare, un deserto senza dune con incredibili sfumature tra il rosa e il blu. Ne vale la pena, in questo momento lo so: queste immagini mi rimarranno per sempre dietro gli occhi. E potrò recuperarle e rivederle ogni volta che ne avrò bisogno solo richiudendo le palpebre.
Salvo che l’avventura non è ancora cominciata. L’acqua è ormai ai polpacci e il fondo comincia a essere melmoso. I sandali e i piedi iniziano a subire l’effetto ventosa e camminare diventa meno gradevole. L’acqua sale e la melma aumenta e mi cattura un sandalo. Uff. Che palle. E se avesse ragione Rainer?
Mi siedo nell’acqua e con le mani, a tentoni, cerco il sandalo nella melma. Lo trovo e lo ri-infilo alla bell’e meglio. Pessima idea. Dopo un paio di metri rischio di perderlo nuovamente. Così mi fermo e faccio le cose per bene. Nel frattempo vedo che la nostra guida comincia a prendere in mano la sua borsa e a togliersi la maglietta. Il momento di salvare il salvabile ponendolo sopra la testa evidentemente si avvicina. Perciò lo imito. Comincio ad averne le palle piene e il peggio deve ancora venire. Si avanza a fatica anche prima di imboccare il canale. Immagino che non andrà meglio.
Ci siamo, l’acqua mi arriva alle ascelle, il fondo è sempre melmoso, non capisco bene quale sia il cammino da prendere. La guida avanza senza darmi indicazioni. Per fortuna incrocio un paio di signori che mi spiegano che devo passare vicino al bambù, piantato nella sabbia, che serve appunto da indicazione per le barche; ed, evidentemente, anche per gli esseri umani.
Superato il primo canale camminare sembra più facile. Non per molto: il secondo canale è in agguato. Ed è un po’ peggio del primo. Il livello dell’acqua è più o meno lo stesso, ma la corrente sensibilmente più forte. Sacramento mentalmente ma poi la guida della ragazza spagnola mi viene incontro, mi offre il braccio e mi traghetta al sicuro. Poi torna a traghettare Alex e Carlito.
Voilà, quasi terra ferma. Molto quasi. Comincia il percorso accidentato tra le mangrovie. Sarebbe niente. Se non fosse che la pioggia della mattina ha prodotto un percorso di fango grigio e sdrucciolevole. E io scivolo. Una volta e resto in piedi. Due. E resto in piedi. La terza però mi ritrovo con il sedere nel fango e gli schizzi mi arrivano persino sugli occhiali.
Alex, galante, si offre di portarmi la borsa e io, paracula, accetto. Non so se a causa della quantità di zanzare, che peraltro beccano solo Carlito ma in quantità davvero impressionante, della mia scivolata o perché tale è il percorso previsto, ricominciamo a camminare nell’acqua. Quella di un piccolo canale tra le mangrovie. Pieno di sassi ma, se non altro, privo di fango.
Per conquistare Ibo ci vogliono effettivamente tre ore. Forse anche di più.
All'arrivo i due baldi maschietti vanno a prenotare la cena al Cinco Portas, mentre io cerco di passare inosservata e resto ad attenderli sotto il portico del Miti Miwiri.
Tentativo inutile: la guida è evidentemente entrata ad annunciare la missione compiuta e Jörg viene a informarsi sull’andamento della gita.
Il mio resoconto è fedele ma ridanciano e il risultato è che lui conclude con un “contento che abbiate apprezzato”.
Rainer non aveva poi così torto, in fin dei conti.
(nella foto: bassa marea a Quirimba)
Le premesse non sono delle migliori. Veniamo svegliati dalla pioggia, una vera pioggia tropicale, intensa e persistente. A colazione piovicchia appena e noi siamo disposti a rinunciare alla gita a Quirimba.
La nostra giovane guida, tuttavia, insiste sul fatto che si possa andare e anche Elder, il francese socio di Jörg ovvero l’altro volto del Miti Miwiri, ci rassicura. A quanto pare tutti pensano che si tratti di un temporale passeggero, anche se il cielo continua ad avere un’aria alquanto minacciosa.
Comunque sia, Alex, Carlito e io finiamo per salire a bordo di una barchetta sulla quale già siede una signora locale. Veniamo raggiunti da una spagnola e dalla sua guida. Salpiamo e a breve ricomincia a piovere. Ridiamo, ma, insomma, per tre quarti del viaggio sono raggomitolata addosso alla mia borsa, per fortuna impermeabile, nel tentativo di proteggere tutto quello che contiene.
Quando sollevo lo sguardo non vedo quasi nulla: gli occhiali si rigano immediatamente d’acqua. Avrei bisogno di tergicristalli, ma non li ho. Così rido.
Approdiamo a Quirimba completamente fradici. Ci ripariamo sotto la tettoia di una casa - la stessa dove poi pranzeremo: pesce in umido con patate.
Ci accendono un piccolo fuoco mentre io estraggo dalla borsa di Mary Poppins una salvietta, con la quale ci asciughiamo tutti, e un golf, che mi consente di cambiarmi.
Non appena la pioggia dà un po’ di tregua, partiamo per visitare il villaggio, ma siamo costretti a fare un paio di lunghe soste sotto altrettante tettoie perché, a quanto pare, oggi il tempo ha deciso di essere inclemente.
Cosa che, assicurano tutti, prima, durante e dopo la gita, è assolutamente inusuale per la stagione.
Il villaggio non ha nulla di interessante.
Nel XVI secolo Quirimba era una città importante e Rainer, il signore dell’isola, con cui tra breve faremo conoscenza, mi assicura che fino a pochi anni fa era un centro vivace, con qualche negozio e, persino, un ristorante.
Ora ci sono solo case (la struttura è bellissima: sono rette da tronchi di mangrovia, attraversati orizzontalmente da canne di bambù - o qualcosa del genere - e il reticolo formato dai due legni è riempito di pietre), una moschea, priva di qualsiasi allure, 11 pozzi (di cui ne vediamo due), un vecchio cimitero abbandonato e un altro, microscopico, più recente, un vecchio rudere coloniale (1600 e qualche, forse 32), una reliquia della casa del “tedesco” (misterioso personaggio di cui la nostra guida continua a parlare con un misto di reverenza e? timore? e di cui tra breve sapremo qualcosa di più) e un'enorme piantagione di cocco, anche questa del “tedesco”.
La cosa più fantastica del villaggio sono i ragazzini che giocano con camioncini e auto modellati con il fango. E pressoché perfetti. Ma anche qui, come altrove in Mozambico, se dobbiamo giudicare da quel che si vede per le strade, per adulti e bambini, il gioco nazionale sembra essere il “Non t’arrabbiare”.
Cammina cammina la pioggia finisce e ci ritroviamo in Europa: imbocchiamo un viale circondato da casuarinas, alberi che sembrano parenti dei pini ma non lo sono, mentre una mandria di vacche, pasciute ed evidentemente in buona salute, attraversa la strada poco più avanti.
Sul lato destro un primo edificio bianco, curatissimo, e poi un secondo, più grande e più bello.
Sul fondale bouganvillee, piante verdissime, fiori colorati e palme da cocco a perdifiato: siamo a casa del tedesco.
Non ho il tempo di terminare il pensiero quando un gigante biondo e abbronzato si precipita fuori dalla grande casa e apostrofa la nostra guida: “Che ci fai qui? Quante volte ti ho detto che non devi venire qui? Questa è casa mia”. Anche se non so il portoghese sono in grado di capire frasi semplici come queste e intervengo subito a proteggere la guida e a rassicurare il gigante: “Ci scusi, ce ne andiamo. Tanto piacere”. Il mio intervento sembra placarlo, dice cose tipo non ce l’ho con voi, ma lui deve capire che non può portare qui la gente in questo modo, dovrebbero almeno avvertirci eccetera. Poi ringhia ancora un po’ all’attenzione della guida, infine sorride, si presenta e ci invita a bere qualcosa a casa sua.
È così che facciamo conoscenza con il padrone dell’isola, ugualmente noto come “il tedesco”, alias Rainer, nonché di sua sorella, Coralia, se capisco bene, e del meccanico venuto dal Sudafrica a riparare la loro barca e altri motori, di cui ricordo solo il cognome, Veroni (la famiglia viene, appunto, da Verona: gli italiani hanno davvero popolato il mondo. Almeno fino a 50/60 anni fa).
Il nonno di Rainer arrivò a Quirimba nel 1926, vi si installò e diede il via alla piantagione. “Il tedesco”, quello vero, in un certo senso era lui; lui il capostipite, lui quello della casa in paese. Oggi però, senza dubbio, “il tedesco” è Rainer. Lo rivendica del resto (“I’m German, yes”, ci dice, mentre non posso fare a meno di notare che su una mensola dietro di lui, poco lontano da quella che immagino essere una foto delle nipoti, c’è una piccola asta che inalbera un’altrettanto piccola bandiera tedesca).
In pochi istanti sono tornata in Africa. Quella modello Karen Blixen, tuttavia. Rainer è un personaggio da film. Tra l’altro dell’attore ha tutto: una bella faccia (a mio avviso. I due uomini che mi accompagnano non sono d’accordo, ma fidatevi di una donna eterosessuale in questi casi, per cortesia), forse anche il fisico. Se non altro è alto più di un metro e 90. E magro. Per giunta ha le più belle mani che abbia visto in vita mia. Un perfetto Afrikaneer, però.
La conferma, che arriva: “sono cresciuto in Sudafrica”, non era neppure necessaria. Tutto in lui trasuda il colono. Il tono con cui ha parlato alla nostra guida e quello con cui parla a noi, il maschilismo che rivela quando racconta la sua storia (“prima ci fu mio nonno, poi ci fu mio padre. Mio padre è morto. Ora ci sono io”. E sua sorella? Sua madre? Sua nonna?), il suo disprezzo per il governo, i funzionari, le Ong (“tutta questa gente. Riceve soldi per aiutare l’Africa e cosa fa? La prima cosa che fa quando arriva è comprare una Land Rover”. Qui persino Coralia sfuma: “beh, ma come altrimenti potrebbero muoversi?” E Rainer cambia direzione: “oh, potrebbero comprare una Ma... Va altrettanto bene. Ma no, loro vogliono la Land Rover”) e, sembra, in generale, i neri. E persino il suo amore per il Mozambico, dove del resto vive e dove è nato, e per l’Africa.
Lo ascolto. E non posso negare di subire il suo, a mio avviso indiscutibile, fascino. Avrei parecchie obiezioni ma sono una sciocca europea in vacanza (quanto sciocca anche agli occhi di Rainer si vedrà tra poco) e sono sua ospite, perciò taccio. Carlito, intanto, incalza con le domande e, alla fine, un tema su cui concordiamo tutti si trova. Rainer ci racconta infatti che gli Americani (ma non solo, dice, pure altri. Per esempio gli svedesi) hanno cominciato a sondare il nord del Mozambico alla ricerca di petrolio. Un po’ ne hanno trovato, ma non tanto. In compenso, nel frattempo, hanno scovato un mucchio di gas. E quello, intanto che continuano a cercare il petrolio, intendono sfruttarlo subito. Così sono pronti a installare i loro impianti e a rovinare ancora un po’ l’Africa. “Poor Africa”.
Tra le vittime degli strali di Rainer ci sono pure i cinesi, che sono ormai intervenuti massicciamente a banchettare con quel che resta dell’Africa. I cinesi hanno costruito l’aeroporto internazionale di Maputo e si stanno ora occupando degli imbarchi nazionali. A quanto pare hanno imposto solo manovali cinesi e Carlito e io ci ricordiamo in effetti di esserci stupiti vedendo solo cinesi sulle impalcature all’aeroporto di Maputo.
In sostanza gli unici due mozambicani con i quali abbiamo parlato finora, le due R, Raul e Rainer, differenti per ceto sociale, cultura, background e un mucchio di altre cose, hanno senz’altro in comune l’odio verso i cinesi e il disprezzo verso la classe politica mozambicana. Argomenti che travagliano entrambi a un punto tale che costituiscono se non i loro unici, senz’altro i loro principali argomenti di conversazione.
Visto che, per quanto “signore dell’isola”, Rainer è educato, si interessa ai nostri progetti per la giornata. Quando gli spieghiamo che rientreremo a piedi a Ibo si mette a ridere.
È chiaro che non capisce cosa ci spinga a fare una simile stronzata. In effetti sostiene che quando un turista fa la traversata a piedi, pure se gli fa schifo, poi non osa dire che non ne valeva la pena. Perciò vende a tutti che è una figata. (Gli chiediamo pure del lago Niassa. Non c’è mai stato. Ma sostiene che nessuno gli ha mai detto che è una favola: “qualcuno dice che è una cagata, qualcun altro che è carino. Ma nessuno ha mai detto che è fantastico”. Difficile darsi del pirla da solo è, insomma, la tesi di Rainer).
Poi prende il libro delle maree e ricomincia a ridere. Pure sua sorella butta un occhio e anche lei sembra, per così dire, imbarazzata. Lei ci dice che, senza ombra di dubbio, l’acqua sarà alta (la marea è 1.40 metri) e ci toccherà camminare con il mare fino al petto. A dire il vero ce l’ha annunciato pure la nostra guida stamane, naturalmente dopo che siamo partiti e altrettanto naturalmente minimizzando (“solo cinque minuti, il resto no”), ma Coralia e Rainer hanno l’aria di dire che non è proprio la migliore idea del mondo.
Rainer soprattutto ci prende un po’ in giro e non capisce probabilmente come si possa pagare per fare una cosa del genere. In ogni caso entrambi ci dicono che non dobbiamo partire prima delle tre meno un quarto.
Arriva il momento di congedarsi e Rainer si offre di accompagnarci con la camionetta al villaggio. Salgo davanti di fianco a lui. Un fucile ci separa. Veroni dice che serve per i babbuini. Chissà. In ogni caso il fucile nell’abitacolo non mi sorprende affatto. Se questo fosse un film, del resto, il fucile ci sarebbe. Quindi c’è.
Al villaggio ribadiamo alle due guide le tesi dei tedeschi. Carlito fa persino un po’ il bullo: no, noi non partiamo prima delle tre meno un quarto. Alex e io ci fidiamo delle guide e quando ci intimano di partire si parte. Sono le due e un quarto più o meno. La nostra guida se l’è anche leggermente presa, mi dice che il tedesco non sa un tubo, che lui conosce benissimo le maree e che partendo più tardi ci saremmo trovati nella merda.
Non saprò mai chi aveva ragione. Quello che so è che sto camminando nel mare e che è bellissimo.
In effetti il mare non c’è; si è ritirato lontano. Al suo posto una distesa di sabbia bagnata, con qualche pozza d’argento; una cicogna, bianca, con le estremità delle ali nere, una vera bellezza, in equilibrio su una sola zampa; uno straordinario paesaggio lunare, un deserto senza dune con incredibili sfumature tra il rosa e il blu. Ne vale la pena, in questo momento lo so: queste immagini mi rimarranno per sempre dietro gli occhi. E potrò recuperarle e rivederle ogni volta che ne avrò bisogno solo richiudendo le palpebre.
Salvo che l’avventura non è ancora cominciata. L’acqua è ormai ai polpacci e il fondo comincia a essere melmoso. I sandali e i piedi iniziano a subire l’effetto ventosa e camminare diventa meno gradevole. L’acqua sale e la melma aumenta e mi cattura un sandalo. Uff. Che palle. E se avesse ragione Rainer?
Mi siedo nell’acqua e con le mani, a tentoni, cerco il sandalo nella melma. Lo trovo e lo ri-infilo alla bell’e meglio. Pessima idea. Dopo un paio di metri rischio di perderlo nuovamente. Così mi fermo e faccio le cose per bene. Nel frattempo vedo che la nostra guida comincia a prendere in mano la sua borsa e a togliersi la maglietta. Il momento di salvare il salvabile ponendolo sopra la testa evidentemente si avvicina. Perciò lo imito. Comincio ad averne le palle piene e il peggio deve ancora venire. Si avanza a fatica anche prima di imboccare il canale. Immagino che non andrà meglio.
Ci siamo, l’acqua mi arriva alle ascelle, il fondo è sempre melmoso, non capisco bene quale sia il cammino da prendere. La guida avanza senza darmi indicazioni. Per fortuna incrocio un paio di signori che mi spiegano che devo passare vicino al bambù, piantato nella sabbia, che serve appunto da indicazione per le barche; ed, evidentemente, anche per gli esseri umani.
Superato il primo canale camminare sembra più facile. Non per molto: il secondo canale è in agguato. Ed è un po’ peggio del primo. Il livello dell’acqua è più o meno lo stesso, ma la corrente sensibilmente più forte. Sacramento mentalmente ma poi la guida della ragazza spagnola mi viene incontro, mi offre il braccio e mi traghetta al sicuro. Poi torna a traghettare Alex e Carlito.
Voilà, quasi terra ferma. Molto quasi. Comincia il percorso accidentato tra le mangrovie. Sarebbe niente. Se non fosse che la pioggia della mattina ha prodotto un percorso di fango grigio e sdrucciolevole. E io scivolo. Una volta e resto in piedi. Due. E resto in piedi. La terza però mi ritrovo con il sedere nel fango e gli schizzi mi arrivano persino sugli occhiali.
Alex, galante, si offre di portarmi la borsa e io, paracula, accetto. Non so se a causa della quantità di zanzare, che peraltro beccano solo Carlito ma in quantità davvero impressionante, della mia scivolata o perché tale è il percorso previsto, ricominciamo a camminare nell’acqua. Quella di un piccolo canale tra le mangrovie. Pieno di sassi ma, se non altro, privo di fango.
Per conquistare Ibo ci vogliono effettivamente tre ore. Forse anche di più.
All'arrivo i due baldi maschietti vanno a prenotare la cena al Cinco Portas, mentre io cerco di passare inosservata e resto ad attenderli sotto il portico del Miti Miwiri.
Tentativo inutile: la guida è evidentemente entrata ad annunciare la missione compiuta e Jörg viene a informarsi sull’andamento della gita.
Il mio resoconto è fedele ma ridanciano e il risultato è che lui conclude con un “contento che abbiate apprezzato”.
Rainer non aveva poi così torto, in fin dei conti.
(nella foto: bassa marea a Quirimba)
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14 settembre 2011
6 agosto 2011 - Pemba-Ilha do Ibo - Caramba Quirimbas
6 e 20. Della mattina, naturalmente. Si parte per il mitico arcipelago delle Quirimbas.
Il minicar è già fuori ad attenderci. Siamo i primi e passiamo alla raccolta degli altri passeggeri. I due che seguirebbero sono leggermente in ritardo, così glissiamo alla ricerca del terzo. È il francese che abbiamo già intravisto al Mar e Sol e al Pemba Dolphin ieri e l’altro ieri, Alex, che viaggia da solo. Poi torniamo a recuperare Clara e il suo fidanzato Iñacio, due giovanissimi architetti che stanno terminando i loro due mesi di volontariato in un villaggio qui vicino, Mekufi, con Architetti senza frontiere. Infine salgono Linda e Peter, due olandesi che alloggiavano al Pirata, a Murrébuè, i cui proprietari sono una coppia di italiani, Susanna e Carlo. Linda e Peter sono vissuti a Maputo per due anni (quattro anni fa) e avevano voglia di tornare in Mozambico.
Il viaggio procede tranquillo per tre ore fino a raggiungere Tanganhangue, dove attendiamo un paio di persone per imbarcarci. Così ne approfittiamo per fare una specie di colazione a base di biscotti più o meno terribili (alla crema di limone o al cioccolato, secondo i casi) e di Coca Cola o Fanta. La barca è completa con l’arrivo di Marina e Roger, due svizzeri tedeschi che sono venuti in macchina da Berna, attraversando parte del Medio Oriente e un gran bel pezzo d’Africa. Sono in viaggio da ottobre con il loro Land Rover (cliccare solo se si è in grado di leggere il tedesco) e si sono fermati a Pemba qualche tempo a lavorare in un orfanotrofio. Strabilianti.
Il tragitto Pemba-Ilha do Ibo è nato sotto una buona stella: arriviamo all’isola e al Miti Miwiri (“due alberi” in swahili o, forse, nella lingua locale che appartiene comunque al ceppo bantù. Muti significa uno, ci spiegherà poi Raul, e Miti più di uno), dove ci accoglie, amabilmente, Jörg, uno dei due proprietari. Ci illustra le possibili escursioni: Quirimba, il banco di sabbia e il resort sull’isola di Matemo. Matemo è l’unica che prometta il paradiso sognato delle Quirimbas, ma arrivare fin qui per passare una giornata in un resort mi sembra un’opzione vagamente demenziale. Pinocchietto non è neppure sfiorato dalla possibilità di prenderla in considerazione. Ergo propendiamo per il surrogato dell’atollo: il banco di sabbia. Nein: sulla barca per domani non c’è posto e ci tocca prenotare per domenica.
Più tardi Pinocchietto va in missione speciale per capire che si possa fare domani e torna vittorioso in camera dicendomi che si parte immediatamente per una visita guidata dell’isola e che domenica andiamo a Quirimba. Alla rompiballe che sono non piace né l’una né l’altra opzione (preferirei visitare l’isola da sola e la gita a piedi a Quirimba non mi imballa troppo sulla carta) e abbiamo la prima, inutilissima, micro-discussione della vacanza.
Comunque si va. Raul, la guida, si rivela un uomo interessante: colto quanto basta, curioso del mondo ed estremamente chiacchierone. Racconta un mucchio di cose sfiziose, si lamenta, un po’ troppo a mio gusto, di corruzione e politici, ma nel complesso ci offre una panoramica niente male: la visione del mondo di un mozambicano, l’unica che abbiamo potuto ascoltare finora. Ci informa pure sulle sue origini: sangue molto, molto misto, parte portoghese, parte indiano, parte arabo.
Prima tappa della visita guidata è il negozio d’artigianato “Silversmith” proprio accanto al Miti Miwiri: già sulle guide avevamo letto che sull’isola di Ibo si lavora l’argento e si fabbricano monili in stile “swahili”. Sempre le guide sostengono che l’argento si ricava dalla fusione di vecchie monete, ma Raul dice che non è più così: le vecchie monete sono finite e l’argento arriva dal Sudafrica. In ogni caso braccialetti e collane sono molto belli e sono tentata di fare acquisti subito. Però mi trattengo e proseguiamo fino al Fortinho St. Antonio, o reduto, il rifugio, (ormai solo per le capre che ne hanno fatto il loro gabinetto), che sembra fosse un punto di osservazione per i portoghesi. Costruito nella parte più alta dell’isola, privo di vere fortificazioni o di armi, oltre a offrire riparo in caso di problemi, consente di far spaziare lo sguardo un po’ ovunque. E, probabilmente, all’epoca, di spiare l’eventuale arrivo di nemici e di dare l’allerta.
Ibo è in qualche modo una città fantasma (©Valérie, una nantaise - d’adozione - che alloggia con Philippe al Miti Miwiri. I due diverranno veri compagni di viaggio per noi, ma ancora non lo sappiamo). Le case coloniali sono tutte - o quasi - in completa rovina e se all’inizio si resta un po’ sconcertati, si finisce poi per essere affascinati da tutta questa imponente decadenza. Ci sono edifici di cui si intuisce la passata bellezza e altri che sono solo ruderi. Passiamo da un altro forte, il Fortinho San José e poi marchiamo visita dallo storico dell’isola, João Baptista, un arzillo ottantaduenne completamente sdentato che mi mostra le sue glorie: un’intervista su una rivista turistica spagnola e la sua foto su un volume dedicato a Ibo pubblicato dalla Fundacion Ibo, un’organizzazione di cooperanti spagnola molto attiva sull’isola. Hanno una scuola per carpentieri, contribuiscono allo sviluppo etc. etc. Nel libro, accanto alla sua foto, c’è la riproduzione di una lettera che João Baptista ha scritto al presidente, di cui vanta con me l’amicizia. Per tutta questa esibizione si beccherà pure una mancia, su richiesta della nostra guida.
Il clou del giro - Raul a parte - è la Fortaleza San João Baptista, omonima dello storico ;-), bella costruzione che ospita due “negozi” di artigianato: uno di gioiellini in argento swahili (bellissimi: mi porto via due collane e due braccialetti per un totale di 2000 meticais, circa 30 euro. Nota bene che all’Ibo Island Resort un braccialetto appena più grande dei miei viene venduto a 79 $ e una collana un poco più elaborata a 149 $. Si vede davvero che ai ricchi i soldi non bastano mai) e uno di ebanisteria, dove prendiamo una statuetta vagamente giacomettiana per 400 Mts (10 euro). I makunde, popolazione che vive nel nord del Mozambico, hanno fama di essere scultori fantastici e le statue scolpite da loro sono celebri in tutta questa porzione d’Africa.
Lo abbiamo sospettato già prima, perché qualcuno ne ha fatto cenno, ma ora è una certezza: oggi Ibo ospita un avvenimento straordinario, una partita di calcio nazionale. La squadra locale ospita la squadra che occupa il secondo posto nel campionato mozambicano (a detta di Raul il Mozambico calcisticamente fa schifo. Ma proprio schifo. Almeno per il calcio maschile, perché, al contrario, pare che le donne se la cavino piuttosto bene). Perciò chi se lo può permettere compra un biglietto per vedere il match. Turisti compresi. Gli altri studiano la postazione migliore per vedere a sbafo. Noi, che finora ce ne siamo completamente disinteressati, ci troviamo a seguire la partita dall’alto del forte. La squadra ospite è evidentemente più forte e il match finisce 4 a 2 per loro.
Partita a parte, dal forte si ha una vista splendida. Vediamo in lontananza Matemo e già mi dico che forse abbiamo fatto un errore a non prenotare l’escursione laggiù. Ma più vicino appare, bianchissimo, il banco di sabbia; e mi consola.
(nella foto: Ibo, città fantasma)
Il minicar è già fuori ad attenderci. Siamo i primi e passiamo alla raccolta degli altri passeggeri. I due che seguirebbero sono leggermente in ritardo, così glissiamo alla ricerca del terzo. È il francese che abbiamo già intravisto al Mar e Sol e al Pemba Dolphin ieri e l’altro ieri, Alex, che viaggia da solo. Poi torniamo a recuperare Clara e il suo fidanzato Iñacio, due giovanissimi architetti che stanno terminando i loro due mesi di volontariato in un villaggio qui vicino, Mekufi, con Architetti senza frontiere. Infine salgono Linda e Peter, due olandesi che alloggiavano al Pirata, a Murrébuè, i cui proprietari sono una coppia di italiani, Susanna e Carlo. Linda e Peter sono vissuti a Maputo per due anni (quattro anni fa) e avevano voglia di tornare in Mozambico.
Il viaggio procede tranquillo per tre ore fino a raggiungere Tanganhangue, dove attendiamo un paio di persone per imbarcarci. Così ne approfittiamo per fare una specie di colazione a base di biscotti più o meno terribili (alla crema di limone o al cioccolato, secondo i casi) e di Coca Cola o Fanta. La barca è completa con l’arrivo di Marina e Roger, due svizzeri tedeschi che sono venuti in macchina da Berna, attraversando parte del Medio Oriente e un gran bel pezzo d’Africa. Sono in viaggio da ottobre con il loro Land Rover (cliccare solo se si è in grado di leggere il tedesco) e si sono fermati a Pemba qualche tempo a lavorare in un orfanotrofio. Strabilianti.
Il tragitto Pemba-Ilha do Ibo è nato sotto una buona stella: arriviamo all’isola e al Miti Miwiri (“due alberi” in swahili o, forse, nella lingua locale che appartiene comunque al ceppo bantù. Muti significa uno, ci spiegherà poi Raul, e Miti più di uno), dove ci accoglie, amabilmente, Jörg, uno dei due proprietari. Ci illustra le possibili escursioni: Quirimba, il banco di sabbia e il resort sull’isola di Matemo. Matemo è l’unica che prometta il paradiso sognato delle Quirimbas, ma arrivare fin qui per passare una giornata in un resort mi sembra un’opzione vagamente demenziale. Pinocchietto non è neppure sfiorato dalla possibilità di prenderla in considerazione. Ergo propendiamo per il surrogato dell’atollo: il banco di sabbia. Nein: sulla barca per domani non c’è posto e ci tocca prenotare per domenica.
Più tardi Pinocchietto va in missione speciale per capire che si possa fare domani e torna vittorioso in camera dicendomi che si parte immediatamente per una visita guidata dell’isola e che domenica andiamo a Quirimba. Alla rompiballe che sono non piace né l’una né l’altra opzione (preferirei visitare l’isola da sola e la gita a piedi a Quirimba non mi imballa troppo sulla carta) e abbiamo la prima, inutilissima, micro-discussione della vacanza.
Comunque si va. Raul, la guida, si rivela un uomo interessante: colto quanto basta, curioso del mondo ed estremamente chiacchierone. Racconta un mucchio di cose sfiziose, si lamenta, un po’ troppo a mio gusto, di corruzione e politici, ma nel complesso ci offre una panoramica niente male: la visione del mondo di un mozambicano, l’unica che abbiamo potuto ascoltare finora. Ci informa pure sulle sue origini: sangue molto, molto misto, parte portoghese, parte indiano, parte arabo.
Prima tappa della visita guidata è il negozio d’artigianato “Silversmith” proprio accanto al Miti Miwiri: già sulle guide avevamo letto che sull’isola di Ibo si lavora l’argento e si fabbricano monili in stile “swahili”. Sempre le guide sostengono che l’argento si ricava dalla fusione di vecchie monete, ma Raul dice che non è più così: le vecchie monete sono finite e l’argento arriva dal Sudafrica. In ogni caso braccialetti e collane sono molto belli e sono tentata di fare acquisti subito. Però mi trattengo e proseguiamo fino al Fortinho St. Antonio, o reduto, il rifugio, (ormai solo per le capre che ne hanno fatto il loro gabinetto), che sembra fosse un punto di osservazione per i portoghesi. Costruito nella parte più alta dell’isola, privo di vere fortificazioni o di armi, oltre a offrire riparo in caso di problemi, consente di far spaziare lo sguardo un po’ ovunque. E, probabilmente, all’epoca, di spiare l’eventuale arrivo di nemici e di dare l’allerta.
Ibo è in qualche modo una città fantasma (©Valérie, una nantaise - d’adozione - che alloggia con Philippe al Miti Miwiri. I due diverranno veri compagni di viaggio per noi, ma ancora non lo sappiamo). Le case coloniali sono tutte - o quasi - in completa rovina e se all’inizio si resta un po’ sconcertati, si finisce poi per essere affascinati da tutta questa imponente decadenza. Ci sono edifici di cui si intuisce la passata bellezza e altri che sono solo ruderi. Passiamo da un altro forte, il Fortinho San José e poi marchiamo visita dallo storico dell’isola, João Baptista, un arzillo ottantaduenne completamente sdentato che mi mostra le sue glorie: un’intervista su una rivista turistica spagnola e la sua foto su un volume dedicato a Ibo pubblicato dalla Fundacion Ibo, un’organizzazione di cooperanti spagnola molto attiva sull’isola. Hanno una scuola per carpentieri, contribuiscono allo sviluppo etc. etc. Nel libro, accanto alla sua foto, c’è la riproduzione di una lettera che João Baptista ha scritto al presidente, di cui vanta con me l’amicizia. Per tutta questa esibizione si beccherà pure una mancia, su richiesta della nostra guida.
Il clou del giro - Raul a parte - è la Fortaleza San João Baptista, omonima dello storico ;-), bella costruzione che ospita due “negozi” di artigianato: uno di gioiellini in argento swahili (bellissimi: mi porto via due collane e due braccialetti per un totale di 2000 meticais, circa 30 euro. Nota bene che all’Ibo Island Resort un braccialetto appena più grande dei miei viene venduto a 79 $ e una collana un poco più elaborata a 149 $. Si vede davvero che ai ricchi i soldi non bastano mai) e uno di ebanisteria, dove prendiamo una statuetta vagamente giacomettiana per 400 Mts (10 euro). I makunde, popolazione che vive nel nord del Mozambico, hanno fama di essere scultori fantastici e le statue scolpite da loro sono celebri in tutta questa porzione d’Africa.
Lo abbiamo sospettato già prima, perché qualcuno ne ha fatto cenno, ma ora è una certezza: oggi Ibo ospita un avvenimento straordinario, una partita di calcio nazionale. La squadra locale ospita la squadra che occupa il secondo posto nel campionato mozambicano (a detta di Raul il Mozambico calcisticamente fa schifo. Ma proprio schifo. Almeno per il calcio maschile, perché, al contrario, pare che le donne se la cavino piuttosto bene). Perciò chi se lo può permettere compra un biglietto per vedere il match. Turisti compresi. Gli altri studiano la postazione migliore per vedere a sbafo. Noi, che finora ce ne siamo completamente disinteressati, ci troviamo a seguire la partita dall’alto del forte. La squadra ospite è evidentemente più forte e il match finisce 4 a 2 per loro.
Partita a parte, dal forte si ha una vista splendida. Vediamo in lontananza Matemo e già mi dico che forse abbiamo fatto un errore a non prenotare l’escursione laggiù. Ma più vicino appare, bianchissimo, il banco di sabbia; e mi consola.
(nella foto: Ibo, città fantasma)
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12 settembre 2011
3-5 agosto 2011 - Pemba - Sospesi
La vacanza non decolla. Noi un po’ di più. In quattro giorni di Mozambico abbiamo già acquistato due voli, Maputo-Pemba - fatto - e Pemba-Napula, per il 10 agosto, e organizzato il trasferimento e l’alloggio alle Quirimbas - più precisamente a Ibo, l’unica tra le isole dove sia possibile pernottare a prezzi congrui per i comuni mortali. Insomma, finora s’è organizzato parecchio e goduto poco. Forse è sempre così, non so. Forse è solo che invecchiamo. Comunque a Pemba abbiamo, as usual, il nostro quartier generale: è Mar e Sol, un po’ più sfigato del vicino Pemba Dolphin, ma molto, molto rilassato. Sarà che la patronne è un’africana e che anche la maggior parte dei frequentatori sono neri, ma mi sento più a mio agio qui che sotto gli occhi del padrone bianco del Dolphin, dove abbiamo cenato comunque ieri sera, e dove, probabilmente, passeremo l’intera giornata domani.
Ancora non un solo bagno. Di mattina, a marea bassa, il mare non invita. Spuntano le alghe, i pescatori lavorano, in acqua non c’è un bagnante. E alle 4, come ora, quando l’acqua prende uno splendido colore azzurro-argento, la marea è alta, le alghe scomparse, la sabbia perfettamente bianca, la spiaggia è al suo meglio e tutti sono in mare, ho un po’ troppo freddo per gettarmi. Ancora questione d’età, probabilmente. Domani, lo farò domani: in un’intera giornata di spiaggia non potrò evitare l’acqua, immagino.
Che altro? Il Residencial Reggio Emilia è leggermente meno ospitale di come descritto dalle guide. Di Carlo Fornaciari non c’è ombra. La signorina che ci accoglie, Isadora, è la figlia (adottiva o giù di lì), che a sua volta ha un piccolo. E, suppongo, la bella signora nera elegante sia la moglie di Carlo e la madre di Isadora. Ma sono solo supposizioni, appunto, in realtà non si chiacchiera. Comunque il posto non è male, anche se un po’ eccentrico (nel senso “non proprio in centro”).
Le due del Kazkazini, invece, saranno pure la migliore agenzia di viaggi del Mozambico, ma sono parecchio odiose. E, per giunta, ci hanno tolto, a torto, qualsiasi illusione sulle possibilità di andare al lago Niassa (per due pezzenti come noi, almeno, sembra sottintendere Claer).
(nella foto: la spiaggia di Wimbe, a Pemba)
Ancora non un solo bagno. Di mattina, a marea bassa, il mare non invita. Spuntano le alghe, i pescatori lavorano, in acqua non c’è un bagnante. E alle 4, come ora, quando l’acqua prende uno splendido colore azzurro-argento, la marea è alta, le alghe scomparse, la sabbia perfettamente bianca, la spiaggia è al suo meglio e tutti sono in mare, ho un po’ troppo freddo per gettarmi. Ancora questione d’età, probabilmente. Domani, lo farò domani: in un’intera giornata di spiaggia non potrò evitare l’acqua, immagino.
Che altro? Il Residencial Reggio Emilia è leggermente meno ospitale di come descritto dalle guide. Di Carlo Fornaciari non c’è ombra. La signorina che ci accoglie, Isadora, è la figlia (adottiva o giù di lì), che a sua volta ha un piccolo. E, suppongo, la bella signora nera elegante sia la moglie di Carlo e la madre di Isadora. Ma sono solo supposizioni, appunto, in realtà non si chiacchiera. Comunque il posto non è male, anche se un po’ eccentrico (nel senso “non proprio in centro”).
Le due del Kazkazini, invece, saranno pure la migliore agenzia di viaggi del Mozambico, ma sono parecchio odiose. E, per giunta, ci hanno tolto, a torto, qualsiasi illusione sulle possibilità di andare al lago Niassa (per due pezzenti come noi, almeno, sembra sottintendere Claer).
(nella foto: la spiaggia di Wimbe, a Pemba)
06 settembre 2011
2 agosto 2011 - Maputo - Prime impressioni
Malgrado l’indiscutibile fascino che l’Africa esercita sempre su di me, città comprese, non riesco davvero a capire dove risieda lo charme di Maputo (ma ho tempo per cambiare idea e, più tardi, la muterò, infatti). Vero è che il “Petit futé”, che la definisce “una delle più belle capitali del continente nero, se non la più bella”, sostiene che bisogna vederla dal mare. O, almeno, dall’alto. E vero pure che a noi, nel solo giorno trascorso in città, non è riuscita né l’una né l’altra cosa. Per di più l’abbiamo affrontata nel peggiore dei modi, andando in cerca di un’agenzia di viaggi dove acquistare il biglietto aereo per Pemba e percorrendo dunque a piedi un mucchio di strade in una parte ininteressante della città.
Così, quando un taxi ci conduce nella Baixa, la città vecchia, non siamo forse nella migliore disposizione d’animo. In ogni modo la cattedrale è ininteressante, il centro culturale franco-mozambicano figo e fighetto, il porto mercantile. Invece la stazione (nella foto, l'ingresso) è bellissima, mentre la Feira Popular, dove pranziamo, una delusione. Per questo decidiamo di andare a cena sulla Costa do Sol, nell’omonimo ristorante, caldeggiato da entrambe le guide. Denise, la patronne della nostra lussuosa guest house, tuttavia, ci consiglia il MarNaBrasa, che ha aperto a dicembre. Ma, ahinoi, da quello la spiaggia non si vede. Dunque chissà: il giudizio è sospeso.
Così, quando un taxi ci conduce nella Baixa, la città vecchia, non siamo forse nella migliore disposizione d’animo. In ogni modo la cattedrale è ininteressante, il centro culturale franco-mozambicano figo e fighetto, il porto mercantile. Invece la stazione (nella foto, l'ingresso) è bellissima, mentre la Feira Popular, dove pranziamo, una delusione. Per questo decidiamo di andare a cena sulla Costa do Sol, nell’omonimo ristorante, caldeggiato da entrambe le guide. Denise, la patronne della nostra lussuosa guest house, tuttavia, ci consiglia il MarNaBrasa, che ha aperto a dicembre. Ma, ahinoi, da quello la spiaggia non si vede. Dunque chissà: il giudizio è sospeso.
05 settembre 2011
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31 luglio - 1° agosto 2011 - Spazio aereo
Johannesburg decidiamo di evitarcela. La guida ci ha chiesto 90 $ a testa per un giro di tre ore. E, da quanto ci ha descritto, non ci sembra che valga la pena.
Così finiamo per conoscere l’aeroporto O. R. Timbo come fosse casa nostra: vaghiamo tra il terminal A e il B dalle 11 di mattina fin dopo le 14, quando finalmente riusciamo a fare il check-in per Maputo. Viaggiamo con Lam, Linhas Aéreas de Moçambique, su un piccolo aereo da 29 posti. Perfetto contrappasso al gigantesco A380 (nella foto) sul quale ci siamo imbarcati ieri sera a Parigi.
La partenza, inizialmente prevista per le 16.55, è già stata ritardata: il nuovo orario di decollo è 17.35 e l’imbarco inizierà alle 17.15. Il che ci lascia largamente il tempo di esplorare anche il duty-free dell’O. R. Timbo.
Umore pessimo. Nuvole nere. Il fatto che l’aereo non parta affatto alle 17.35, visto che alle 18.55 ancora non si sa quale sia “il problema tecnico” che ci tiene a terra, non migliora le cose. L’indiano al banco non sa più cosa raccontarci e attorno alle sette comincia a ventilare la possibilità che ci tocchi restare a Johannesburg fino a domattina. Dev’essere lui che porta sfiga, però: poco dopo che si è allontanato, insieme ai suoi due compari, e ha lasciato il banco alle due hostess di terra della Lam, una delle due ragazze risponde a una chiamata con un “Alleluiah” e noi tutti capiamo che si parte.
Arriviamo a Maputo attorno alle nove. Le fotografie per il visto non servono, hanno un sistema incredibile, superelettronico e le foto te le fanno loro.
Il taxista è, come previsto, ad attenderci (è lì dalle sei) e, per fortuna, la Mozaïka Guest House è una delizia (beh, da 120 € a notte, ci mancherebbe altro). Però il letto è una favola ed è tutto quello di cui abbiamo bisogno.
Johannesburg decidiamo di evitarcela. La guida ci ha chiesto 90 $ a testa per un giro di tre ore. E, da quanto ci ha descritto, non ci sembra che valga la pena.
Così finiamo per conoscere l’aeroporto O. R. Timbo come fosse casa nostra: vaghiamo tra il terminal A e il B dalle 11 di mattina fin dopo le 14, quando finalmente riusciamo a fare il check-in per Maputo. Viaggiamo con Lam, Linhas Aéreas de Moçambique, su un piccolo aereo da 29 posti. Perfetto contrappasso al gigantesco A380 (nella foto) sul quale ci siamo imbarcati ieri sera a Parigi.
La partenza, inizialmente prevista per le 16.55, è già stata ritardata: il nuovo orario di decollo è 17.35 e l’imbarco inizierà alle 17.15. Il che ci lascia largamente il tempo di esplorare anche il duty-free dell’O. R. Timbo.
Umore pessimo. Nuvole nere. Il fatto che l’aereo non parta affatto alle 17.35, visto che alle 18.55 ancora non si sa quale sia “il problema tecnico” che ci tiene a terra, non migliora le cose. L’indiano al banco non sa più cosa raccontarci e attorno alle sette comincia a ventilare la possibilità che ci tocchi restare a Johannesburg fino a domattina. Dev’essere lui che porta sfiga, però: poco dopo che si è allontanato, insieme ai suoi due compari, e ha lasciato il banco alle due hostess di terra della Lam, una delle due ragazze risponde a una chiamata con un “Alleluiah” e noi tutti capiamo che si parte.
Arriviamo a Maputo attorno alle nove. Le fotografie per il visto non servono, hanno un sistema incredibile, superelettronico e le foto te le fanno loro.
Il taxista è, come previsto, ad attenderci (è lì dalle sei) e, per fortuna, la Mozaïka Guest House è una delizia (beh, da 120 € a notte, ci mancherebbe altro). Però il letto è una favola ed è tutto quello di cui abbiamo bisogno.
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